RENZO FRANCABANDERA | Mentre l’ombra di Sofocle appare e invita il pubblico a seguire «le vicende un po’ indecenti / di questa tragedia che finisce ma non comincia», in una stazione ferroviaria inizia un sogno angosciante che dentro un buio indecifrabile vede una figura di spalle provare a illuminare, a fare chiaro.
Subito si sviluppano quindi una serie di piani della narrazione. Proprio come piaceva a Pasolini.
Otto episodi in versi liberi, un prologo e un epilogo, scritti nel 1966: questa è Affabulazione, opera teatrale pubblicata in seguito sul n. XV del luglio-settembre del 1969 della rivista Nuovi Argomenti e infine in un’edizione postuma nel 1977.
Un sogno: un padre e un figlio in conflitto generazionale, dentro un interno borghese. Attorno all’uomo maturo, un mondo sazio di cose già avute.

Il lavoro che Marco Lorenzi ha svolto in questi anni con la sua compagnia, Il Mulino di Amleto, è stato importante e segnato da successi e riconoscimenti ottenuti anche in ragione della particolare cifra stilistica delle sue creazioni, capaci di abbinare all’essenza del lavoro attorale i linguaggi della videoarte e della comunicazione pop, concentrandosi sulla rilettura di classici della tradizione teatrale contemporanea, come pure su drammaturgia ricavate, come per il caso di Festen, dal cinema.
Il filo conduttore dei testi scelti è stato in un certo qual modo il dissesto psicosociale degli equilibri consolidati negli ultimi due secoli della classe borghese nel mondo occidentale, le sue sottili depravazioni, quell’endogeno e mortifero senso di malattia che deriva dall’agio della autorealizzazione.
Le rappresentazioni e le opere che la compagnia e il regista hanno portato in scena e che hanno ben circuitato negli ultimi anni, sono dimostrazione di una originalità e di una capacità di lettura del reale che hanno fatto dell’opera di questo gruppo di ricerca artistica uno dei prodotti più significativi della scena teatrale italiana nell’ultimo decennio, con la prospettiva di una crescita che l’occasione fornita da Valter Malosti, direttore di Emilia-Romagna Teatro, aiuta a sostenere.
In occasione, infatti, dell’anniversario pasoliniano, la direzione artistica di Ert ha voluto affidare a un gruppo di registi la riproposizione integrale delle opere teatrali di Pasolini nel progetto Come devo immaginarmi, e Affabulazione è stato il penultimo spettacolo della serie.

Come tutta l’opera teatrale pasoliniana, anche questo testo nella sua versione originaria, presenta una trama centrale e una serie di sotto-trame e figure onirico simboliche che ne intaccano la linearità, rendendo il complesso di scritture che il poeta realizzò in pochissimo tempo, una materia molto difficile da portare in scena, seppur fondata su elementi testuali di particolare bellezza, il cui nitore però non di rado si perde nel rigoglioso pullulare di parti di testo e di vicende che, come scatole cinesi, paiono voler nascondere, paradossalmente, proprio la potenziale teatralità.
Ecco quindi che nel caso specifico di questo allestimento, di particolare e significativa qualità appare l’intervento sul testo realizzato dal gruppo di lavoro e dalla figura della dramaturg Laura Olivi, per provare a ricavare l’indagine socio relazionale archetipica sottesa a questa scrittura.
Una volta scelto il filone, l’angolo visuale da cui osservare la scrittura pasoliniana, la riscrittura è conseguita con una felicissima linearità che porta dentro di sé una potenza quasi mitologica e arriva, proprio nell’operazione del tagliare, a dare reale enfasi alla poesia del poeta che, in diversi tratti della rappresentazione, appare davvero lucida e oltremodo brillante.

Degli schemi architettonici utilizzati da Lorenzi nelle precedenti regie, rimangono nella ambientazione scenica firmata da Gregorio Zurla, tanto la dinamica dei diversi piani della rappresentazione, quanto la presenza delle trame e delle semi trasparenze che permettono, nello stesso colpo d’occhio, di vedere e non vedere, di rivelare e nascondere, di far apparire e sparire.
Il meccanismo della rivelazione, della rappresentazione, in fondo, in questo testo in particolare, si abbina in modo chiaro alla scrittura perché fin dall’inizio Pasolini affida a una figura iconica del teatro classico, Sofocle (Barbara Mazzi), proprio il compito di creare un doppio piano narrativo e di introdurre uno schema che rimanda all’impianto della tragedia classica, sebbene poi l’ambientazione sia contemporanea.
La vicenda in estrema sintesi ricalca la crisi esistenziale di un uomo con un’anagrafe che sta superando la maturità per iniziare la senescenza. Il ritrovarsi dell’uomo (Danilo Nigrelli) dentro una dinamica familiare con moglie e figlio (Irene Ivaldi e Riccardo Niceforo), scatena  il conflitto fra il suo decadimento il nietzschiano innamoramento per la vita, di cui il figlio incarna tutto il potenziale trasformativo, rivoluzionario. Non è solo conflitto intergenerazionale, ma vero e proprio ruolo nel branco, quel principio di dominazione che è alla base del mito primordiale fondante della mitologia greca, la tragedia che lega Crono e Urano.

Si tratta di riferimenti che seppur non esplicitati in modo chiaro, sono invece ben presenti sia nel testo oggetto della rappresentazione che negli oggetti di scena: Crono campeggia sotto forma di orologi in diversi punti visibili e centrali, sebbene si tratti di un tempo fermo, cristallizzato nella mente del protagonista che è incapace fondamentalmente di guardarsi allo specchio e di comprendere la finitezza dell’esperienza umana.
Proprio intorno alla simbologia erotica come manifestazione del potere maschile ruota la vicenda: da un lato il rapporto ormai maturo e decadente fra marito e moglie, fatto di giochini consumati, dall’altro quello invece leggero e fresco che lega il figlio alla sua fidanzatina (Roberta Lanave).
Le cromie dell’ambientazione, enfatizzate dal notevole disegno luci di Giulia Pastore, si portano su un grigiore algido, definito dall’intonazione fredda e verdognola delle pareti della casa, che ci si rivela nel suo farsi salotto, luogo iconico del paesaggio borghese.

È qui che viene ambientata la vicenda con una serie di secondi e terzi piani rivelati con il loro aprirsi e chiudersi allo sguardo, ottenuti mediante la luce riflessa sulle tende diaframmatiche di tulle.
In questo interno ha luogo la tragedia, e Lorenzi ne restituisce una meccanica chiara, leggibile e che in diversi momenti raggiunge una potenza evocativa e rivelatoria caratteristica della lucidità profetica di Pasolini, la cui parola arriva distinta e particolarmente chiara, cosa non comune nelle rappresentazioni del suo teatro, proprio perché l’autore stesso finiva per offuscarne la linearità, confondendo i piani con giochi labirintici ossessivi fino a divenire anti-teatrali, una sorta di gioco suicida dello scrittore rispetto alla creazione che qui la rielaborazione testuale disinnesca, a tutto vantaggio di una tagliente leggibilità dell’intenzione poetica.

L’operazione rileva ancor più perché il regista riesce a compierla tanto sulla parola pasoliniana quanto sul proprio registro rappresentativo per quello che finora era apparso: niente contaminazioni video, niente scena che cambia vorticosamente, niente turbinare di anime in movimento a spiazzare continuamente lo sguardo. Qui c’è una drammatica fissità, che non è però mai immobilismo: il dramma della decadenza, della vita che scavalla il suo essere arrivata al culmine e inizia il viale del tramonto, l’incapacità  dell’uomo, del maschio occidentale, di rassegnarsi al dover finire, vengono portati in scena con efficacia da un valido gruppo di attori, diversi dei quali storici e organici al progetto artistico de Il Mulino di Amleto.
Al netto di un’enfasi recitativo-gestuale tipica delle prime repliche e che di solito si va ad asciugare con l’andare delle rappresentazioni, man mano che si compirà il rapporto con gli spazi, con il pubblico, con la caratteristica teatrale del farsi, lo spettacolo mostra una particolare chiarezza di idee che non chiede e non indulge in ammiccamenti e ricerche di consenso gratuito e facile da parte dello spettatore. L’idea registica è concentrata sull’obiettivo di raccontare non il dramma borghese ma l’archetipo esistenziale, pur rispettando l’ambientazione pasoliniana e la poesia del testo.

Il risultato è apprezzabile e rappresenta dal punto di vista stilistico un’evoluzione della poetica registica nel senso della maturità, del chiarire le idee rispetto al cuore della questione rappresentata, del portare lo spettatore verso alcuni precisi punti di accumulazione che nello spettacolo risultano ben individuabili e culminanti; in particolare nel monologo paterno in cui vengono specificati i tipi di rapporto genitore-figlio, come pure nell’ambiguo ruolo psicanalitico-oracolare di una figura femminile che incarna tanto l’antico drammaturgo quanto il moderno poeta, che rivela allo spettatore il gioco del teatro come unica forma possibile di rappresentazione del reale. La realtà non può essere detta, ma rappresentata, dice Pasolini.
È quello che succede qui.
Il regista, come il pittore esperto, sa portare chi osserva il quadro ad andare con lo sguardo in alcuni precisi punti della rappresentazione, che diventano centri emotivo-simbolici, in cui l’opera trova la sua chiarezza rivelatrice.

 

AFFABULAZIONE

di Pier Paolo Pasolini
regia Marco Lorenzi
con Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi, Roberta Lanave, Barbara Mazzi, Riccardo Niceforo
dramaturg Laura Olivi
scenografia e costumi Gregorio Zurla
disegno luci Giulia Pastore
disegno sonoro Massimiliano Bressan
assistente alla regia Yuri D’Agostino
suggeritrice Federica Gisonno
scene realizzate dal Laboratorio di Scenotecnica di ERT
responsabile del Laboratorio e capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttori Sergio Puzzo, Veronica Sbrancia, Davide Lago, Leandro Spadola
scenografi decoratori Ludovica Sitti con Benedetta Monetti, Sarah Menichini, Tiziano Barone
calco e maschere Alessandra Faienza, Ilaria Ariemme
direttore tecnico Massimo Gianaroli
direttore di scena Mauro Fronzi
macchinista Alfonso Pintabuono
elettricista Salvatore Pulpito
fonico Massimiliano Bressan
fonico di palcoscenico Francesco Vacca
sarte Elena Dal Pozzo / Anna Vecchi
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
in collaborazione con AMA Factory e Il Mulino di Amleto
si ringrazia TPE – Teatro Piemonte Europa
foto di scena Giuseppe Distefano
video Vladmir Bertozzi

nell’ambito di “Come devi immaginarmi” dedicato a Progetto Pasolini