ELENA SCOLARI | Essere sugli spalti del Castello di Elsinore, in Danimarca, e assistere alla comparsa notturna dello spettro del padre di Amleto (Amleto anche lui) è un sogno, per chi ama e scrive di teatro e di teatro vive. Antonio Latella con il suo Hamlet (il terzo incontro del regista con l’opera) ha regalato questa possibilità per alcune ore, presso il bellissimo spazio del Teatro Studio Melato di Milano, a tutti i volonterosi spettatori che per quasi 7 ore (con un’ora d’aria) sono stati immersi nella tragedia shakespeariana. Non ci sono le tenebre ma luce a giorno per tutto il tempo, la platea nella stessa luce degli attori, un reticolo di 42 fari puntati per tutto lo spettacolo, tipo Maracanà. Noi insieme ai personaggi ad assistere passo passo al consumarsi degli eventi.

PAC ha raccontato lo spettacolo al suo debutto, nel 2021, oggi proviamo quindi a concentrarci su alcune riflessioni specifiche che riguardano aspetti particolari di questo spettacolo monstrum.
La prima riguarda la sensazione complessiva che la visione lascia: la meraviglia del testo. Non è certo una novità che Amleto sia un capolavoro magistrale ma riascoltarlo per intero, senza alcun taglio, è un infinito godimento per la parola, per i versi, per le invenzioni linguistiche mirabolanti e favolose di Shakespeare, per le immagini poetiche che ha saputo creare quel non avrebbe permesso che un vento troppo forte le sfiorasse le guance…
In questo bisogna dare atto a Latella di essersi davvero “messo in ascolto” del testo, come dichiara nell’intervista che si trova nel corposo programma di sala. E tale è l’idea centrale del lavoro.


Questo punto porta a parlare della recitazione perché non sempre e non tutti gli interpreti “porgono” le parole con la stessa efficacia. Trascurando, per il momento, la protagonista Federica Rosellini, menzioniamo Stefano Patti, il primo a fare ingresso in scena nei panni moderni di un maître di sala che coordina entrate e uscite e che legge le didascalie (scelta ultimamente frequente, quasi come l’utilizzo delle relle portacostumi, di cui abbiamo detto più volte e che anche qui hanno la loro parte). Patti è anche Orazio e in entrambi i ruoli risulta convincente, si muove comprendendo sempre la serietà della situazione, suo sarà l’onore della conclusione, che porta con merito. Una figura perno, diverso da tutti gli altri anche per colori e costume. Claudio e Gertrude (Francesco ManettiFrancesca Cutolo) non hanno la stessa forza: Gertrude ascolta l’accusa grave di suo figlio come se stesse ascoltando la lista della spesa, dice «Mi hai spezzato il cuore in due» senza note drammatiche. Il Polonio di Marco Cacciola funziona, è disinvolto e sufficientemente distaccato. Eccellente Anna Coppola spettro, primo attore e clown, ironica, grave, lugubre e leggera, versatile. Deciso e puntuale il Laerte di Ludovico Fededegni.

Ma si pone un problema generale, che va al di là dei singoli talenti, ed è l’assenza di interazione tra i personaggi. Non parlano quasi mai tra loro ma dicono tutto a noi. Non vediamo la reazione che le parole di un personaggio provocano nel suo interlocutore perché tutto è rivolto al pubblico; non ci si immedesima perché non vediamo nascere il sentimento di risposta. E gli attori non possono suscitarlo nello spettatore se non creano quella tensione concatenata tra personaggi. Difficile quindi credere a dinamiche che non vediamo reificarsi.

E veniamo a Rosellini: cosa ci dice di nuovo su Amleto il fatto che a interpretarlo sia una donna? (Che comunque parla di sé al maschile). La spiegazione che siamo tutti Amleto perché i suoi dubbi e le sue passioni sono i nostri e quindi non importa il sesso di chi ne riveste i panni a teatro è blanda. Latella, nella medesima intervista, afferma:
“Per me l’Hamlet del XXI secolo va oltre la sessualità, oltre la distinzione donna/uomo, per approdare a una condizione altra. Ovviamente, aver scelto una donna mi permette di impostare un rapporto con il pubblico diverso da un approccio tradizionale, di avere uno slittamento continuo: nei classici le parole non hanno genitali, volano talmente al di sopra di tutto, da fare la differenza“.
Ecco, invece per chi scrive non è così. Amleto dice quello che dice e fa quello che fa perché è un maschio. Non è vero che nei classici le parole non hanno sesso (o genere?!): ce l’hanno, eccome! E ce l’hanno senz’altro per Amleto, che nutre un’ammirazione e un affetto per il fu padre che non sarebbero gli stessi in una figlia femmina. Amleto rosica non solo per la bassezza dell’omicidio arrivista dello squallido zio Claudio, ma anche per la propria eredità reale (nel senso di regno). Nella scena di aggressiva accusa del giovane principe contro la propria madre, appena prima dell’assassinio di Polonio, egli allude alla debole lascivia di Gertrude soffiandole sul collo lo stesso fiato virile con cui Claudio la scalda. Impossibile pensare che non faccia differenza se l’invettiva viene pronunciata da una donna. Per quanto la sua fisicità possa essere ambigua.
Qual è, poi, la condizione altra che verrebbe suggerita?
Una cosa è dire che non sia determinante scegliere un attore o un’attrice per il ruolo di Amleto e un’altra è dare prova che ci sia un motivo forte per scegliere una donna.
Federica Rosellini è vicina all’età del protagonista nella tragedia, e questo la rende credibile per energia e spinta vitale ma la scelta registica che la mette al centro di un assunto opinabile impedisce di far arrivare allo spettatore l’indignazione che Shakespeare ha cucito addosso a un uomo; anche qui non c’è immedesimazione. I neuroni specchio che attivano in chi guarda l’accendersi degli stessi sentimenti cui gli attori dovrebbero dare vita rimangono addormentati, purtroppo.


Rosellini esprime un solo sentimento rabbioso, privo di gradazioni, dubbio e tormento, tende ad appiattire tutto su questo unico registro, non è esente da una certa cantilena, e finanche Ofelia (Flaminia Cuzzoli), tradizionalmente dimessa e intimidita è più forte di lei, specialmente quando si siede a gambe aperte e cosce in vista dietro ad Amleto per il monologo che precede il suicidio.
Va detto che spettatori più giovani, e forse meno influenzati (e scontentati) da aspettative di tanti Amleti visti, hanno invece una percezione diversa, per la quale – in loro – questa figura amletica risuona più vicina e comprensibile e forse sa far arrivare anche l’intenzione dell’autore.
Resta da capire perché sia l’unico a chiamarsi Hamlet mentre tutti gli altri hanno il nome tradotto, così come sembrava una scelta usare sempre la parola inglese farewell ma poi si usa anche l’italiano addio. Anche altri segni non sono di immediata intelligibilità, c’è una certa inclinazione alla cerebralità, nella natura di Latella. In sette ore si ha comunque tempo di cercare le proprie spiegazioni, ai costumi bianchi di due taglie più grandi, al perché si usi o non si usi il microfono, al significato dell’inginocchiatoio, al pianoforte che non suona, ad alcune scelte di traduzione, alle lamette della Rettore…

Si è detto che questo Hamlet sia un omaggio al teatro, una specie di prova d’amore, soprattutto per la scena in cui vengono messe a perimetro dell’arena venti relle (eccole! In tutta la loro iconicità), che portano i costumi di altrettanti storici spettacoli del Piccolo Teatro realizzati da Strehler e Ronconi: dall’Arlecchino alle Baruffe chiozzotte alla Celestina fino a Lehman trilogy. Non è solo un pezzo del Piccolo Teatro che sfila, è la Storia del Teatro italiano. Un tributo, indubbiamente, ma è anche mettersi al pari dei Maestri e autoincastonare il proprio lavoro in questo Olimpo.

Poetico è il gesto leggero di alzare piano la manica di un costume nel monologo sul non tranciare l’aria con le braccia mentre si recita…
Registicamente bella, proprio bella, la fossa aperta a vista scostando le doghe di legno del pavimento che diventa buca per gli attori – un teatrino nel teatro per la scena in cui la compagnia girovaga interpreta la commedia che rappresenta il regicidio – ma anche piscina/fiume per l’ultimo sonno annegato di Ofelia e dove si tuffa anche il fratello Laerte, e poi vera fossa colma di terra per i becchini e i resti del povero Yorick, sulle cui spalle tante volte ha riso il principe.
E sotto terra forse ride ancora, ogni volta che qualcuno in teatro ricorda i suoi scherzi e i suoi irrispettosi scoppi di risa.


HAMLET

di William Shakespeare
traduzione Federico Bellini
drammaturgia Linda Dalisi
regia Antonio Latella
scene Giuseppe Stellato
costumi Graziella Pepe
luci Simone De Angelis
musiche e suono Franco Visioli
con (in ordine alfabetico) Anna Coppola, Francesca Cutolo, Flaminia Cuzzoli, Michelangelo Dalisi/Marco Cacciola, Ludovico Fededegni, Francesco Manetti, Fabio Pasquini, Stefano Patti, Federica Rosellini, Andrea Sorrentino
assistente al progetto artistico Brunella Giolivo
assistente alla regia Paolo Costantini
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

Teatro Studio Melato
Milano – 23 ottobre 2022