GILDA TENTORIO | Nel 2023 Italo Calvino avrebbe compiuto cento anni e ovunque fioriscono iniziative per approfondire e studiare l’opera di questo eclettico autore che fu affascinato a lungo anche dal teatro, come rivela un bel saggio di Enrica Ferrara di qualche anno fa. D’altra parte il tema dello sguardo è il nucleo fondante della narrativa calviniana (si veda il volume di Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino) e allora quando una sua opera creata per la pagina scritta viene messa in scena, la macchina teatrale crea davanti ai nostri occhi un osservatorio vitale che rivela un ulteriore caleidoscopio di messaggi.

Fino al 5 febbraio il Piccolo Teatro di Milano (nella sede del Teatro Grassi) propone Il Barone rampante per la regia di Riccardo Frati, spettacolo sold out nel giro di pochi giorni, preso d’assalto dalle scolaresche. Benissimo: un modo per avvicinare i più giovani al magico mondo del teatro. Occorre dire però che non si tratta di un romanzo per ragazzi (scritto nel 1957) e lo spettacolo non è pensato per loro, sia per la durata (tre ore) sia per il linguaggio esteticamente sofisticato, su tessiture mozartiane.
Trasporre a teatro oggi un’opera di Calvino è certo un tributo alla vena affabulatoria dell’autore come pure al suo sguardo lucido sul senso del nostro guardare il mondo, nel momento stesso in cui ne diventiamo spettatori. Ma perché proprio Il barone rampante? Nell’intervista sul programma di sala Frati sottolinea il fascino della “dialettica verticale”, acuito dal recente periodo di restrizioni e confinamento: salire verso l’alto significa scendere in profondità e acquisire consapevolezza sul reale. Un obiettivo ambizioso, e Frati lo ha inseguito anche guidato dall’imperativo della Leggerezza, una fra le meravigliose Lezioni americane che Calvino ci ha lasciato come viatico per il XXI secolo.

ph. Masiar Pasquali

Qualche decennio prima della Rivoluzione Francese, nel 1767, il dodicenne Cosimo Piovasco di Rondò compie la sua ribellione: si rifiuta di mangiare un disgustoso piatto di lumache e abbandona l’agiata casa aristocratica. Non è una fuga ma un’ascesa sugli alberi del giardino. Disprezza la mensa paterna (allegoria del banchetto di sapienza imbandito dalla tradizione) e in particolare le lumache, creature striscianti sulla terra, e sceglie la via degli alberi, dimora degli uccelli. Quello che sembrerebbe il puntiglio di un ragazzino disobbediente si trasforma invece in una scelta esistenziale e un esercizio di tenacia. Infatti Cosimo non scenderà mai più a terra, è un flâneur cha passa la vita di ramo in ramo, mentre il sedentario fratello Biagio ne scrive la storia straordinaria.

Come mostrare la vita arboricola di Cosimo a teatro? Invece di ricostruire un bosco, Frati sceglie la stilizzazione poetica, grazie alle preziose intuizioni della scenografa Guia Buzzi: passerelle mobili pensili e drappi segnano il livello dell’alto, da cui Cosimo (Francesco Santagada) si affaccia, spenzola le gambe, si muove, si acquatta, e soprattutto guarda di sotto, insegnando una nuova prospettiva. Non si isola in una snobistica posizione di superiorità ma impara a interagire con gli altri, cosa che prima, nell’hortus conclusus della sua vita dorata, non aveva mai provato.
All’inizio ci appare come un ragazzino capriccioso (però fastidiosi i bronci e le posture infantili del giovane attore), che fugge da una famiglia dai tratti grotteschi e ben riusciti, evidenziati anche dai broccati rigonfi e scintillanti dei costumi (Gianluca Sbicca): il padre (Mauro Avogadro) concentrato sui titoli di nobiltà e sul buon nome, la madre (Diana Manea) tonante generalessa, la maliziosa sorella (Marina Occhionero), il sonnecchiante abate-precettore (Michele Dell’Utri) e il Cavaliere Avvocato nostalgico di Istanbul (Nicola Bortolotti). Interessante la scelta di presentare il fratello Biagio (Giovanni Battaglia) ormai maturo e quindi convincente narratore: entra ed esce dal suo ruolo, vive immerso nei fatti che racconta e al contempo la sua narrazione in terza persona è venata di dolente malinconia perché viene dall’orizzonte del dopo, quando tutto è finito.

ph. Masiar Pasquali

Gli anni passano, Cosimo cresce e vive mille avventure, circondato da una giostra di personaggi minori (ogni attore interpreta più ruoli): diventa cacciatore, protettore del bosco dagli incendi (suggestive le animazioni di Davide Abbate per rendere l’idea delle fiamme), stringe amicizia con un brigante innamorato della lettura, aiuta la comunità, affronta duelli e sperimenta anche le ferite strazianti dell’amore per l’incostante e vanitosa Viola. Tuttavia resta sempre giovane: questa sua spensierata e infinita giovinezza alla Peter Pan è un elemento di stonatura rispetto alla sapienza acquisita sugli uomini e sul mondo.

Frati spiega che il suo Cosimo potrebbe oggi essere un attivista ambientale dalla coerenza estrema, ma il personaggio ci è sembrato umorale e svagato più che un sanguigno contestatario, e inoltre la sua vocazione alla comunità pare circoscritta a quel suo piegarsi curioso ad ascoltare i sussulti del mondo di sotto.

L’adattamento del romanzo è fedele, anche nella riproduzione della lingua, ma naturalmente è impresa ardua rendere la stratigrafia del testo calviniano. Se ben riuscita è la cornice della narrazione, affidata a Biagio e ai personaggi stessi anche in terza persona, resta in ombra o appena accennato il tema capitale della scrittura-vegetazione (si veda l’ultima meravigliosa pagina del romanzo) e cioè l’inchiostro come infinita ramificazione di parole; si preferisce invece accentuare una tonalità poetica e lieve, come quella piuma che piove dall’alto verso Biagio, in una sorta di investitura.

ph. Masiar Pasquali

Come si è detto, Frati fa propria la lettura calviniana della leggerezza, e a colpire è soprattutto il magico mondo di Cosimo nella parte alta della scena, animata da giochi di luce (Luigi Biondi): soffusi, declinanti, intensi fino a ridurre le figure a silhouettes di teatro d’ombre. Il dinamismo è reso, più che dai salti dell’attore, dalle strutture sceniche: le passerelle salgono e calano con precisione millimetrica fino a combaciare per creare nuovi sentieri pensili di attraversamento, mentre i drappi danzano su e giù, imitando l’oscillare del fogliame. Un notevole sforzo artigianale che invita all’immaginazione: sono i nostri occhi a dover plasmare il bosco-labirinto della vita arborea di Cosimo. Solo in un punto l’approccio è didascalico e preciso (d’altra parte siamo nel secolo dei Lumi), per l’incipit del capitolo X, illustrato da Biagio con pannelli che recano le riproduzioni delle singole foglie.

La macchina teatrale delle meraviglie riesce a stupire il pubblico, ma a tratti prende il sopravvento sulla vicenda e la scelta esistenziale del Barone sembra perdere spessore, si diluisce in una bizzarria d’altri tempi. Il risultato finale è un inno al teatro e alla sua artigianalità, capace di creare grandi finzioni e di ampliare i nostri orizzonti mentali, un grande contenitore del nostro immaginario. D’altra parte l’immaginazione, dice Calvino, “è il repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è, né è stato, né forse sarà, ma che avrebbe potuto essere”.

IL BARONE RAMPANTE

di Italo Calvino
regia e adattamento Riccardo Frati
con Mauro Avogadro, Giovanni Battaglia, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Diana Manea, Marina Occhionero, Francesco Santagada
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
disegno luci Luigi Biondi
composizione musicale e sound design Davide Fasulo
animazioni Davide Abbate
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

Teatro Grassi, Milano | 26 gennaio 2023