ENRICO PASTORE | Se potessimo, attraverso queste parole scritte, compiere un’immaginaria visita al Museé d’Orsay di Parigi per ammirarne gli archivi fotografici, potremmo contemplare insieme uno dei primi fenomeni di massa della storia dell’arte. Sembra, infatti, che i grandi fotografi tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, Paul Nadar, Charles Reutlinger, Charles Ogeron, Leonetto Cappiello e molti altri facessero a gara per immortalare un unico soggetto: la danzatrice Cléo de Mérode.
La sua straordinaria bellezza aggraziata, con una timidezza appena velata di malinconica tristezza, attrasse anche tra i più grandi pittori e scultori: Toulouse-Lautrec, Edgar Degas, Giovanni Boldini, Gustav Klimt, e Alexander Falguière, sfruttando la fama di Cléo, le chiese di posare per la sua Danseuse, e quella donna nuda danzante nel marmo del 1896 fu uno dei più grandi scandali del Salon du Printemps. Cléo negò sempre di aver posato in nudo integrale. Suo era solo il viso. Ma nessuno vi credette. La sua fama crebbe vertiginosamente insieme ai pettegolezzi, ma il suo corpo si affermò come icona di bellezza per tutta la Belle Époque.

Alexander Falguière, La danseuse

Ciò che è interessante di quest’episodio risiede nell’esordio di notizie legate a personaggi del mondo dello spettacolo in cui distinguere tra verità e menzogna non appare importante. Nessuno saprà mai, come non si poteva sapere allora, se Cléo abbia o meno posato senza veli, né se Falguière mentisse per attirare l’attenzione sulla propria opera. Resta il fatto che la sola possibilità che Cléo de Mérode avesse posato nuda, divenne fattore di scandalo e di eccitazione. Nella seconda parte del Novecento molti artisti giocarono la loro carriera su questo crinale ambiguo tra vero-non vero, reale-immaginario, Cattelan su tutti. Per quello che riguarda i nostri discorsi, ciò che risalta è la promozione di un corpo danzante come modello di bellezza.
La vita di Cléo de Mérode fu sempre circondata dagli scandali. Fin dalla nascita, essendo figlia illegittima della baronessa Vincentia de Mérode, dama di compagnia dell’Imperatrice Elisabetta. Fu sempre in bilico tra un’immensa fama diffusa in ogni continente (Ejzenštejn mentre girava La linea generale, trovò una sua cartolina appesa tra le icone in una lontana isba russa), e i pettegolezzi piccanti legati ai suoi supposti amori illeciti. I pettegolezzi non ci interessano e non ne parleremo. Quello che ci affascina intorno alla sua figura di danzatrice è l’essere da una parte uno tra i primi fenomeni di cultura di massa, e in secondo luogo, l’aver partecipato alla diffusione di un innamoramento verso le danze orientali tramite il quale la danza moderna, allora in pieno sviluppo, catturò delle modalità di espressione completamente estranei ai canoni conosciuti. Da ultimo, la sua decisione di lasciare l’Opéra di Parigi per le Folies Bergère, un passaggio ritenuto scandaloso, ma perfettamente in linea con le modalità spettacolari delle avanguardie, a partire dal futurismo e il dadaismo, nell’esaltazione del Teatro di Varietà, del cabaret e del Music Hall.

Giovanni Boldini, Ritratto di Cléo de Mérode

Partiamo dagli inizi. Cléo de Mérode (il cui nome per esteso era Clèopâtre-Diane de Mérode, solo il cognome della madre, in quanto il padre non la riconobbe mai), fin dall’età di otto anni iniziò a danzare nella scuola dell’Opéra di Parigi, dove debuttò solo tre anni dopo. Non fu mai un’étoile seppur fu soggetto principale in grandi balletti tra cui Le coronnemente de la Muse di Charpentier e Coppélia e Sylvia ou la ninfa de Diane di Delibes. La bellezza e grazia attirarono l’attenzione, soprattutto la sua acconciatura con i capelli raccolti a nascondere le orecchie divennero leggendarie come dimostra l’aneddoto, vero o apocrifo poco importa, delle telefoniste svedesi che si rifiutarono in blocco di cambiare acconciatura, benché sentissero meno al telefono e i clienti si lamentassero.
La parte più importante e notevole della storia di Cléo de Mérode è però legata all’Esposizione internazionale del 1900, dove nei giardini del Trocadéro al Teatro Asiatico, nei pressi de la Rue de Paris, dove nel teatro della Fuller danzava e recitava Sada Yacco, si esibì in uno spettacolo di danze cambogiane. L’anno precedente Cléo si era esibita in una danza esotica giavanese completamente di sua invenzione. Qui fu ammirata da Charles Lemire, un uomo d’affari legato all’Indocina francese, il quale propose a Cléo di abbandonare Giava e coreografare qualcosa di cambogiano. La nostra diva non si scompose, benché non avesse mai visto né conosciuto le danze di quel lontano paese asiatico. Accettò senza remore, ma provò a documentarsi. Dove? Al cinema, dove assistette alla proiezione di un film in cui, fatalità, apparivano delle danze cambogiane.
Per sua stessa ammissione prese appunti e memorizzò le modalità di movimento, tecnica già adottata per l’esperimento giavanese i cui passi furono desunti da foto apparse su giornali illustrati. Da ottima ballerina classica, aveva una tecnica sopraffina, ma lontanissima da quelle asiatiche. Il suo lavoro fu di percepire piuttosto la giusta tonalità, la sacralità del movimento, la grazia nell’uso delle mani e delle braccia. Con questi elementi elaborò una coreografia e la sottopose a Lemire, suscitando il suo entusiasmo. Fu firmato un lauto contratto e le danze cambogiane di Cléo debuttarono al Teatro Asiatico con grandissimo successo, tanto da farle percepire un cachet altissimo di millecinquecento franchi a rappresentazione, cifra esorbitante per l’epoca.
Se già con gli spettacoli di Sada Yacco si poneva la questione dell’originalità rispetto ai modelli, nel caso di Cléo de Mérode ci si allontanò ancor di più da una filiazione diretta. Il pubblico non se ne preoccupò, così come gli organizzatori, tanta era l’attrazione esercitata dai teatri di mondi lontani. L’esotismo era di moda e la moda non si discute, la si abbraccia senza remore. Eppure, questo falso balletto cambogiano ebbe delle conseguenze importanti, al di là del fatto che per la carriera di Cléo fu un ennesimo trampolino che la portò nei teatri di tutta Europa e non solo.

Cartolina di Cléo de Mérode nel costume cambogiano

La prima e più importante ricaduta di queste danze fu, come nel caso di Sada Yacco e poi in seguito di Hanako, di allargare lo sguardo dei danzatori occidentali su cosa fosse possibile al di là del canone. L’immaginario e le tecniche utilizzate si ampliarono e così il ventaglio del possibile proprio a partire da questi esperimenti. La danza moderna nascente acquisì un vocabolario più ampio, superando i propri pregiudizi su cosa fosse realizzabile. Questo accadde non solo a partire dalle danze di Cléo e da quelle di Sada Yacco, ma persino dalle danze negre allora tanto in voga. Non è un caso se al Cabaret Voltaire, durante le serate dada, Susanne Perrottet, Mary Wigman e le allieve di Laban, danzarono con maschere negre di Janco. E poi il grande successo ottenuto da Josephine Baker proprio in questo stile.
Non importava, dunque, se il modello fosse originale, ma contava l’allargamento dell’orizzonte su cosa potesse fare un corpo danzante. Pensiamo a Rodin e al suo innamoramento per le danzatrici cambogiane nel 1906 e, soprattutto, pensiamo anche alle danze balinesi viste da Artaud sempre all’Esposizione Internazionale di qualche decennio dopo: erano realmente originali? Negli occhi di chi guarda sta la verità, se mai se ne possa trovare una. E questo accadde ovunque e sempre nella storia del teatro. Nicola Savarese definisce il fenomeno come “diffusione di stimoli”, locuzione che spiega benissimo le modalità di appropriazione e di sviluppo che stiamo descrivendo.
La fascinazione dell’oriente cresciuto su falsi modelli generò, comunque, una innovazione dei linguaggi estetici, tecnici e formali. Certo, Cléo non fu conscia, come non lo furono gli altri, di ciò che potessero costituire i propri esperimenti esotico-commerciali, ma questo non ne svaluta l’importanza per la storia della danza in generale.
Proprio in seguito al successo all’esposizione, Édouard Marchand scritturò Cléo per Lorenza, un balletto da eseguirsi sui palchi delle Folies Bergère. Questa scelta scatenò un verminaio di polemiche: come si poteva lasciare l’Opéra di Parigi per un luogo equivoco come le Folies? Per l’opinione dell’epoca, ma pensiamo che tutt’oggi scelte simili sarebbero ampiamente criticare, prediligere un luogo di spettacolarità popolare, commerciale, pronto a strizzare l’occhio alla seduzione erotica, era un’offesa al concetto stesso di cultura. Eppure, furono proprio questi luoghi a condurre alla riforma della spettacolarità condotta da tutte le avanguardie, dal baraccone russo, al Cabaret Voltaire dei dadaisti, al Teatro di Varietà dei futuristi, all’ammirazione sterminata di Marinetti per Petrolini. Alto e basso si mischiavano, senza la pretesa di nobilitare il popolare, ma piuttosto di acquisirne le modalità per un coinvolgimento più diretto del pubblico. La scelta di Cléo de Mérode nel 1901 fu antesignana di un movimento che dilagò di lì a qualche anno.
La fama di Cléo terminò con la Prima guerra mondiale, benché durante il conflitto si prodigò in spettacoli a supporto delle truppe. La Belle Époque era finita e per gli artisti si prospettavano nuove battaglie e nuovi orizzonti. Cléo non aveva posto in questo mondo turbolento e ribollente di nuove idee. Non era una creatrice, fu un’innovatrice, benché in un modo ancora inusuale e forse non del tutto consapevole. Fu una buona interprete, ma l’età ormai le precludeva la partecipazione ai balletti, così finì per insegnare in una scuola di danza. Presto nessuno più si ricordò di lei.
Solo Simone de Beauvoir la citò ne Il secondo sesso, descrivendola come una cocotte, una mantenuta. Cléo citò in giudizio la Beauvoir e vinse la causa. Impressiona che una scrittrice femminista si sia scagliata contro una donna libera, che sempre rifiutò di sposarsi, e che visse la sua femminilità e sessualità senza restrizioni e contro i pregiudizi del proprio tempo. Colpisce ancor di più il fatto che proprio una femminista riprese il binomio danzatrice-prostituta, tra i più vieti preconcetti resistenti al passaggio dei secoli e delle culture.
Cléo morì a novantun’anni, dimenticata e sola. La sua tomba è vegliata dalla scultura di Luis de Perinat, suo amante per lungo tempo, al cimitero di Père-Lachaise in compagnia di Oscar Wilde, Balzac, Chopin e Jim Morrison.