PAOLA ABENAVOLI | L’entusiasmo per la creazione di qualcosa di nuovo ma ancor di più per l’incontro con il nuovo, con ciò che non si conosce, per lo scambio culturale, pur nella diversità di vedute, per la sensazione di essere parte di un mondo che guardava alla cultura come fondamento di quella costruzione. È il mondo teatrale della metà degli anni ’70, che assorbe e rimastica, ricrea tutto ciò che avviene attorno a sé, dando vita al teatro tra e con la gente ma anche isolandosi per riflettere e per costruire una nuova idea culturale e performativa.

Laboratorio “Il teatro vagante” di Giuliano Scabia (Foto Capellini)

È il mondo teatrale che viene intercettato, mostrato, proposto da Luca Ronconi quando, nel 1974, viene chiamato alla direzione della Biennale Teatro di Venezia: una autentica rivoluzione, uno sguardo aperto sul cambiamento, con la presenza, a partire in particolare dal laboratorio internazionale del ’75, di tutti i maggiori artisti, registi, autori teatrali, sperimentatori. Nomi già grandi, innovatori che radunano tantissimi giovani che vogliono partecipare ai loro laboratori, assistere alle loro opere: un cantiere culturale aperto, incontri, conferenze stampa affollatissime di giornalisti che ascoltano parole, concetti differenti.
Un mondo culturale differente, quello che il regista Jacopo Quadri – su soggetto di Roberta Carlotto e Oliviero Ponte di Pino – racconta nel documentario 75 – Biennale Ronconi Venezia, presentato alla Festa del cinema di Roma (mostrando come, ancora una volta, i festival cinematografici siano sempre più interessati al rinnovato rapporto tra le due forme artistiche). Un’opera che ha sicuramente il merito di porre all’attenzione del grande pubblico (anche di quello che magari non ha una conoscenza approfondita del settore) un pezzo importante della storia teatrale e culturale contemporanea e anche quello di farlo, – seppur all’interno della struttura apparentemente “classica” o maggiormente usata del doc (immagini e interviste) – con una visione cinematografica propria, precisa, immediata, coinvolgente, con un uso dell’immagine che detta il ritmo e il linguaggio attraverso il montaggio (e non potrebbe essere altrimenti, data la maestria e l’esperienza di Quadri in questo ambito).
Lo si avverte immediatamente, con l’apertura senza parole, lasciata a un flusso di immagini in bianco e nero che ricostruiscono la storia della Biennale, il passaggio dalla tradizione agli anni ’70, il contesto sociale, con un montaggio che sostituisce, appunto, le parole e ci porta direttamente nel racconto di quel momento che rompe con il passato.

Luca Ronconi e Dacia Maraini

E poi le interviste, intime e mai cattedratiche, con le quali il regista ricostruisce sensazioni, esperienze, puntando, più che a illustrare e spiegare il senso degli spettacoli, sul modo in cui venivano costruiti gli stessi, i passaggi della creazione, il rapporto tra attori e registi, e soprattutto il rapporto con gli spettatori, le loro reazioni, il coinvolgimento, anche delle città, dei territori, insomma la parte della creazione della performance che, in quegli anni, diventa la base del fare teatro.
E l’ascolto del pubblico, le emozioni e le risposte che provenivano dalla platea, la rottura della quarta parete in senso ancor più tangibile: tutti elementi che diventano essenziali nel racconto di Quadri e degli intervistati nonchè dei protagonisti dell’epoca, attraverso dichiarazioni e filmati di repertorio.

Grotowski all’Isola di San Giacomo (Foto Capellini)

Personaggi tra i più importanti del teatro contemporaneo, da Eugenio Barba a Bob Wilson, ad Ariane Mnouchkine, e poi le testimonianze di chi arrivò a Venezia, giovanissimo, restando letteralmente rapito da quei personaggi, dalle loro parole, come Tiezzi, Barberio Corsetti, Lombardi. Parole che raccontano e fanno entrare in un’epoca storica, “l’ultima fiammata dell’Utopia”. Soprattutto fanno entrare in un modo di sentire il teatro e la cultura: e allora si osservano sullo schermo file per assistere a uno spettacolo; si parla di esempi di sperimentazioni del tutto nuove per l’Italia; di Grotowski e del suo laboratorio all’Isola di San Giacomo, avvolto dal silenzio, che si infrange solo quando arriva la notizia della morte di Pasolini; delle macchine usate da Ronconi (“ma non quelle moderne, quelle rudimentali, che esprimevano una storia, una poesia, una difficoltà”); dei tanti immaginari che, come afferma Wilson, pur nelle differenze, dimostravano una via comune (“anche se eravamo diversi, in un certo modo facevamo parte tutti di una grande famiglia allargata”).
Il confronto tra idee diverse come momento di crescita, l’incontro come momento indispensabile, il fare gruppo, lo stare insieme come esigenza (che forse oggi si ritrova meno negli artisti, evidenzia Lombardi): “si trattava di tirare fuori da questo calderone, la propria pietra filosofale, il proprio approccio, la propria direzione”, aggiunge Tiezzi. “Anni di effervescenza straordinaria, quello che allora era nuovo, era nuovo davvero”, si sente affermare da Ronconi in un filmato: un mare di creatività, in cui “la parola vita era al centro del Festival”, e in cui il teatro veniva visto come parte della vita, “non accessoria, ma costitutiva”.

 

75 – Biennale Ronconi Venezia

regia Jacopo Quadri
soggetto Roberta Carlotto, Oliviero Ponte di Pino
fotografia Greta De Lazzaris
montaggio Niccolò Tettamanti
musiche originali Valerio Vigliar
produzione Palomar, in collaborazione con Centro Teatrale Santacristina e Archivio Luca Ronconi