RENZO FRANCABANDERA | La tredicesima edizione di Testimonianze ricerca azioni, il festival di arti performative organizzato da Teatro Akropolis a Genova, ha visto anche quest’anno un numeroso pubblico, studiosi, critici e appassionati gremire la sala.
E la sala è una delle sorprese di questa edizione, perchè finalmente lo spazio, completamente rinnovato realizzando un progetto che lo rende unico nella sua possibilità di presentarsi in diverse conformazioni, permettendogli di diventare un luogo ideale per accogliere la danza, la performance, il cinema, è stato restituito al pubblico dopo il lungo intervento di riqualificazione.
Un’edizione che come ha voluto sottolineare la Compagnia nel comunicato che aveva anticipato il festival, giunge in un momento di profonda crisi dell’arte e della cultura, resa ancora più grave da due anni di pandemia e dal contesto bellico. “Forse, ora più che mai, è il momento di sfidare l’allucinazione di cui sembra essere preda il nostro tempo, che è quella di vedere sempre e soltanto il presente. È un’allucinazione pericolosa, fatta di istantaneità, fatta di immagini che incarnano ed esauriscono la realtà intera, fatta di iper-connessione e di iper-comunicazione. L’arte può essere la via principale per contrastare questa allucinazione, per liberare lo sguardo e per consentire di tornare a guardarci gli uni e gli altri finalmente ricondotti ad un principio di realtà che contempli anche il nostro passato e la nostra storia.”

Abbiamo fatto qualche riflessione a fine festival con Clemente Tafuri, che ne cura la direzione artistica di Akropolis insieme a David Beronio.

Che edizione é stata di Testimonianze, Ricerca Azioni questa? Per voi la continuità pare essere un valore. È così? Quali elementi sono stati di continuità e quali di novità?

La continuità sta nel fatto che lavoriamo da anni intorno ai temi del performativo, dell’origine dell’opera d’arte e del teatro in particolare, sui temi che sono a fondamento delle arti per la scena. Le varie declinazioni per la scena di queste tematiche, gli spettacoli, rappresentano una questione di fondamentale importanza, ma è sempre una questione secondaria. Seguire il cammino di alcuni artisti, oltre che proporre il lavoro di altri che non sono mai stati nella nostra città o regione, è per noi essenziale proprio perché nelle loro scoperte, nelle loro intuizioni, possiamo definire un nuovo percorso del contemporaneo che, nonostante la ridicola rimozione del Novecento, non può smettere di interrogarsi sulle domande più antiche. Domande che non sono poste per aspettare una risposta. Sono domande che si frequentano. Domande che riguardano l’arte e non sempre la cultura. Domande che ci chiamano a riflettere sul nostro tempo proprio perché ci chiamano a riflettere sulla creazione. E d’altra parte non sono questioni affrontabili nel giro di una stagione, risolvibili in un confronto con quello che nasce, vive e muore nel giro di pochi mesi o anni. Una certa continuità è parte di un cammino di ricerca, di studio e di confronto. Per quanto riguarda quest’anno una delle novità è la giornata Invisibili Invincibili. Burattinai e burattini, dedicata al teatro di figura, una sezione del festival che sarà presente anche nelle prossime edizioni. Tra gli incontri Foglio-mondo. Dialoghi transdisciplinari, in collaborazione con Mechrì di Milano, il laboratorio di filosofia e cultura di Carlo Sini e Florinda Cambria, un tavolo di discussione sui diversi saperi in rapporto alla scena.

Che tipo di contaminazione avviene fra i linguaggi dell’arte nel vostro festival e nella vostra pratica artistica?

Bisogna creare dei presupposti affinché una contaminazione sia possibile. Questo è il nostro lavoro di curatori. Non limitarsi a programmare, ma lavorare su altri fronti. Pubblicare libri che rimangano come traccia del lavoro fatto, dare voce ai filosofi, agli studiosi, sperimentare altri linguaggi proprio perché alcune questioni possono essere più vivide fuori dalla scena.Tenendo però presente che la possibilità di una vera crisi è sempre, in ultimo, un atto di volontà che nasce da fattori diversi. Serve una certa cultura, cognizione di alcuni problemi, una presa di coscienza politica rispetto a un sistema. Affrontare una crisi, contaminare il proprio percorso, vivere cioè un rapporto transdisciplinare con le diverse espressioni del sapere, è una scelta. Una scelta che stravolge tutto e che chiama ognuno di noi a fare i conti con se stesso e con cosa è disposto a mettere in gioco. Non è, come invece si sente dire spesso, una questione di semplice curiosità. E questo riguarda il pubblico, i critici, gli studiosi e, ovviamente, gli artisti. In questo senso “contaminazione” significa cambiamento, una via per capire meglio quello che siamo.

Ci dite qualcosa in più sul film dedicato a Carlo Sini?

Carlo Sini nel film parla di come sia sempre più necessario seguire una nuova via per la trasmissione del sapere. Di come si debba mettere definitivamente da parte la scrittura alfabetica per dare spazio a nuove forme di conoscenza, mettendo in discussione lo stesso linguaggio filosofico e la pratica stessa del fare filosofia. E il teatro, ci dice sempre Carlo Sini, ha in sé questa potenzialità fin dalle sue origini. Sta a noi capire come far sì che il teatro non si riduca a una forma di letteratura, a una semplice narrazione dei fatti, a qualcosa che assomiglia ad altro. Il film è parte del ciclo La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro. Al festival abbiamo presentato quest’anno l’ultimo film dedicato al light designer Gianni Staropoli.

Che indicazioni sono venute dal pubblico sul tipo di spettacoli? Come si fa a far crescere e soprattutto a coinvolgere nuovi spettatori nella proposta di un festival?

Non credo esista una ricetta per coinvolgere il pubblico. O meglio, se esiste è una ricetta facile, che ultimamente ha anche avuto un certo seguito. Ascoltare cosa chiede il pubblico e darglielo. Beh, mi sembra la cosa peggiore che si possa fare se ci si occupa di arte. Ogni direttore di festival credo, e spero, abbia una sua visione del mondo dell’arte, ed è giusto che ne dia espressione nel suo lavoro. Nelle modalità di gestione di uno spazio, nel rapporto con le istituzioni pubbliche e private, nel dialogo con i luoghi in cui le diverse attività si svolgono, nel rapporto con chi sceglie di programmare e ovviamente in dialogo e ascolto con il pubblico. Un dialogo sensato, possibilmente. Un luogo d’arte è sempre l’espressione diretta della sensibilità e delle sceltedi chi lo gestisce. Voglio dire che i teatri devono essere diversi tra loro, devono adottare strategie autonome, devono parlare lingue differenti. Non si può pensare che certe cose convivano. La ricerca non è compatibile con delle logiche produttive che impongono tempi ridotti. L’intrattenimento non è compatibile con alcune tematiche a cui certi artisti o gruppi dedicano il loro lavoro. Il pubblico deve poter scegliere. E per poter scegliere si presuppone che esistano delle differenze. È una ricchezza.

Questo non significa che tra teatri non debbano esserci punti d’incontro, non si possano elaborare percorsi paralleli per portare avanti progetti di interesse comune. Ma si deve tenere conto delle rispettive identità. Il pubblico deve poter scegliere. Perché poter scegliere significa avere la possibilità di esercitare uno spirito critico. Questo è un modo per coinvolgere nuovi spettatori. Essere chiari in quello che si fa, e dare più strumenti possibili per avvicinarsi, comprendere e approfondire le cose che si propongono.

Ci saranno molte persone che sperimenteranno la povertà e la difficoltà di accedere allo spettacolo dal vivo nel prossimo futuro. Ci sono idee e progetti su questo per le prossime edizioni e sulla vostra pratica specifica nel territorio di Genova?

I progetti legati al territorio su cui stiamo ragionando riguardano il rapporto, per noi essenziale, con i ragazzi che si avvicinano al teatro. Abbiamo avviato un’attività di laboratori e corsi in decine di istituti scolastici, portando nelle scuole un’idea di teatro e di pratica teatrale legato alle potenzialità espressive del corpo, alla performatività. Il festival e le residenze artistiche sono sempre di più l’occasione per permettere agli studenti, e non solo, di conoscere il significato di certe pratiche, di avvicinarsi ai processi che definiscono i rispettivi percorsi di ricerca degli artisti. Lavorare su questo è uno dei modi per avere un pubblico un po’ più consapevole. Che comunque, alla fine e per fortuna, farà le sue scelte. La sala di Teatro Akropolis è stata rinnovata e resa agibile definitivamente. E questo permetterà di aprire al pubblico per tempi più lunghi rispetto al festival, e quindi di progettare e immaginare altre iniziative.