ESTER FORMATO | Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov è una di quelle opere teatrali la cui essenza è così evanescente da compromettere facilmente ogni tentativo di allestimento. Che si aggiunga, che si tolga, che si tradisca il testo o che lo si rispetti filologicamente, la sensazione è spesso quella di uscire da teatro con un godimento parziale di questo dramma. È così, perché è una caratteristica imprescindibile dei testi cechoviani. Tanto più nel Giardino  (l’ultimo che scrisse) il cui debutto fu assai controverso e veramente in pochi riuscirono a comprendere quanto rivoluzionario fosse quel testo per la storia del teatro occidentale.

La regia di Rosario Lisma propone echi di regie storiche con le quali, scena dopo scena, intesse il suo spettacolo, rimuovendo però l’originale contesto storico per riambientare il dramma di Ljuba e di suo fratello Leonid Andreevic (Gaev) agli orli della nostra contemporaneità, figlia snaturata di anni rivoluzionari (i ’60 e i ’70), le cui promesse e slanci hanno lasciato spazio a un’epoca amorfa e asettica.


Ed ecco che fanno capolino il cellulare che Ljuba tormenterà verso la fine, in attesa di sapere l’esito dell’asta, la minigonna e gli stivali della parigina Anja che fanno da contrappunto allo stile più severo di Varja, intrappolata nella tenuta di famiglia, gli abiti un po’ anni ’80 che i personaggi indossano per la festa del III atto la cui colonna sonora arriva sulla scena come da lontano, felpata, e riprende la disco-music.
Questa scelta non toglie nulla al dramma, né tanto meno sembra conferire un valore aggiunto allo spettacolo, se non quello di rendere più tangibile ai nostri occhi il piglio nostalgico di Gaev (Giovanni Franzoni), oppure di restituirci più concretamente la dimensione d’infanzia e di gioventù in cui lui e Ljuba (Milvia Marigliano) sono cresciuti. Sono due adulti non del tutto strutturati, fragili ed emotivi, e tutta questa dimensione interiore ritorna prepotente quando si ritrovano nella nota stanza dei bambini, quella della loro infanzia. Per quanto il carattere evasivo di Ljuba e di Gaev ci ricordino la precaria maturità con la quale oggigiorno arriviamo all’età adulta, spesso in bilico fra fragilità e senso di responsabilità, non sembra che la scelta di ricollocare la storia in un differente segmento della linea del tempo si riveli particolarmente significativa.
Detto ciò, i personaggi restano immersi nel piccolo provincialismo russo, esternando quello slancio per la vita che si smorza via via in un’atavica impotenza a fronteggiare il futuro, e che ogni personaggio restituisce con un sottobosco di emozioni e vissuti differenti. Tutti sono pezzi di un mellifluo equilibrio pronto a implodere. In primis, la Ljuba di Milvia Marigliano investe la scena con emozioni contrastanti: il dolore per la perdita del figlioletto che scalfisce amaramente il suo ritorno, l’infelicità coniugale, in lei vi un’irremovibile traccia della leggiadria di un tempo – forse, una volta, somigliava tanto alla dolce e spensierata Anja – che l’attrice rimanda mettendo in evidenza una certa estroversione, che maschera il rimpianto per la giovinezza ormai lontana, e quella frivolezza dietro la quale continua a proteggersi dalle amarezze della vita. Sostenuta dal Gaev di Giovanni Franzoni, Marigliano restituisce al suo personaggio un piglio brioso, ma nei giusti momenti lascia intravedere le sue profonde crepe.

All’inizio dello spettacolo, una sola grande madia predomina sulla scena (a cura di Federico Biancalani), schiacciato sul fondale, foderato da una sorta di parato pregiato, il grande mobile manterrà una funzione simbolica: conferisce alla scena un certo rigore e grande essenzialità. La stanza dei bambini: la riconosciamo da un grande orso giocattolo e da altri giochi che i due fratelli, di nuovo insieme dopo molto tempo, riprendono in mano con piccoli scherni puerili. Questo luogo, imprescindibile nel dramma, rappresenta il ritorno alla fanciullezza, non solo come motivo nostalgico ma soprattutto perché esso rimane il baluardo di difesa dal futuro e dal presente, dall’inesorabile cambiamento che sta per incombere. Una comfort zone che resiste alla perdita e al lutto di Ljuba, all’inconcludenza di Gaev, il quale fa gravare la responsabilità economica sulla giovane Varja.
Soltanto riconoscendo la carica simbolica della camera e la fragilità dei suoi vecchi inquilini, possiamo assaporare e comprendere l’evanescenza e l’inconsistenza delle battute che la regia di Lisma riesce a cogliere – quale marchio di fabbrica del drammaturgo russo – rileggendole attraverso un preciso contrappeso: il pragmatismo di Lopachin che nell’allestimento diviene il motore e il punto di vista della vicenda: lo troviamo al lato della scena di apertura e di chiusura, quando la madia diverrà una botola immaginaria in cui i personaggi ritornano, come se la storia incominciasse daccapo.
Che sia un sogno, una visione dello stesso Lopachin? Un’ossessione per quel giardino, maturata nel tempo? Qualunque cosa sia, muove di nascosto le fila del destino, dal momento che egli incarna un mondo che avanza e che spazzerà via il giardino e tutta la vita dei personaggi. Quando alla fine, sarà il nuovo padrone della casa e si sentiranno i motori delle seghe abbattere il giardino, dopo aver infranto le aspettative di Varja, destinata a lasciare la sua casa per fare la governante altrove, si intuisce che il suo sguardo è l’angolatura dalla quale è stato narrato tutto quanto.
Lopachin ha riscattato il giardino, ponendosi da complice a concorrente di Gaev, ne ha tradito la fiducia per rivestire un ruolo di attaccante nel cinico gioco del mercato. Ha comprato con facilità ciò che ingenuamente e in maniera incosciente Ljuba e i suoi familiari consideravano senza prezzo, per farci villette per villeggianti.
Questa parte della vicenda che si snoda fra il III ed il IV atto diventa il fulcro fondamentale: i mutamenti socio-economici, silenti cardini che si nascondono all’interno del dramma, sono pienamente e inesorabilmente incarnati in Lopachin. Questo parvenu, la cui famiglia si  riscattò dalla servitù contadina, è tratteggiato da Lisma con lucidità e lungimiranza, qualità con cui è in grado di misurare l’astrattezza idealista del giovane Trofimov e l’ottusità di Ljuba e Gaev, dei quali stravolge lo status quo. Ma poiché non vi è uomo totalmente vincente, in Cechov, la sua scalata sociale lo ha reso solo, incapace di legare a sé l’unica creatura con la quale condividere il senso pratico della vita: Varja.
Dopo la loro separazione, siamo certi che la compiaciuta soddisfazione con cui Lopachin caccia via il vecchio e polveroso mondo annidato nella proprietà Ranevskaja, non sarà mai completa ma lascia al pubblico un vuoto incolmabile, un baratro soltanto illusoriamente addolcito dal saluto alla vita nuova di Trofimov.

La lettura “materialista” spiega anche la mancanza di Firs, personaggio memorabile de Il Giardino dei Ciliegi. Qui infatti perde di consistenza e diviene una voce intrinseca della casa, come se fosse la sua anima. I personaggi, talvolta, lo citano, lo cercano, ma il buon servo si è reso immateriale, e la sua assenza fisica assume tuttavia un risvolto interessante perché, sottraendo al pubblico la sua fisicità (la sua voce è affidata a quella di Roberto Herliztka), rende più concreto il valore della casa e assolutamente centrale il tema della sua contesa.

In buona sostanza, lo spettacolo si mantiene compatto, ogni personaggio (i minori, oltre a Firs, come le governanti ed Epichedin a cui si accenna soltanto, sono stati tagliati) si presenta in scena mantenendo la propria e originaria essenza. La cornice cronologica differente da quella originale resta per lo più superflua e poco coerente è l’introduzione della canzone di Battiato “La stagione dell’amore” a scena aperta.
La levità dei dialoghi non viene però snaturata, e il finale che apre a una lettura onirica in realtà non tradisce il naturalismo e il realismo cechoviano ma va a coadiuvare la ripresa di un sottotesto che è intrinseco al dramma, sebbene se ne dia spesso una lettura più astratta. Non per questo ci priva di riconoscere in noi determinati sentimenti che solo Cechov è in grado di richiamare.

IL GIARDINO DEI CILIEGI

di Anton Cechov
Adattamento e regia di Rosario Lisma
Assistente alla regia Valentina Malcotti
Scenografia Federico Biancalani
Costumi Valeria Donata Bettella
Luci Luigi Biondi
Con Milvia Marigliano, Rosario Lisma, Giovanni Franzoni, Eleonora Giovanardi, Tano Mongelli, Dalila Reas
E con la partecipazione in voce di Roberto Herlitzka
Produzione Tieffe Teatro Milano/Teatro Nazionale Genova/Viola Produzioni srl

Milano, 16 febbraio 2023 | Teatro Tieffe Menotti