RENZO FRANCABANDERA | Torna a dirigere uno spettacolo Nanni Garella con la sua compagnia Arte e Salute e porta in scena in prima assoluta fino al 7 maggio al Teatro Arena del Sole di Bologna Porcile di Pier Paolo Pasolini, in un’inedita collaborazione con Balletto Civile, collettivo guidato dalla coreografa e danzatrice Michela Lucenti.
Lo spettacolo si inserisce all’interno del progetto Come devi immaginarmi dedicato a Pasolini, ideato dal direttore di ERT, Valter Malosti e dallo studioso Giovanni Agosti. Dopo Calderòn di Fabio Condemi e Pilade di Giorgina Pi, Porcile è la terza tragedia del poeta, drammaturgo e cineasta italiano che viene messa in scena presso il teatro bolognese, in questo caso grazie alla collaborazione produttiva tra Emilia Romagna Teatro ERT e Balletto Civile, con Associazione Arte e Salute, e la Regione Emilia-Romagna – Progetto “Teatro e salute mentale”, Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda USL di Bologna.

Abbiamo intervistato Nanni Garella.

Partiamo da questo lavoro, da come è nata l’idea di Porcile.

L’idea è nata sicuramente dalla proposta di Malosti di portare in scena in questa stagione teatrale in corrispondenza della quale ricorre il suo anniversario, le tragedie di Pasolini. Con Arte e Salute avevo già fatto dei Pasolini, ricavandoli dalle sceneggiature cinematografiche: Edipo, il Vangelo secondo Matteo, Cosa sono le nuvole tratto da La terra vista dalla luna. Quindi eravamo abituati ad un altro tipo di lavoro, a riscrivere le sceneggiature dei suoi film che sono dei bellissimi romanzi. Qui invece ci siamo trovati di fronte al testo teatrale, che come si sa sono stati scritti tutti in pochissimi mesi nella seconda metà degli anni Sessanta, sei tragedie, una in fila all’altra: Tan! Tan! Tan! Sono scritti inversi, divisa in episodi, e ricalcano la struttura della tragedia antica. Porcile ha però un’ambientazione moderna: fine degli anni 60 in Germania, in una famiglia di grandi industriali, che a suo tempo era stata in parte anche collusa con il nazismo, con al centro lo scontro fra padre figlio, sommosse rivoluzioni, insomma i conflitti generazionali. È una tragedia bella, scritta bene, in versi, quindi non facile per i miei attori, ma direi per nessun attore, perché recitare in versi non è mai semplice. Ma non sono versi come, che so, quelli di Alfieri, giusto per fare l’esempio di un versificatore. Sono versi molto liberi. Pasolini non è un drammaturgo. È però un grandissimo poeta. E questo si sente. L’altezza del linguaggio c’è, e bisogna mantenerla, non si può non mantenerla.

Ma questa proposta in che modo ti stuzzicava?

Porcile l’abbiamo scelto abbastanza insieme. E mi affascinava cercare il coro nascosto che c’è nella tragedia. Le tragedie hanno tutti bisogno di un coro, ma in questa è nascosto. Compare alla fine quando i contadini raccontano della morte del protagonista, come in una tragedia classica in una tragedia perfetta. Ma in realtà questo coro esiste nella mente di Julian, diviso fra il desiderio rivoluzionario e la voglia di rimanere fedele alla famiglia con il risultato di non essere né l’uno né l’altro: nè consenziente né dissenziente, né disubbidiente né ubbidiente. Questo coro è un coro di contadini, quelli che lavorano la terra della grande tenuta, che Julian vede come amici e che, come scrive Pasolini, sono quasi tutti di origine italiana. Ogni tanto il ragazzo li immagina come rivoluzionari, con in testa Maracchione, il loro capo. E mi sono detto: beh, ma allora un coro c’è! C’è, sì, ma si perde e ricompare solo alla fine. D’altronde anche Pasolini nel suo film Porcile, che pure non è un grandissimo film, ma resta pur sempre un’interpretazione autentica della tragedia, crea una storia parallela dentro la trama principale. E allora conoscendo Michela Lucenti e Balletto Civile ho chiesto loro se erano interessati a lavorare con noi su questo versante e ho organizzato un laboratorio più tecnico, fra novembre dicembre in cui però abbiamo incominciato a lavorare anche su Porcile. E da lì è nata la visionarietà simbolica e poetica di questo spettacolo, molto affascinante. Quindi ho messo il coro alla fine di ogni episodio, cosa che nel testo pasoliniano non c’è. Ho aperto degli spazi visionari e di sogno: sono entrato nella testa del protagonista e ho tirato fuori quello che c’è. Ho rimesso dentro anche la scena di Spinoza che Pasolini aveva tagliato del film. A teatro si può fare di tutto anche mettere i fantasmi. Al cinema il fantasma non si può fare, o meglio si può fare ma è meno reale che a teatro. La tragedia è molto più ricca del film, perché può essere interpretata. Il film no. E siccome noi siamo interpreti, cerchiamo i motivi poetici, che vanno cercati.
In fondo il lavoro drammaturgico non è stato così difficile: a parte qualche taglietto, la polpa è quella. Abbiamo semplicemente allargato un po’.

E il lavoro coreografico?

Quello che ha fatto Michela Lucenti con i danzatori di Balletto Civile, l’assistente Manuela, è stato un lavoro bellissimo, dolcissimo, grazie al quale ho scoperto anche delle qualità dei miei che non conoscevo. E sono rimasto anche sorpreso da alcune cose. Loro si sono molto divertiti. Anche perché si erano molto spaventati all’inizio quando hanno letto il testo.

Con il testo infatti immagino non sarà stato facilissimo…

Affatto, un testo difficilissimo, complicatissimo lontano da loro sia per suoni che per tipologia e anche classe sociale. Per fortuna ho iniziato a lavorare sul testo molto tempo prima e poi dal testo alle persone e dalle persone dei personaggi, e quindi sui personaggi poi siamo riusciti a costruire tutto il resto.

A questo punto della tua vita cosa significa Arte e Salute?

Beh, sai a questo punto della mia vita praticamente è l’unico lavoro che faccio. A parte il fatto che abbiamo ancora attori che sono rimasti gli stessi dall’inizio, parliamo del 1999! Fra di loro, quattro o cinque, sono ancora i ragazzi del 99 come li chiamo io. Altri si sono aggiunti nel frattempo, altri sono mancati. Faccio dei laboratori per introdurre nuovi elementi quando possibile. Nel complesso penso comunque che sia una compagnia di buoni attori. E pur nella complessità della loro situazione, che comprende qualche impiego saltuario, siamo riusciti a fare di questo comunque il loro lavoro perché quando recitano sono scritturati, hanno tirocini formativi del Dipartimento di salute mentale, e quindi ricevono dal teatro un loro stipendio: piccolo, ma ce l’hanno. E quindi la responsabilità del lavoro è quello che li aiuta a superare tanti momenti di difficoltà. Ricorrono meno di prima questi momenti, ma sono ancora tanti: il teatro fa bene perché si fa in gruppo, ma è proprio la responsabilità del lavoro che li emancipa e li rende autonomi della famiglia, per certi versi anche dal Dipartimento di salute mentale con il piccolo guadagno, e tornano ad essere minimamente indipendenti dopo periodi in cui magari non lo sono stati affatto.

E tu come artista che cosa hai di te in questo progetto? Ad un certo punto hai abbandonato il ramo più grande del fiume del teatro per abbracciare questa avventura…

Beh, sai, questo è stato il mio progetto, la mia vita negli ultimi vent’anni. Beh, venti no, ma forse dieci sì: ho iniziato con loro comunque dall’inizio. Hanno sempre lavorato con me. E devo dirti la verità, da una decina d’anni il teatro e comunque cambiato: è difficilissimo fare oggi produzioni di questo tipo, con una decina di attori in scena a cui si aggiungono anche i danzatori. Dal punto di vista produttivo questo ormai è praticamente impossibile. E allora non si possono fare più gli autori che mi piacciono. Come si fa a fare Shakespeare? Sì, si può fare, ma poi mancano gli attori giusti, devi prendere dei ragazzini che non hanno più scuola.
Ma è il teatro che non si può più fare: sono invecchiato, sono di un’altra generazione…

Viziata!

Viziata da come era il teatro una volta: io sono stato assistente di Puecher, di Trionfo, di Castri soprattutto. Ho avuto maestri importanti e invece vedo che adesso questo modo del teatro non esiste più, la costruzione del teatro da maestro ad allievo. I gruppi si costruiscono tutti un po’ da soli, con scuole che funzionano così così… Io non ho fatto scelte, lavoro nella realtà che mi sono costruito. E in questa resto.

E tu, da maestro, da detentore di un sapere, a chi sta insegnando? Non senti anche tu questa responsabilità di tramandare?

Beh, il problema non è solo quello di poter insegnare: occorre poi che queste persone possano produrre, debbano poter fare il loro lavoro e non c’è più questo meccanismo.

Allora il teatro va a morire?

No, il teatro ha cambiato pelle, è un’altra cosa. Non so cosa diventerà, francamente non riesco ad avere un’immagine di cosa sarà in futuro, almeno in Italia. Non è detto che sia così in tutti gli altri posti dove si fa il teatro, direi Francia e Germania (e basta a parte alcuni paesi dell’est dove però c’è un’altra tradizione), nazioni dove comunque ci sono ancora molti teatri pubblici. In Italia abbiamo avuto una riforma sbagliata, sbagliata completamente sui teatri pubblici, impossibilitati ad andare in tournée, e quindi senza la possibilità di ammortizzare con le repliche i propri costi, a fronte di una pletora di produzioni da fare, con molte repliche in sede. Un pasticcio, una riforma pasticciata. Quando ho iniziato io, in alcune città facevamo due settimane quando eravamo prodotti e le compagnie ospiti almeno una settimana, adesso le compagnie ospiti sono programmate a malapena per tre giorni. Quattro quando sono proprio grandi spettacoli… e non c’è più la popolarità degli attori che c’era una volta: così si finisce per dover prendere dentro i fenomeni televisivi, e questo incide molto sui giovani che decidono di fare teatro che, a quel punto, giustamente, si fanno i loro gruppi, per costruire delle realtà che però poi dopo hanno sbocchi produttivi molto molto scarni. Io adesso non so perché mi sono avventurato con te in questo discorso, mi hai provocato tu!

E certo! Però non è tutto così fosco, dai!

No, certo! Vedo anche cose belle, ogni tanto qualche lampo c’è. Il problema è che mancano delle solide basi. Su cosa si fonda la solidità di un teatro nazionale? Si basa sulla qualità delle scuole, sulla bravura degli attori, sulla solidità dei teatri pubblici.

Quindi per te la scuola, per un attore, è importante.

È fondamentale! Se no dove impari a recitare? Da solo non si impara a recitare. Si può avere il talento, sì, ma il talento ce l’ha anche chi racconta le barzellette.

Però tu sai che in Italia comunque c’è stato tutto un movimento volto a mettere in discussione il teorema delle scuole.

Secondo me la cosa dell’auto apprendimento non esiste. L’apprendimento è apprendimento, da qualcuno che ne sa più di te. Il teatro è una cosa difficile da apprendere sui libri, o da soli, o recitando con gli amici. Lì puoi fare i filodrammatici, che, per carità è una delle cose più belle del mondo, fare un altro lavoro e poi la sera trovarti a recitare con gli amici. Ma non si diventa attori così, si rimane filodrammatici. Si resta comunque in un alveo che non ti porta ad essere un artista di teatro. Si può fare intrattenimento, ogni tanto (difficilmente) viene fuori qualcosa di buono, ma si resta nell’impossibilità, anche produttiva. Che fanno? Lavorano un po’ di qua, un po’ di là, si arrangiano, e poi smettono ovviamente. Tu mi sai fare i nomi di attori popolari che fanno il teatro in Italia oggi? Quanti ce ne saranno? A parte quelli che sono rimasti delle vecchie generazioni, ma dei giovani, che facciano praticamente solo teatro, quanti ce ne saranno? Pochissimi!

È ormai un medium borghese? Un vezzo?

Il teatro ha molto a che fare con il pubblico. Senza pubblico, il teatro non c’è! Il pubblico borghese ha sostenuto il teatro per molte decine di anni, almeno un centinaio se non di più. Una forma teatrale che ha anche sostenuto i grandi autori. L’allargamento del pubblico non c’è mai stato. Il pubblico è rimasto sempre quello, un pubblico borghese, cittadino, di centro città. Le periferie non sono mai stati coinvolte dal teatro. Lo faceva Paolo Grassi, lo facevano di teatri nazionali all’inizio, sperimentando altre forme di circuitazione che andassero a coinvolgere qualcun’altro oltre chi va in piscina, gioca a tennis eccetera. Io con Arte e Salute sono uscito da tutto questo. Sono riuscito a costringere i miei amici di Nuova Scena di allora a farci lavorare in questo teatro. Grazie anche a Cofferati, perché se non c’era lui non lo facevo questa cosa. Grazie a lui abbiamo fatto la ONLUS, abbiamo fatto una convenzione conNuova Scena e l’Arena del Sole e da allora ho sempre avuto una casa. E siamo ancora qua.

Ma non è che il problema è il teatro di parola?

Il teatro è per forza di parola! Di cosa vuoi che sia? Il teatro di prosa… senza i testi non si fa il teatro, si fa un’altra cosa. Si raccontano delle storie, si fa della danza, si fa della musica. Cosa vuoi che ci sia nel teatro? Le parole, le parole degli autori. Non le parole delle compagnie teatrali che si fanno i testi da loro; magari ci sono anche dei bei testi, per carità. Io di questi testi non ne ho mai letti però, allora vuol dire che c’è qualcosa che non funziona. I ragazzi di oggi peraltro non conoscono Shakespeare, Cechov, Goldoni, perché non ci sono gli attori e i soldi per farli. Ed è giusto questo? Io non penso sia giusto, perché ne va del patrimonio culturale di una nazione; neanche Pirandello si fa più. Il rapporto con il teatro degli autori, quello vero, non c’è più. Certo, rispetto al teatro di prosa ci sono state delle rivoluzioni, ma se devi fare uno spettacolo un po’ di drammaturgia serve. Puoi interpretare i testi come ti pare, ma sempre un testo ci vuole. Se no cosa fai a teatro? Uno entra, fa una cosa e se ne va, e quello è teatro? No!

Ma non è che sei un po’ conservatore?

Sono molto conservatore! Eppure non nella vita: non ho mai conservato niente, perché ho fatto delle cose pazzesche. Soprattutto sulle drammaturgia. Ma quando mi si racconta che il teatro può fare a meno dei testi, allora dico che sono etichette. Qual è il teatro che non è teatro di parola? Per fare il teatro di prosa servono i testi, dei buoni attori e il regista. Del regista si può fare anche a meno. Ma dei testi non puoi fare a meno. Certo, potrai dirmi Kantor, del quale non esistono testi degli spettacoli: ma una drammaturgia c’era, c’erano immagini che venivano da una struttura profonda di prosa. Ma parliamo di un’eccezione. Kantor era un’eccezione, che conferma la regola, non era la regola!

E Castellucci?

Anche Castellucci fa dei testi, mica non li fa! Anche Bob Wilson. Tutti questi che, ripetiamo, sono eccezioni, in realtà comunque fanno dei testi; e in verità confermano la regola.

Ma ti fa il felice il teatro oggi?

Certo! Mi piace e mi diverte farlo, è la mia vita, e penso anche che ne venga fuori un lavoro di qualità, è un lavoro che mi dà soddisfazione, e anche molta libertà. E anzi in questa condizione tante volte mi trovo a dirmi che ancora mi sorprendo.

Hai iniziato nel 1974, l’anno prossimo compi cinquant’anni di teatro. Come li festeggi?

Ah non lo so, adesso vedo! Spero a teatro! Tante persone che avrei voluto non ci sono neanche più. Ma se guardo a questo tempo, dico che ho fatto delle cose bellissime, scegliendole tutte io.

Alcune di cui avrai memoria per sempre, le emozioni indimenticabili?

Ricordo i Sei personaggi in cerca d’autore al Teatro Testoni in cui gli attori entravano in teatro dalla porta sul fondo del palcoscenico. Era inverno, nevicava fortissimo, la porta si apriva sulla città e loro entrarono in scena con una folata di gelo.un ricordo indimenticabile. Anche al Santa Chiara di Brescia un altro spettacolo in cui l’attrice usciva dalla porta sul fondo e correva in questa via lunghissima con me che la inseguivo sulle note di You are my Destiny.
Questa compagnia mi permette di fare le cose che mi piacciono, di poter continuare a scegliere. Una sola volta ho lavorato su una commissione. Era l’87 88, era Una vita per il teatro, di Mamet ma il testo mi piaceva e accettai. Mi ricordo che c’era in scena Glauco Mauri. Un attore incredibile. Ricordo ancora che pur corpulento come allora era, si cambiava un gran numero di volte di abito, con una fatica incredibile. Aveva due sarti, ma si cambiava senza dire né A e nè B. Un professionista pazzesco.
Gli dicevo: Glauco ma sei sicuro?
E lui: certo! Sono un attore, o no?