LAURA NOVELLI | Una soldatessa americana tiene al guinzaglio un uomo e lo guarda. Lei è in piedi. Lui steso a terra, nudo. La fotografia, una delle immagini più scioccanti che la Storia recente ci abbia propinato, appartiene ad una serie di scatti che testimoniano le disumane torture perpetrate dall’esercito statunitense nel carcere iracheno di Abu Ghraib (in arabo, “il posto dei corvi”) nel 2004. Il 21 maggio di quello stesso anno il Washington Post rese pubblica l’oscenità indicibile di tale violenza. Ne derivò una scia di polemiche e di dissenso. Poi, il silenzio.

É proprio dal racconto di ciò che quella terribile foto muove, innesca, scatena nella psiche di chi la guarda che prende le mosse Au bord, monologo della celebre scrittrice e drammaturga francese Claudine Galea che, scritto nel 2011, premiato col Grand Prix de littérature dramatique e rappresentato in tutto il mondo, arriva adesso in prima assoluta nel nostro Paese nella lettura registica di Valentino Villa, con Monica Piseddu interprete. Si tratta di un testo molto complesso, dove il riverbero intimo di quello scandalo indicibile e orrendo si traduce in un flusso di coscienza che attraversa diversi piani e diverse figure femminili – l’aguzzina della fotografia, l’autrice stessa, la madre, l’amante – costruendo un materiale linguistico assolutamente libero, fluido, organico. Ma non meno scabroso, in termini di verità personale e collettiva, della fotografia di Abu Ghraib. Denso di echi autobiografici, di riflessioni filosofiche e di declinazioni liriche (con esplisiti riferimenti, tra l’altro, ai versi di Dominique Fourcade), Au Bord fa pensare a certi “dramaticules” di Samuel Beckett (ad esempio, Not I o Dondolo) ed evoca un immaginario continuamente aperto, enigmatico, volutamente irrisolto, irrisolvibile.

Ne abbiamo parlato con lo stesso Villa, raggiungendolo al telefono durante le ultime prove prima del debutto, previsto il 18 ottobre al teatro Vascello di Roma nell’ambito del Romaeuropa Festival 2022, anche produttore del lavoro insieme con 369 gradi, la Triennale di Milano e il LAC di Lugano.

Da dove nasce l’idea di portare in scena un’opera come Au bord?

Da un innamoramento istantaneo, direi. Ricordo che stavo vivendo un periodo in cui, avvalendomi dell’aiuto di alcuni referenti, leggevo molti testi. Ho chiesto un suggerimento a Valentina Fago, che è poi diventata la nostra traduttrice, e lei mi ha consigliato di accostarmi a questa drammaturgia. Ne sono rimasto colpito già alla prima lettura. Sembra un concetto generico, eppure è stato proprio così. Au bord mi ha immediatamente colpito, in primo luogo perché è un testo scritto in una forma inusuale rispetto a tanta drammaturgia contemporanea su cui avevo lavorato in precedenza. Vi è qui un grado di libertà assoluto, che rende la scrittura del tutto personale, sia dal punto di vista stilistico sia per quanto riguarda il rapporto con le cose, con i temi trattati e, dunque, con la foto stessa. Per cui ho sentito sin da subito il desiderio di approfondire questa mia prima relazione con il testo e, per poterlo fare, ho chiesto a Monica Piseddu di leggerlo anche lei. É la prima persona, la prima interprete che mi è venuta in mente. Ci conosciamo dai tempi dell’Accademia e la stimo immensamente.

ph. Claudia Pajewski

Nelle note introduttive del programma di sala tu dici che attraverso il guardare, Claudine Galea “rienventa la lingua”. Una lingua che propone continui slittamenti di piani, materiali, ambiti di riflessione, figure evocate. Poesia allo stato puro. Ecco, in che senso possiamo parlare di “invenzione” linguistica?

Quando dico “invenzione della lingua” parto da una riflessione che condivido con lo storico dell’arte e filosofo George Didi-Huberman rispetto al rapporto con le immagini. Lui dice che difronte alle immagini, e tanto più in un’epoca di iperproduzione quale è la nostra, siamo afflitti da una forma di analfabetismo. Mi spiego: dinnanzi ad un’immagine bella, tendiamo a restare silenti, poi riusciamo a dire qualcosa sulla sua bellezza ma, se il discorso finisce, finisce anche il pensiero e, di conseguenza, termina ogni forma di relazione, di esperienza legata a quell’immagine. Questo succede in modo ancora più netto con le immagini che raccontano l’orrore: siamo analfabeti di fronte ad immagini che ci scioccano e ci sentiamo in diritto di non parlare, di rimanere in silenzio. In realtà, però, quel silenzio rappresenta anche la fine del percorso che quell’imagine può fare dentro di noi (e noi dentro quell’immagine). Quindi, secondo Huberman, trovare le parole di fronte ad un’immagine già significa inventare un linguaggio, inventare una lingua. Ecco, trovo che la particolare forma linguistico-strutturale della Galea mi parli in questi termini. Il percorso drammaturgico che fa Au bord presenta, come già detto, continui slittamenti e questi slittamenti sono anche quelli di chi, nell’interrogarsi, non trova un punto di equilibrio. E allora si sporge sul piano intimo o su quello della riflessione politica o su quello estetico. Di qui la complessità e il fascino di questo testo.

Colpisce molto, leggendolo, il fatto che, partendo dalla soldatessa americana, la Galea evochi altre figure di donne torturatrici e, in primo luogo, la madre: un riferimento tanto alla tortura degli affetti quanto ad uno stereotipo femminile “rovesciato”. Cosa puoi dirci su questi aspetti?

Vorrei chiarire che tutto ciò che emerge in Au bord dalla connessione con la fotografia di Abu Ghraib non è traducibile in poche frasi, in pochi concetti. Lo dico perché il testo è un vero organismo che continua a pulsare intorno a una domanda, a una questione centrale e diciamo che anche il femminile costituisce un punto di interesse per l’autrice. Da parte mia non c’è, tuttavia, niente che calchi questo aspetto; sicuramente il fatto che l’aguzzina sia una donna scatena un immaginario che in fondo conosciamo poco. Personalmente, però, non entro in questa questione, pur riconoscendo che sicuramente c’è nel testo, così come c’è nell’immagine stessa.

Sempre attingendo al ricco programma di sala, ad un certo di punto, si fa riferimento al fatto che immagini di questo tipo, pur se o proprio perché indicibilmente violente, entrano in relazione con molti capolavori dell’arte classica dove non mancano soggetti che esprimono spaccati di supremazia e tortura. Nello spettacolo hai lavorato anche in questo senso?

Sì, questo è stato un altro punto di partenza del lavoro. Nel suo libro The Abu Ghraib Effect, lo storico dell’arte americano Stephen F. Eisenman parte da un concetto che in termini banali si può riassumere così: quelle immagini sono atroci e su ciò siamo tutti d’accordo, ma la loro atrocità è talmente profonda, talmente vicina a scuotere il binomio umano-disumano che avrebbero dovuto sollevare il mondo. In realtà posseggono qualcosa di familiare, di antropologico che noi non riusciamo a leggere e che è rintracciabile anche nell’arte classica.
Questo modello di riferimento mi interessa molto perché mi affascina la rilettura dell’arte classica tout court, sia a livello tematico sia esperenziale. Ed è proprio vero che siamo abituati a vedere la bellezza di certe immagini e, al contempo, a sottovalutare che parlano di sopruso, supremazia, violenza, ingiustizia, autoritartismo. Di solito, innanzi a opere di questo tipo, non proviamo compassione per la vittima o le vittime; semmai ci identifichiamo con il vincente, con l’aguzzino.

Che tipo di spazio scenico hai immaginato per Au bord?

L’idea spaziale è molto semplice. Abbiamo realizzato una camera chiara, bianca, in opposizione al nero che connota l’oscurità della prigione e della foto, oltre che in opposizione al concetto stesso di “camera oscura”, e vi abbiamo inserito dei piani filtranti che potessero distanziare lo sguardo del pubblico. L’obiettivo è quello di mettere in atto un certo tipo di relazione tra chi è guardato e chi guarda: l’attrice ha bisogno di essere protetta e gli spettatori sono chiamati ad avvicinarsi o allontanarsi dalla visione, dall’immagine. Anche qui c’è un movimento di messa a fuoco. Di disequilibrio. Siamo molto felici di queste intuizioni sceniche e parlo al plurale perché l’esito è stato il frutto di una bella collaborazione tra me, Sander Looner (lighting and stage design, ndr) e Fred Defaye (sound design, ndr), due artisti provenienti da culture teatrali diverse dalla mia con cui ho intrapreso un percorso di condivisione molto interessante, cui si aggiunge ovviamente il lavoro sul movimento fatto da Marco Angelilli, con cui collaboro da tempo.

E allora, visto che citiamo lo spazio, il movimento e “chi è guardato”, arriviamo a Monica Piseddu. Una delle migliori attrici della sua generazione. Su che registri espressivi si muove la sua interpretazione?

Il testo pone ovviamente delle grandi sfide. Sicuramente, da una parte, ce n’è una che tentiamo in ogni modo di schivare, ed è l’identificazione con l’autrice: una modalità che non appartiene al mondo né di Monica né mio, anche perché un’identificazione chiusa su quell’io parlante potrebbe essere riduttiva. Al contrario, abbiamo lavorato sulla moltiplicazione di un io. Proprio l’organicità del testo apre questa strada e anche in termini, per così dire, “fotografici” cerchiamo di sottolineare il fatto che uno dei tentativi dell’interprete è quello di mettersi a fuoco. Parlo di tentativo di messa a fuoco e non di messa a fuoco vera e propria, sia che si tratti di un tema, di una parola o di una presenza. In modo molto concreto, insomma, la ricerca espressiva di Monica è come se replicasse, a livello attoriale, il senso di disequilibrio, il dubbio, su cui si regge l’intera tessitura drammaturgica.

Qual è, secondo te, la dote più precipuamente personale di Monica Piseddu attrice?

Direi sicuramente che, oltre allo straordinario talento, ciò che più la connota è l’integrità.
Un’integrità che non trova mediazioni di alcun tipo, tanto meno distrazioni narcisistiche o di altre natura. Ogni passaggio del lavoro fa sempre riferimento a un criterio di verità. Un grande esito.

Tu hai studiato e poi lavorato molto con Luca Ronconi. Qual è l’eredità maggiore che ti ha lasciato il Maestro?

Diciamo che qualche anno fa era molto più semplice per me rispondere a questa domanda. Era semplice dire che le poche cose che so, le ho imparate da lui: ho avviato un pensiero sullo spazio attraverso il lavoro fatto con lui così come ho affinato, sempre grazie a lui, una forte sensibilità rispetto al testo e alla testualità. Adesso è più difficile rispondere perché quell’esperienza più si allontana e più diventa per me pervasiva, ricca di dettagli. Credo di
essere stato molto fortunato.

Qualche tempo fa hai diretto gli allievi attori dell’Accademia silvio D’Amico in Noi, gli eroi di Jean-Luc Lagarce. Dunque, nutri una passione particolare per la drammaturgia francese?

Non penso si possa genralizzare. Certamente amo molto i testi di Lagarce così come quelli di altri autori suoi connazionali. E questa nuova avventura di Au bord conferma la mia
predilezione. Ma molto dipende semplicemente dalle sollecitazioni che ricevo dai testi, pur se debbo ammettere di avere un forte interesse per il linguaggio che trovo dispiegato in queste drammaturgie d’oltralpe.

AU BORD

di Claudine Galea
traduzione di Valentina Fago
regia di Valentino Villa
con Monica Piseddu
movimento Marco Angelilli
Lighting and stage design Sander Looner / ARP Theatre Limited
sound design Fred Defaye
assistente alla regia Andrea Dante Benazzo
produzione 369gradi, Romaeuropa Festival
in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura, Triennale Milano
con il sostegno di Toscana Terra Accogliente, Olinda
I diritti dell’opera “Au Bord” di Claudine Galea sono concessi da L’Arche Editeur, Parigi, in
collaborazione con Zachar International, Milano

Teatro Vascello,                                                                                                                         Roma 18-20 ottobre 2022 – Romaeuropa Festival 2022