EUGENIO MIRONE | Harold Pinter non appartiene certo alla categoria di ‘chierico’ così come postulata da Julien Benda nel suo celebre saggio intitolato Il tradimento dei chierici. All’interno del testo che contribuì a mettere il sale sulla polemica riguardo il ruolo dell’intellettuale nella società, il filosofo francese costruì l’immagine di uno studioso attento a evitare ogni compromesso con la realtà, dedito esclusivamente alla sua opera di ricerca che porta avanti con scrupolo, rinchiuso in una turris eburnea. Quanto di più lontano possa esserci da Pinter. Che non si tratti di un autore accomodante, oltre ai testi, lo ricordano anche le sue scelte di vita fortemente connotate politicamente.
La scena di Vecchi Tempi così come realizzata nell’allestimento del testo del drammaturgo anglosassone al Pacta Salone di Milano, certifica quanto detto; infatti l’apparenza spesso inganna: divani e poltrone di un intimo salotto borghese in questo caso comunicano che quanto sta per essere raccontato non sarà per niente comodo.

Abbiamo già dato conto di ciò che accade, tra un bicchiere di scotch e l’altro, ai personaggi del testo di Pinter (qui l’analisi di PAC), in occasione del ritorno in scena di Vecchi Tempi – al Pacta Salone di Milano dal 23 febbraio al 5 marzo 2023 – abbiamo avuto modo di fare qualche domanda a Claudio Morganti, regista dello spettacolo.

Claudio, personalmente ti sei occupato di diversi lavori di Pinter, come nasce questo rapporto “speciale” con il drammaturgo inglese?

Non sono domande che solitamente ci si pone. L’interesse per un autore funziona un po’ come un innamoramento, che in questo caso si traduce nel leggere cose che ti tolgono il fiato e ti lasciano ammutolito, proprio come quando ci si innamora. Sono due gli autori che mi hanno fatto questo effetto: Pinter e Büchner. Entrambi sono diventati per me, prima di tutto, maestri di pensiero e in secondo luogo modelli in fatto di drammaturgia. È la drammaturgia l’elemento che più mi attrae in loro e che mi lascia libero di infilarmi tra una parola e l’altra, perché nei loro testi c’è un mondo di non detto e di non spiegato.
Oggi, invece, mi pare che funzioni un po’ al contrario: c’è la tendenza a mostrare tutto, ma in questo modo lo spettatore non è stimolato ad avere uno sguardo attivo. È già tutto spiegato, bisogna solo aderire, di conseguenza viene meno la partecipazione.
Pinter e Büchner, invece, costringono lo spettatore a prendersi responsabilità intellettuali e a partecipare. Lo spiega perfettamente Büchner in una battuta del suo Woyzeck, quando lo stesso Woyzeck afferma: «L’uomo è un abisso, ti gira la testa se ci guardi dentro». Ci devi guardare dentro, però! È ciò che un artista dovrebbe essere chiamato a fare, perché il suo compito non è quello di accontentare bensì di turbare.

Ma tutte le storie d’amore sono soggette ai cambiamenti del tempo. Nel corso della tua carriera è cambiato qualcosa nel tuo rapporto con Pinter?

No, perché è un rapporto d’amore univoco e unilaterale. Nelle relazioni d’amore si è sempre in due e i cambiamenti sono determinati dalle circostanze che riguardano entrambi i poli. Nel mio caso Pinter non ha mai saputo che io fossi innamorato di lui. Da parte mia non è cambiato assolutamente niente, lo considero tutt’ora uno dei più grandi poeti e drammaturghi del Novecento.

Foto di Emma Terenzio

Venendo più concretamente a Vecchi tempi, Pinter riflette sulla possibilità di ricostruire una memoria oggettiva. I personaggi del testo ricorrono molto spesso all’alcool che per eccellenza è il peggior amico della memoria. È un gesto implicito di resa, il loro?

No, non credo. Più che un bere associato alla questione del ricordo, credo che si tratti di un bere sociale. L’alcool in qualche modo è anche un fatto di status sociale. Senza dubbio è il peggior nemico di moltissime cose; tuttavia ne favorisce altre. Kate e Deeley hanno bisogno di bere per portare avanti la loro stirata relazione. Loro bevono sempre, non solo in questa occasione. L’arrivo di Anna rappresenta per loro una situazione imprevista e difficile e senz’altro il bere è una di quelle cose che possono aiutare.
Inoltre, questo è un chiaro esempio di quanto intendevo prima con drammaturgia: Pinter, ogni tre o quattro pagine, segnala che il trio beve; è un’indicazione per chi vorrà inscenare il suo testo. Tuttavia, il come e il perché i personaggi bevano è una responsabilità di chi si assume il compito della messa in scena.
Che si tratti di un alcolismo pesante lo si capisce dagli effetti che ha sulla coppia Deeley-Kate: il personaggio di Kate verso la fine cambia ed è proprio l’alcool la causa del suo cambiamento. Anche Deeley, grazie a Riccardo Magherini, ha trovato un finale enormemente alcolico in cui i pensieri non hanno più possibilità di procedere con raziocinio. È la fine della sbronza e l’inizio del malessere, finché si beve tutto va bene ma arriva un punto in cui si sta malissimo.

Quando il terreno comune viene a mancare, una conseguenza immediata è la sfiducia nei confronti di chi ci si trova di fronte, anche se lo si conosce da una vita. Ma la fiducia in teatro è tutto. Da regista, come sei riuscito a creare un clima di fiducia, indispensabile fra attori?

Innanzitutto so per esperienza che la memoria oggettiva non esiste. I ricordi sono diversi anche quando sono comuni, soprattutto quando è passato molto tempo. Riguardo alla fiducia in teatro, io sono un attore prima che regista e so che bisogna puntare a ottenere che gli attori riescano a sentirsi autori di quello che fanno in scena. Il compito del regista è  creare il clima necessario perché questo accada.
Solitamente quando inizio un lavoro cerco il più possibile di non arrivare con idee già fisse nella mente, perché so che gli spunti migliori sorgeranno dal confronto con gli altri. Purtroppo, non c’è un metodo. Il mio segreto è quello di creare il più possibile un clima sereno e rilassato, senza l’ansia di lavorare ventiquattro ore al giorno. Tanto il rispetto di cui godiamo come categoria è quasi nullo sia che lavoriamo settanta ore oppure una sola. Un lavoro di ordine creativo come il nostro non si può misurare in ore.
Passami il termine: bisogna prima “cazzeggiare” e, in seguito, portare quel “cazzeggio” in scena. Bisognerebbe cercare di non restare troppo seri, perché il gioco è il miglior modo per esprimere la creatività. Il nostro lavoro non può essere come tutti gli altri, e allora dovremmo cercare di mantenere questo privilegio. Il discorso vale anche per i cambiamenti al quale uno spettacolo può essere soggetto.

Esatto, parliamo di questo aspetto. Ogni rappresentazione non è mai uguale a quella precedente. Ti spaventa replicare sapendo che non sarà esattamente come te lo aspetti?

Le persone cambiano, il luogo e il tempo si modificano e, soprattutto, il pubblico non è mai lo stesso. Tutto fluisce, ogni cosa nasce, si trasforma e poi muore. Allora perché ostinarsi a fare in modo che ogni replica sia sempre identica? D’altra parte, un’arte che riesce in questa “impresa” esiste già, si chiama cinema. Noi invece dovremmo fare tesoro del fatto che il cambiamento del nostro campo di gioco è uno specifico della nostra arte. Il teatro è tale perché esiste questo meccanismo: niente può essere fissato.
Cento anni fa Vachtangov diceva: «vorrei fare uno spettacolo che sembri improvvisato dall’inizio alla fine». È un’utopia ma è quello che un teatrante onesto dovrebbe ricercare. Non si tratta, dunque, di un cambiamento in meglio o in peggio, queste sono categorie arbitrarie che non interessano a un regista, l’importante è che uno spettacolo si evolva serenamente. Come ogni cosa, anche uno spettacolo ha una sua conclusione naturale che può essere percepita soltanto dagli attori.

 

VECCHI TEMPI
di Harold Pinter
nuova traduzione Alessandra Serra
regia Claudio Morganti
con Maria Eugenia D’Aquino, Riccardo Magherini, Annig Raimondi
spazio scenico e luci Fulvio Michelazzi
costumi Nir Lagziel
assistenti regia Livia Castiglioni, Lorena Nocera
tecnico costruttore Eliel Ferreira de Sousa
produzione PACTA . dei Teatri