RENZO FRANCABANDERA | Dopo la fondazione della compagnia che di lei porta il nome, Licia Lanera ha lavorato sia come regista sia come interprete dei suoi spettacoli. Alcune produzioni le hanno permesso di confrontasi con scritture fondanti la storia del pensiero letterario e teatrale d’oggi, come la trilogia Guarda come nevica, che indaga testi cruciali di tre grandi della letteratura russa del secolo scorso.
Come interprete di monologhi invece prima di Love me, di cui parliamo qui, c’era stato The black’s tales tour, una rilettura in chiave dark gotica dei topoi delle fiabe e di rappresentazione nelle stesse dell’universo femminile, in una combinazione di suoni, gesti, parola.

Per questa produzione che vede in campo ERT, l’artista pugliese ha deciso di confrontarsi con due testi brevi di Antonio Tarantino, il compianto drammaturgo che ci ha lasciati due anni fa con un’eredità di parole invero difficile da raccogliere e ancor più da interpretare: il suo dire è infatti animalesco e lirico allo stesso tempo, la sua scrittura passa nella stessa battuta dal gergo di strada ai riferimenti classici, raccontando uno spazio dell’umano che, quando interpretato in modo opportuno, mette  in una posizione scomoda sia chi porge quella parola sia chi la riceve.

Lanera accoglie gli spettatori in una mise casual, con scarpe da ginnastica bianche, pantaloni di tuta sportiva color crema e una camicetta gialla a maniche corte.
Aspetta gli spettatori in proscenio, scanzonata e amichevole: fra coloro che entrano in sala conosce sempre qualcuno e fa lei il primo passo per andargli incontro, mentre lo spettatore entra in sala rispettoso del ruolo interpretativo e quindi quasi rifugge l’accoglienza per evitare di disturbare.
Invece la cerimonia santifica una dimensione rituale atipica, in cui l’interprete gioca a non essere nel personaggio, prima dell’inizio. Ma siamo comunque nello spazio teatrale, e quindi in fondo anche questa è parte della recita. Lo specifica il fatto che mentre lei gioca e conversa con chi entra, alle sue spalle si staglia la figura dell’altra immanente presenza scenica, quella di Suleiman Osuman, che di lì a breve verrà definito il ‘capro espiatorio’ (parola che torna più volte nel secondo monologo), il ‘negro’ (che risuona nel primo).
L’introduzione dello spettacolo vero e proprio, dopo l’improvvisazione a braccio con il pubblico in sala, si trasforma in un’informale prefazione filosofica all’atto recitato, su come il teatro sia rappresentazione perenne della morte, eterno esorcismo della fine.
Sulla scena sono presenti tre grandi lavagne verticali con il piano ribaltabile su cui è scritto con il gesso il programma della serata, il titolo dello spettacolo a caratteri cubitali e quello dei due pezzi che compongono la creazione: l’inedito La Scena Medea.

Sul lato destro c’è una poltrona di pelle, di quelle un po’ vecchie color marroncino, dove prende posto l’aitante giovane di origini verosimilmente africane, posizione che manterrà per buona parte della rappresentazione in funzione quasi testimoniale, un alter ego presente e silenzioso, evocato e incarnato, materializzazione di quel concentrato di pregiudizi e sentimenti di repulsione per tutto quello che non è uguale a noi.
Lei indossa dei baffetti posticci con i quali entra nel personaggio di un buzzurro di periferia, e inizia lo spettacolo.
La scena racconta dell’incontro di questo ignorantello piccoloborghese con un forestiero, dove il confine che segna l’essere forestieri per il ruvidone è un cerchio ampio forse qualche chilometro dal centro del mondo, che per questa sorta di individui è sempre casa propria.
Lanera lo interpreta con una inflessione lombardo piemontese e con una recitazione pacata che poco alla volta, sorretta da una mimica e una gestualità misurata, inizia a aderire alle parole del drammaturgo in modo plastico, permettendo allo spettatore di vedere davanti agli occhi l’invettiva oscena verso l’altro da sè, il rigurgito da emarginato a emarginato.
La veemenza attorale che aveva finora contraddistinto Lanera, forse perché in relazione con una parola che basta poco per deformare e snaturare, essendo di suo già corrotta e caustica, lascia il posto a una recitazione misurata che addensa la parola, la specifica, e porta chi la ascolta dentro un senso di vivere ultimativo e desolato, come in un romanzo di Edward Bunker o in un testo di Tarantino, appunto.
Si capisce che l’interpretazione sta attribuendo alle parole quasi l’intenzione vera con cui probabilmente sono state immaginate da chi gli ha dato forma di testo teatrale.

Le luci di Vincent Longuemare: suonerebbe male dire che Longuemare è il re della griglia, perché verrebbe in mente subito un qualche ristorante a riva di mare, mentre alludiamo alla frequenza con cui il designer luci usa, soprattutto per gli interni notte, il filtro delle grate, delle griglie, per proiettare sulla scena finestre e luci tiepide che aiutano a raccontare interni dai contenuti appena specificati, onirici, senza pretese di somiglianza naturalistica a qualche paesaggio concreto.
Il tocco di genio arriva dal disegno sonoro di Tommaso Qzerty Danisi, che sceglie di non irrompere in scena con inutili tappetini musicali, ma si inserisce nell’indagine sull’irrazionale attraverso una serie di micro segni sonori. All’inizio sembra quasi che qualcuno stia facendo una festa al piano di sopra, di cui provengono eco slabbrate, ovattate, che spariscono filtrate dai doppi vetri.


Questo segno, che nel primo pezzo assomiglia quasi a qualche suono di digestione, nel secondo invece prende una forma riferibile alla vicenda di Medea e del matricidio, evocando pianti di bambini, per fortuna accennati con misura in modo da suggerire a chi sa, e restare rimando a un infantile drammatico per chi non sa.
Totalmente diverso, distante, è il segno musicale che separa i due monologhi, la classica traccia dirompente di rap americano che non c’entra nulla se non essere vagamente collegata al tema dell’identità culturale dell’uomo nero in poltrona: la potente Blockbuster night dei Run the jewels.
Nell’intermezzo, i due protagonisti, con le luci che si accendono a fondo palco, vanno in controluce, spostano le lavagne, fanno un po’ di ammuina danzata per intervallare, per ripulire la mente dello spettatore dal primo ambiente mentale e portarlo nel secondo, che vede l’attrice passare da un’indagine sociopsichica al maschile, aiutata dal camouflage dei baffi, a una al femminile: indossa per questa seconda pièce un top brillante e semitrasparente dorato, che le lascia scoperta la pancia,  e i pantaloni della tuta, che assumono però uno specifico di “comodità carceraria”.
Si siede su una sedia di legno, sistemata centrale, da cui, masticando saliva con fare nevrotico, fa partire un monologo recitato con una smaccata inflessione barese, terra peraltro di origine dell’attrice. La scelta di intonazione cambia la cifra della drammaturgia, rimaneggiata in una direzione di coerenza più che altro formale, restando la sostanza generalmente coerente con l’intenzione dello scrittore, che aveva pensato a un dialogo fra la protagonista di Medea, e una alterità dialogica, la Vigilatrice, incarnata qui dalla presenza oscura, silenziosa ed enigmatica dell’uomo, silenzioso  spettatore.

Medea, che come noto si fa straniera in un terra lontana da quella di nascita, e poi matricida per essere stata tradita e abbandonata da Teseo, nella lettura di Tarantino è di origini asiatiche, e si trova già incarcerata. A questa origine allude il corpetto dell’attrice, così come, all’infanticidio, le tracce sonore. Licia Lanera cerca di indagare le ossessioni, la follia, i gesti della condizione di costrizione carceraria, dando a questa figura un portato drammatico che si spinge volutamente fino a bucare la quarta parete, ma senza rivolgersi a nessuno spettatore in particolare: parla, nel suo delirio psicotico, a fantasmi, al mondo incapace di leggere la sua complessità, episodi più pretestuosi che strutturali rispetto all’interpretazione di per sé stessa, che resta interna al fatto scenico anche geograficamente parlando, dentro un ambiente strettissimo.
Nell’intermezzo infatti le lavagne erano state spostate in avanti di circa due metri per ottenere una riduzione dello spazio agibile e creare il senso di costrizione e limitazione del movimento.
Nella recita due delle tre lavagne poi si ribaltano, per portare in scena il sempiterno  simbolo dello specchio, oggetto che sarà poi protagonista di un drammatico colpo di forza finale, in corrispondenza di alcune battute in cui si allude al tema del disprezzo, del rispecchiamento dell’altro. Il finale di Tarantino porta la carcerata a un delirio lirico, visionario: le guardie della prigione in cui l’hanno rinchiusa diventano i cavalieri dagli elmi lucenti, con parole che prendono un’improvvisa intonazione  classica.
La resa attorale del personaggio, di questa donna, con le sue fragilità, porta alla commozione: la consolazione dal complesso puzzle di fedeltà e tradimenti si trasferisce addosso al corpo mastodontico dell’uomo nero, del vigilatore silenzioso che si alza dalla poltrona e viene fatto oggetto di ripetuti abbracci, a consolare l’inconsolabile.

‘Una fabbrica di sventure non può invidiarsi’ dice Tarantino, ‘Non c’è nulla di invidiabile a parte il nulla, che è l’immagine di Dio che la sera davanti allo specchio del mondo si sputa in faccia da solo’ (battuta che nell’originale a due voci è della Vigilatrice).
La parola corre feroce e l’interpretazione resta pulsante, faticando poco poco in queste prime repliche solo quando la riduzione del testo da due voci a una costringe Medea/Lanera a dover passare senza scarto nelle stesse battute da un registro di strada a quello più lirico, tragico, classico, a doversi confrontare con la sfida quasi sadica che Tarantino propone a chi si avvicina ai suoi testi, in cui la stessa mano in poco tempo deve accarezzare e porgere amore e sputo, sangue e vuoto.
E questa è una sfida che per l’interprete ovviamente si ripropone a ogni replica perché sono battute che non hanno un unico modo per essere dette ma dipendono ogni giorno, ogni volta, dal tono, dalla ferocia, dall’atmosfera.
Lanera arriva con Love me a una maturità del proprio segno artistico assai risolta, in cui l’alternanza di veemenza e di misura, di tumulti e pause, permette al testo di diventare tridimensionale paesaggio antropico, di avvicinarsi quasi a un’interpretazione autentica, come si direbbe in giurisprudenza, del pensiero e dello sguardo sul mondo di Tarantino, pur avendo adattato il secondo testo in forma di monologo, a testimonianza del fatto che la vera fedeltà non è nel non tradire (azione che peraltro a teatro è alla base della rappresentazione di qualsiasi testo che non sia autografo, e forse persino di quelli), ma nel rispetto leale.
In questa rispettosa seppur infedele proposizione in scena del dittico, è il combinato disposto pensato da Lanera regista a funzionare: il maschile e femminile, il rispecchiamento delle complessità, il bianco e il nero, il doppio, che unisce la forza distruttrice e l’animale in gabbia.
Un ennesimo regalo postumo di Tarantino, capace di plasmare con le sue parole chi le manipola.

 

LOVE ME

testi di Antonio Tarantino
regia Licia Lanera
con Licia Lanera
e con Suleiman Osuman
luci Vincent Longuemare
disegno sonoro Tommaso Qzerty Danisi
costumi Angela Tomasicchio
assistenti alla regia Ermelinda Nasuto, Ilaria Bisozzi
tecnico di compagnia Massimiliano Tane
produzione ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione in collaborazione con Compagnia Licia Lanera

Visto all’Arena del Sole di Bologna fino il 6 dicembre