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martedì, Marzo 19, 2024
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Una festa per i venti anni della compagnia della Magnolia: intervista a Giorgia Cerruti

RENZO FRANCABANDERA | Fondata nel 2004 a Torino da Giorgia Cerruti e Davide GiglioPiccola Compagnia della Magnolia è una compagnia indipendente di teatro contemporaneo riconosciuto per un’identità artistica fondata sul lavoro dell’attore in dialogo con la parola. Chiunque sia appassionato di teatro in Italia ha avuto sicuramente modo in questi venti anni di incontrare questo sodalizio artistico, che ha condotto indagini sempre profonde e dense sia sui grandi classici del teatro che sulla drammaturgia contemporanea.  Un festival, un teatro off, una rassegna. La Magnolia ha resistito per vent’anni.
Si tratta di 
un’impresa a tenace, ostinata “conduzione familiare” in cui le attività – artistiche, tecniche, organizzative, amministrative – sono gestite dagli artisti stessi della compagnia, uniti da un progetto di vita e teatro a lungo termine.
Resistere per tanto tempo in uno scenario nazionale sempre più desertificato e preda degli interessi e degli scambi dei grandi teatri nazionali non è certo impresa facile che mira a mantenere viva 
una rigorosa e appassionata indagine a cavallo tra codici teatrali e ricerca, affrontando con sguardo contemporaneo la materia teatrale.

Abbiamo intervistato Giorgia Cerruti.

Ha senso e se sì perché festeggiare un anniversario di pratica nell’arte? Sembra quasi un brindare allo scampato pericolo e alla tenacia di avercela fatta in una realtà così complessa.

Un anniversario si festeggia sempre! È un’occasione di allegria, e per dire dei grazie. E poi…ammettiamolo…una compagnia indipendente che festeggia 20 anni di lavoro non è una semplice “azienda familiare” che ce l’ha fatta, è un vero e proprio miracolo in questo disastrato paese; è frutto di lavoro, testardaggine, utopica resistenza, lealtà, fratellanza, rinunce incalcolabili e inesauribile euforia progettuale. Stiamo sulle sabbie mobili, facendo progetti per il 2027 ma sapendo lucidamente che domani potrebbe svanire tutto. Senza paracadute o piani B cui aggrapparsi.

Eppure siete un duo che ha faticato e ancora fatica per mantenere il proprio diritto alla pratica artistica, pur essendo basati in una regione tutto sommato ricca. Che indicazione sistemica si può ricavare dal vostro vissuto esperienziale?

Io e Davide Giglio, mio compagno d’arte e prezioso attore, non ci siamo mai considerati solo un duo, nel senso che Magnolia è un organismo semiliquido.

ph Dino Morri

Certamente entrambi rappresentiamo l’anima artistica e l’origine e certamente la progettualità ideologica è figlia dei nostri desideri, ma credo di poter dire che negli ultimi vent’ anni abbiamo attraversato momenti di gruppo intensi e solidi, sempre in perenne mutazione, tra avvicinamenti, abbandoni, appartenenze più o meno strette. Intendo dire che ogni persona (figura artistica, amministrativa o organizzativa) che ha attraversato e/o attraversa oggi la Compagnia semina una traccia profonda, che riverbera costantemente. Ogni progetto è una sorta di banchetto, impastato da molte persone con molteplicicompetenze, alcune sono presenze fisse, altre temporanee, tutte convergenti verso il lavoro artistico e la sua cura. Microsocietà ideale? Spero di sì, ma anche riserva indiana e gruppo di amici sodali.

Venendo al Piemonte, trattasi di una regione ricca ma contraddittoria, che racconta una sudditanza dilagante e nazionale delle arti verso tendenziose politiche definite “di welfare” che mischiano barbaramente le carte, chiedendo ai teatranti di abbandonare la propria specificità per rientrare in bandi che non sostengono la produzione artistica ma altri settori, altre competenze, … In breve, le Fondazioni ormai ci dettano come operare e le alternative per produrre non sono molte…

E poi c’è il tema della tutela dei propri artisti! In questo senso la distribuzione è l’anello più ignorato del ragionamento, e se non si inverte la rotta, rendendo vantaggioso per i teatri ospitare le compagnie indipendenti e la loro ricerca non mainstream, il futuro vedrà la scomparsa delle compagnie di giro, anima del teatro italiano.
Ma qui si apre un tema più ampio e doloroso, che ha a che fare con il sostrato culturale della nazione, con l’anima profonda di un paese piegato, retto ad ogni livello da interessi particolari, alito fascista, solidarietà tra cabale, incompetenza, scarsa ambizione, gusti omologati, consumo stereotipato, silenzio tombale sugli esclusi dai circoli gourmet. Siamo quarantenni e oltre, belli adulti ormai, e da questa posizione osserviamo disillusi l’orizzonte prossimo, preoccupandoci delle future generazioni. Crediamo ci vorranno ancora trent’anni prima di trovare un clima ripulito da tutto, un clima che scopra nuovi METODI, un nuovo senso del sacro, un clima più giusto dove si alleggeriscano le indegne disparità cui assistiamo – anche – nel piccolo mondo del teatro.

Siete passati anche per la gestione diretta di uno spazio fisico. Perché lo avete mollato? Rimpiangete quella scelta?

Abbiamo gestito e programmato tre teatri di provincia (Rivara, Bosconero, Avigliana) in circa quattordici anni di lavoro. Quelle case ci hanno permesso di avere uno spazio permanente dove fare ricerca libera e pura, dove produrre h24, dove costruire un ufficio, dove stipare le scene, dove lavorare sul territorio e ospitare cartelloni di grande ricerca e innovazione, dove “fare compagnia”. Senza le economie per affittare sale o depositi, questo lungo passaggio è stato fondamentale e esprimiamo gratitudine per la fiducia ricevuta. Ma va anche detto che gestire e programmare sale è un tipo di lavoro, mentre produrre e fare giro è un’altra cosa. Occuparsi di entrambi gli aspetti ci ha fagocitati e forse soffocati. Nel tempo ci siamo accorti che, con le esigue forze numeriche a nostra disposizione, forse abbiamo sottratto fuoco e fiamme alla nostra ricerca. Nel 2018 abbiamo detto stop, ritornando ad essere pura compagnia di produzione, dedita alla tournée, focalizzata sui propri desideri artistici e sull’incontro con i palchi e il pubblico. Non rimpiangiamo affatto questa scelta che ci ha riportati interamente sulla nostra missione, diremmo sulla nostra vocazione.

Avete sempre avuto un piede anche in Francia. Come e perché si è data questa cosa?

Mi sono formata a 19 anni al Théâtre de l’Epée de Bois, alla Cartoucherie, con il maestro Antonio Dìaz-Floriàn. Ho cercato con tutte le mie forze quel tipo di segno etico ed estetico, ho voluto fortemente costruire la mia identità teatrale in quel posto, con quelle persone, convinta com’ero che la festa del teatro potesse realizzarsi dentro ad una troupe, ossia con una progettualità lunga, lenta, condivisa. Quando io e Davide abbiamo scelto di costruire la nostra Compagnia, abbiamo trovato in quel teatro la casa madre da cui ricevere appoggio, coraggio, fiducia e spinta.
Va detto che abbiamo anche coprodotto alcuni lavori con il Théâtre de l’Epée de Bois, tra questi il nostro amuleto porta fortuna La Casa di Bernarda Alba, il Malato Immaginario e poi un Arrabal in tempi più recenti.


In generale negli anni il rapporto con la Francia è sempre stato denso, si è reso autonomo e differenziato, permettendoci di coprodurre, di realizzare progetti transfrontalieri e di portare i nostri lavori in molti teatri e festival autorevoli. E ci auguriamo che questo rapporto possa proseguire e rinvigorirsi, in Francia e in generale all’estero. Stiamo lavorando in maniera mirata per intensificare un processo di internazionalizzazione da sempre auspicato.

Fare teatro oggi, per chi lo fa da più di 10-15 anni ma non è ancora anziano significa riferirsi a mitologiche figure novecentesche di cui si è vista brillare la coda della cometa. I vostri lari della casa chi sono? E come si fa a scegliere chi illumina il proprio percorso come ispirazione?

I nostri lari sono pochi, alcuni vivi e altri morti, alcuni divorati sui libri e altri assorbiti ponendoci come colleghi e/o spettatori e/o allievi,  tutti tra loro accomunati dall’essere stimolo alla creazionee alla riflessione. Citeremmo insieme in ordine confuso Jacques Copeau, Danio Manfredini, Ariane Mnouchkine, Antonio Latella, Louis Jouvet, Michele Di Mauro, Antonio Dìaz-Floriàn, Massimo Castri.
I maestri non sono divinità, sono colleghi che ami in maniera parziale e incontrollata, sono innamoramenti, scintille, la cui esperienza non è replicabile, agiscono per contagio. Non trattengono.

Siete sempre tenacemente aggrappati a un teatro di parola e di interpretazione, spesso confrontandovi con archetipiche figure del classico teatrale, fondamentalmente lontani da sperimentazioni tecno-digitali. Avvertite un gap generazionale nel vostro pubblico? Che effetto hanno le vostre scelte artistiche sulle giovani generazioni?

In Italia non esiste il pubblico! Non siamo un paese curioso. Siamo chiusi e diffidenti a priori, sennò non avremmo mandato al governo un clan di rozza gentaglia che della diffidenza ha fatto vessillo.
Generalizzando, intravediamo tre bacini: un’élite autoreferenziale di amici degli amici cosiddetti intenditori, il pubblico dei velluti e il pubblico del teatro commerciale. E non vi è relazione tra i tre.  Purtroppo e nella maggior parte dei casi, la generazione degli attuali sessantenni-settantenni a capo delle grandi istituzioni (che gestiscono, orientano e maneggiano gli affari più grossi) non ha saputo essere curiosa e ambiziosa buttando lo sguardo oltre il breve fiato di una triennalità, e così mentre il mondo è cambiato alla velocità della luce, il teatro non ha rinnovato metodi e domande. E pubblico. E non ha intuito che la chiave della fiducia è nella condivisione del processo, a tutti i livelli. Quando si arriva al prodotto è già tardi.
Accanto a questa riflessione sul rapporto tra teatri e pubblico, vogliamo aggiungere, a titolo informativo e per doverosa trasparenza, che negli ultimi anni la Compagnia ha iniziato a coltivare con alcuni teatri pubblici delle belle collaborazioni, grazie alle quali sono nate alcune coproduzioni che stanno pian piano permettendo un’osmosi tra la Compagnia ed un certo tipo di pubblico e di cartellone.

Ma…

…Tornando alla domanda, non sappiamo proprio dirti se vi è un gap. Quando incontriamo gli spettatori, con cosa abbiamo a che fare? Spesso con teste canute o quasi se si tratta di stagioni; se parliamo di festival invece vediamo frequentemente amici, colleghi o coetanei che intrattengono relazioni con universi affini.
Ci chiediamo allora: perché una compagnia? Per tradurre i nostripensieri sulla vita, la morte, l’amore, secondo i modi che anno dopo anno mutano rispondendo ai nostri cambiamenti. E allora crediamo che l’unico modo autentico di affacciarsi ad una platea sia essere sé stessi, portare ciò che si ama, rivelarsi attraverso quell’atto creativo e tentare di dirsi qualcosa.
Scendendo nello specifico nostro, non ci ritroviamo in un teatro di parola e interpretazione, pur praticandoli come MEZZI in maniera diremmo ossessiva. Certo possiamo dire che la nostra carriera spazia dalla rielaborazione dei classici alla drammaturgia contemporanea. Ma ancora una volta questa sintesi affrettata onora un testocentrismo che vede l’autore sopra al resto. E invece uno spettacolo è fatto di tante parti del discorso e di tante competenze messe sul piatto. E l’anello di giunzione è, crediamo, l’attore, che cattura tutte le parti del discorso e vi gioca.

© Ivan Nocera

Per ogni spettacolo ci confrontiamo con gli ingredienti che servono a realizzare l’idea, il concetto, cerchiamo di far reagire tra loro degli elementi. Allora può capitare che la parola dialoghi alle volte con suggestioni video (come in Favola), o sia debitrice di visioni e soggettive rubate al cinema e all’opera (come in 1983 Butterfly) o si rivolga alla pittura (come accadrà in Cenci, nuova produzione 2024). Cerchiamo di creare narrazioni sensoriali, nelle quali la parola – strumento certamente primario di relazione tra umani – riverbera emozioni, amplifica simbolicamente la narrazione di fatti, non impone concetti. Proviamo a trasfigurare le drammaturgie come occasioni di presenza relazionale tra tutti i presenti in QUEL momento, in quella sala.

Potete dirci qualcosa di spietato su di voi? Qualcosa in cui non siete riusciti?

Tante cose.
1- Tanti anni fa abbiamo debuttato a Castrovillari con una prima versione di Atridi | Metamorfosi del Rito. Uno spettacolo registicamente non risolto, non riuscito. Nella sua prima versione la torta non uscì come doveva. E sappiamo tutti quanto questo sia frustrante. Fu un momento molto difficile per la Compagnia, giovane e naïf, che venne disapprovata con inutile durezza. Quell’evento ci mostrò che bisogna essere nei salotti giusti o aver maturato – paradossalmente – una certa anzianità per avere diritto all’errore, al confronto forte e costruttivo. E ci insegnò anche e soprattutto che mettere a fuoco il centro del lavoro è la prima condizione per trovare il metodo giusto e le condizioni adeguate per affrontare la dimensione di un lavoro.
2- non arriviamo a fine mese
3- iniziamo la creazione di uno spettacolo con le migliori convinzioni e, una volta nato, già ne siamo insoddisfatti, come se il tragitto tra l’inizio e la fine in qualche modo avesse preso una via a tratti autonoma.

E qualcosa in cui invece siete riusciti?

A non vendere il piacere di fare il nostro teatro.

La vostra creatura in cui vi siete compiaciuti? Il vostro spettacolo manifesto?

Forse HAMM-LET | Studio sulla Voracità. Sentivamo che, giorno dopo giorno, si stava creando il nostro linguaggio, il nostro gusto. Era impattante sentirlo nel corpo, nella testa di notte quando ripensavi alle prove della giornata.

E il prossimo?

Il vero spettacolo manifesto è quello che verrà, di cui ancora non sappiamo nulla. Si chiamerà CENCI_RinascimentoContemporaneo. Sul nostro sito ve lo raccontiamo meglio…

L’albergo dei poveri: Popolizio e i magnifici straccioni di Maksim Gor’ki

ELENA SCOLARI | Maksim Gor’ki ha imparato a leggere e scrivere dal cuoco di bordo di un battello che navigava lungo il Volga, quando aveva circa vent’anni. Il marinaio aveva preso a cuore quello sguattero intelligente ma analfabeta e che ha poi fatto della scrittura la sua vita. E forse anche la sua morte.
Gor’ki si chiamava in realtà Aleksej Maksimovic Peskov e scelse quel nuovo cognome perché la parola significa ‘amaro’, come fu la sua infanzia, durissima, povera e sottoposta alle percosse del patrigno che subentrò al padre naturale, morto quando il futuro scrittore aveva solo dieci anni. Visse a lungo con l’amatissima nonna, dopo la cui scomparsa tentò addirittura il suicidio, per disperazione. Sopravvisse, e da questo momento prese ad attraversare le Russie, a piedi o su mezzi di fortuna facendo il fornaio, lo scaricatore di porto, il guardiano notturno, il mozzo. Grazie agli insegnamenti del cuoco riuscì a farsi assumere in un giornale in Georgia, iniziando così la sua carriera tra le lettere.
Scrisse quello che conosciamo oggi in Italia come L’albergo dei poveri nel 1902, a quest’opera cambiò titolo varie volte – I bassifondi, Senza sole, il dormitorio, Il fondo, Sul fondo della vita… – forse per l’irrequietudine che gli impediva di individuare una sintesi abbastanza precisa di ciò di cui voleva raccontare. La prima messinscena fu al teatro d’Arte di Mosca per la regia di Stanislavskij (i teatri imperiali lo boicottavano) e fu un successo.

Nel 1947 Giorgio Strehler inaugurò il Piccolo Teatro di Milano proprio con L’albergo dei poveri, con Salvo Randone e Lilla Brignone, tra gli altri. Ritroviamo qualche eco di quell’allestimento nello spettacolo in scena fino al 28 marzo al Teatro Strehler per la regia di Massimo Popolizio, per esempio nell’uso di tanto legno scuro per le scenografie, curate da Marco Rossi e Francesca Sgariboldi, che identificano in un materiale umile la giusta sostanza per un luogo logoro come le persone che lo abitano. I loro abiti (i bei costumi di Gianluca Sbicca) sono laceri come le loro anime e le toppe cucite e ricucite non tengono più insieme i brandelli di vite che sbandano, tra le sponde di letti sudici e i banconi di taverne dove bersi in vodka i pochi centesimi di rublo vinti barando alle carte.

ph. Claudia Pajewski

Questo tristo ricovero di poveracci non è un un vero luogo, è la metafora di un inferno in terra nel quale i reietti sono costretti, senza possibilità di fuga; giusta infatti l’idea della passerella formata di volta in volta da tavoli, banchi, sedie e che porta in un’altra dimensione, possibile solo fuori scena. Uomini e donne poveri e quasi tutti pure cattivi, egoisti, spietati e micragnosi: un ladro strafottente, un ex pellicciaio ormai spelacchiato e inacidito, un barone decaduto, un fabbro, un attore che sembra un folletto (il fisico smilzo di Luca Carbone e che pare sempre piroettare verso l’alto), una malata di tubercolosi, una matta che si crede dentro al libro che continua a rileggere – L’amore fatale -, un Principe nero, una prostituta, un baro.
Ogni carattere ha una sua sfera e non si costituisce una vera storia, è come se tutti fossero anime eterne, vite parallele che si incrociano in un dormitorio dello spirito, e dove lo spirito (alcolico) è ciò che sostiene i corpi. Così come il posto dove agiscono non è reale – le luci anti-naturalistiche sono di Luigi Biondi – anche queste figure sono appunto figure, personaggi simbolo che rappresentano vizi (virtù, poche) e difetti dell’uomo, sono santi e diavoli, negletti e maledetti. L’albergo dei poveri è una grande parabola, che include quelle che racconta il pellegrino – Popolizio barbuto con saio, bastone e compostela al collo – nel tentativo di dare sollievo alle sofferenze di costoro. Il camminante Luka compare aggiungendosi a questo gruppo rattoppato e da subito prende il compito di stendere un balsamo sulle ferite dei suoi compagni. Un santone saggio che accarezza, consola, alla bisogna mente (non senza ironia) perché in certi casi le menzogne sono l’unico modo per lenire: “E che te ne fai della verità?”.

ph. Claudia Pajewski

Popolizio è un bravo regista, ne dà di nuovo prova con un lavoro in cui dipinge grandi quadri collettivi (sedici attori spesso in scena contemporaneamente) con occhio pittorico e con una sensibilità acuta per il ritmo globale della compagnia, intesa come la somma dei singoli che formano un ‘sistema’ scenico. La mano del direttore dà il la per movimenti plurali, curati con maestria da Michele Abbondanza: più d’una sono le scene in cui un veloce gesto del pellegrino fa muovere tutti gli altri con la precisione di un maestro di coro. Grande importanza hanno anche i suoni di Alessandro Saviozzi e i frangenti in cui è la musica a dettare il ritmo: i canti melodiosi del Principe Martin Chishimba o la canzone russa cantata da Silvia Pietta, la mignotta che cucina la minestra per gli altri, mentre tutti battono il piede a terra per accompagnarla, come in una marcia di popolo.
Quel popolo di cui il controverso Gor’ki faceva parte, etichettato come lo scrittore del “realismo socialista”, ne fu simbolo ma anche, pare, vittima. Fu un po’ asservito al regime ma anche amico dei rivoluzionari, quando si ammalò non si può escludere che insieme ai farmaci qualcuno gli somministrasse anche veleno, un po’ alla volta. Morì nel 1936. Del resto avvelenatori non ci si improvvisa.

ph. Claudia Pajewski

Ci sono solo un paio di momenti nella seconda metà dello spettacolo in cui qualche taglio ai dialoghi avrebbe giovato (non è tutto oro quel che è Gor’ki) ma si scordano in uno spettacolo che scorre alternando i gorghi vorticosi alle anse calme di un fiume grazie all’adattamento ‘facile’ dello scrittore Emanuele Trevi che ha saputo dare una lingua (e quindi un carattere) a ogni personaggio: parole sprezzanti e sfacciate per Sandra Toffolatti/Vassilissa, la lasciva moglie del padrone che se la fa con il ladro Pepel/Raffaele Esposito, un bullo che perde l’occasione di riscattarsi sposando Nataša/Diamara Ferrero, espressioni sempre ciniche in bocca a Bubnov/Giampiero Cicciò, frasi in bilico tra scritto e parlato per la lettrice Nastja/Carolina Ellero, prediche incantate e magnetiche per Luka/Popolizio e una lingua quotidianamente filosofica per il baro Satin/Aldo Ottobrino a cui è affidata la battuta finale e che pronuncia lo splendido monologo sull’uomo: “Ma insomma, che vuol dire uomo? Tu non lo sei, neanch’io lo sono, e neanche loro lo sono… per nulla! Invece tu, io, loro, il vecchio Luka, Napoleone, Maometto… tutti insieme, lo sono“.
E il senso di queste parole è nella fusione delle misere esistenze dell’Albergo: povere, sì, ma magnifiche, maestose come il suono della parola ‘uomo’. Come la forza muta che emana il pellegrino: in tanti si arrabbiano con lui ma quando si avvicinano per colpirlo, con il frustino o con un pugno, senza che lui muova un dito, il carisma che irradia ferma l’impeto di protesta.
Ognuno ha bisogno della propria illusione, non puoi scagliarti contro chi te l’ha ammannita per farti vivere. Come dice il pingue Klešč/Michele Nani, un fabbro che impara a forgiare anche la sua coscienza, vedovo fedifrago della soave moglie Anna, spirata per malattia: l’uomo non va compatito, va rispettato.

 

L’ALBERGO DEI POVERI

uno spettacolo di Massimo Popolizio
tratto dall’opera di Maksim Gor’kij
riduzione teatrale Emanuele Trevi
scene Marco Rossi e Francesca Sgariboldi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
disegno del suono Alessandro Saviozzi
movimenti scenici Michele Abbondanza
assistente alla regia Tommaso Capodanno
con Massimo Popolizio e con Sandra Toffolatti, Raffaele Esposito, Michele Nani, Giovanni Battaglia, Aldo Ottobrino, Giampiero Cicciò, Francesco Giordano, Martin Chishimba, Silvia Pietta, Gabriele Brunelli, Diamara Ferrero, Marco Mavaracchio, Luca Carbone, Carolina Ellero, Zoe Zolferino
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatro di Roma – Teatro Nazionale
foto di scena Claudia Pajewski

Piccolo Teatro Strehler, Milano | 14 marzo 2024

Chille de la balanza a Firenze ricordano i Basaglia

RENZO FRANCABANDERA | Un evento festoso ed emozionante nell’ex-manicomio di San Salvi, a Firenze. Nel segno di Franco Basaglia, lo psichiatra veneziano che realizzò il superamento dei manicomi in Italia, di cui ricorre il centenario della nascita, i Chille de la balanza hanno realizzato il Festival MANICOMIO, ADDIO! Franco Basaglia 100.

Basaglia è considerato il fondatore del concetto moderno di salute mentale e, ancora oggi, le sue teorie hanno un forte peso in ambito psichiatrico. Restituì dignità alla malattia mentale, non considerando il paziente come un oggetto da aggiustare, ma una Persona da accogliere, ascoltare, comprendere, da aiutare e non da recludere o da nascondere. Non è un caso che l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia definito l’esperienza basagliana al manicomio di Trieste “spunto di riferimento mondiale per la presa in carico dei disturbi mentali”.

I Chille de la balanza da oltre 25 anni abitano il presidio culturale di San Salvi, ex-città manicomio di Firenze. Vi entrarono il 13 dicembre 1998. Così volle l’allora direttore, Carmelo Pellicanò, che intese accompagnare l’uscita dell’ultimo matto con il contemporaneo ingresso della compagnia diretta da Claudio Ascoli e la nascita di un presidio culturale permanente: di un luogo cioè capace di realizzare giorno dopo giorno quel percorso – Entrare fuori/Uscire dentro – necessario per il definitivo superamento dei manicomi. Il rapporto tra la cosiddetta rivoluzione basagliana, la cultura e il teatro ha profonde radici e straordinari esempi: tra tutti, il lungo percorso avviato da Giuliano Scabia e dal suo Marco Cavallo.
Non è un caso che all’interno del Festival sia stata prevista la creazione e l’installazione, sul prato che costeggia la ferrovia, di un ‘Marco Cavallo del XXI secolo’, una creazione dell’Artista Edoardo Malagigi, realizzata in plastica riciclata, il cui vernissage è avvenuto proprio l’11 marzo, giorno di nascita di Basaglia e che ricorda la parata del 1973 della omonima scultura pensata da Giuliano Scabia, simbolo allora della liberazione dei matti, della lotta all’istituzione e a ogni forma di esclusione. Lo scultore ha creato il Marco Cavallo del XXI secolo a partire dal disegno di Leonardo per la scultura equestre ideata per gli Sforza e mai realizzata.

Un’altra opera gigante per Malagigi, dopo le diverse già realizzate negli anni dall’artista utilizzando materiale di riciclo, scarti della lavorazione industriale o artigianale se non addirittura casalinga. È materia inerte che sta sul confine fra la fine dell’utilità specifica e altre possibili destinazioni. Malagigi raccoglie la sfida e realizza da metà del decennio scorso grandi installazioni in tutto il mondo, come il ciclo dedicato a Pinocchio. Questa di San Salvi è realizzata in plastica riciclata da R3direct, anche grazie al sostegno di Fondazione CR Firenze (Bando Partecipazione culturale), Revet e soprattutto di tanti cittadini che hanno sottoscritto il crowdfunding Produzioni dal basso – Banca Etica.

Nel finesettimana ha debuttato inoltre MANICOMIO, ADDIO! Contro tutti i muri, il nuovo spettacolo di e con Claudio Ascoli e Sissi Abbondanza. In scena anche Salomè Baldion e Sara Tombelli, che affondando la loro presenza nel pubblico intervengono dialogicamente.
Nello spazio tra scena e platea anche alcuni altoparlanti per aumentare la potenza percettiva del dialogo tra le figure in scena e quelle evocate dal materiale di repertorio video
. Come sempre in questi allestimenti che si muovono fra documentarismo, narrazione e autobiografica, la composizione si avvale di maestranze specifiche che collaborano all’allestimento: le musiche originali sono di Alessio Rinaldi, l’elaborazione video di Marco Triarico, le luci di Teresa Palminiello e i suoni di Francesco Lascialfari.
Lo spettacolo, come alcuni altri recenti (ricordiamo quello realizzato per ricordare l’anno scorso la figura di Don Milani), rimane interattivo e dialogante con la funzione dello spettatore: p
rima dello spettacolo c’è la distribuzione a tutti di piccoli quaderni per annotare domande o commenti, il pubblico interverrà infatti nella creazione per domandare, stimolare lo spettacolo ad andare avanti.
Al centro, il
legame quotidiano che unisce il lavoro di Ascoli e Abbondanza, compagni di vita e di teatro da oltre 45 anni. La messa in discussione giorno per giorno, la verifica “crudele” delle invenzioni, dei progetti è un fatto raro, se non unico in teatro, ed è paragonabile, facendo le debite proporzioni, a quanto avvenne in casa di Franco Basaglia e della moglie Franca Ongaro negli anni di Gorizia e Trieste, sino alla prematura morte dello psichiatra.

ph Paolo Lauri

Rifuggendo l’idea di interpretare le due figure, i Chille intendono raccontare attraverso di loro l’oggi e i suoi problemi, a partire proprio dalle parole dei Basaglia: gli esclusi, il lavoro e la morte sul lavoro, la parità uomo-donna, la necessità della libertà nella reciprocità. Per fare questo, come Basaglia e Ongaro chiamarono a partecipare alle loro riflessioni e ai loro sogni giovani psichiatri, psicologi e sociologi, spesso totalmente privi di esperienze, così Ascoli e Abbondanza sono sollecitati dalle domande dal pubblico di Salomè Baldion e Sara Tombelli e di tante altre voci per continuare a imboccare la strada del sogno e della libertà.

2×2 + Cultus di Zappalà e Solo Andata di Astolfi: un trittico di danze in orbita al Teatro Biblioteca del Quarticciolo

CRISTINA SQUARTECCHIA | Al sesto appuntamento di Vertigine, la stagione di danza a cura di Valentina Marini, un fil rouge di voci, corpi e movimento ha tenuto insieme in modo armonico il trittico presentato lo scorso 3 Marzo. Due estratti degli ultimi lavori di Roberto Zappalà – realizzati con la sua Compagnia Zappalà danza – hanno aperto e chiuso questa sesta giornata, alternati da una anteprima di Mauro Astolfi al teatro Biblioteca del Quarticciolo di Roma.

Il cinguettare di uccellini delle prime ore dell’alba risveglia il creato nell’annunciare l’arrivo di un nuovo giorno.  È l’inizio di Ri-fare Bach, la poetica creazione che Roberto Zappalà ha dedicato a Johann Sebastian Bach nel 2021. Un lavoro profondamente poetico sulle sofisticate e purissime sonorità del grande compositore tedesco, il cui portato estetico e culturale  non esaurisce fascino e influenza, neanche oggi in tempi di intelligenza artificiale, anzi, ne moltiplica interessi e  ispirazioni. Di Bach il coreografo catanese coglie la dimensione del dolore, l’estetismo sonoro, quelle impalcature armoniche che stratificano polifonie, le stesse che si ritrovano nella sua costruzione drammaturgica del gesto e del movimento.  «Non credo che Bach fosse consapevole del potenziale della sua musica per la danza» – ha più volte affermato il coreografo Zappalà. Ed è vero, Bach non finisce mai.  Tutta la sua musica serve e sostiene la danza in modo inequivocabilmente assoluto, inutile elencare la devozione della coreografia novecentesca e attuale alla sua infinita poetica.  In questo estratto di Ri-fare Bach, ri-battezzato 2×2, si percepisce la stessa estetica che innerva la pièce integrale, godendo, malgrado la riduzione, di una  propria autosufficienza espressiva.
Un chiarore ovattato di luci accoglie l’ingresso della danzatrice Anna Forzutti, che lentamente si posiziona in un punto decentrato dello spazio scenico  mentre viene seguita dalla seconda Silvia Rossi. In un primo dialogo di contrasto dei corpi, si compone un duo articolato di tensioni, dinamiche che rilasciano nello spazio scenico fisicità primordiali, miste a sequenze di  lirismo e fragilità che caratterizzano la condizione effimera dell’umano. Il sentimento di dolore e al contempo di forza e resistenza puntella la danza tra momenti di unisono, incastri di contact, che piacevolmente confortano lo sguardo dello spettatore per fare posto poi a rotture, cambi di direzioni e sospensioni. La musica di Bach, in versione pianistica, sostiene una danza che si polarizza tra  una tensione animale dei corpi  ed una più eterea e tragica. In mezzo l’umano e i suoi timori. Resistenze ed effimere debolezze che svaniscono all’abbassamento delle luci, nel preciso istante in cui la materia dei corpi scompare.

Di altra atmosfera  la nuova creazione di Mauro Astolfi che, proprio sabato scorso,  ha debuttato a Vicenza. Solo andata è un lavoro per tre danzatori, due donne e un uomo che compongono un trio attorno ad un tavolo e delle sedie.  C’è in questa pièce un sapore antico che rimanda ai luoghi della partenza: una stazione, un porto, un aeroporto da dove ognuno di loro si appresta a dirigersi verso mete ignote. Mauro Astolfi, in questa pièce di 25 minuti circa, dilata il tempo che precede la partenza, quel momento preparatorio all’andare che è il tempo del saluto, del congedo. Un tempo riempito di sospensioni ed esitazioni, di un voler andare ancora incerto.   Una danzatrice, Maria Cossu,  con calzini rossi e un abito a fiori, entra nello spazio scenico e avanza nel palco prendendosi delle brevi pause. Si guarda intorno con una postura che dà vita a movimenti nervosi e scatti improvvisi, tipici dello stile Astolfi.  La scena cambia  all’ingresso del secondo danzatore, Alessandro Piergentili,  in abito bianco, che si siede al tavolo e osserva la danzatrice, mentre una voce radiofonica in lingua inglese accoglie l’azione scenica.  Ci si guarda, ci si lascia e ci si prende, ci si infila tra i piedi del tavolo e delle sedie, mentre la danza resta trattenuta nei corpi dei due danzatori: quasi un ostacolo di comunicazione tra i due ne impedisce il suo naturale fluire. Una condizione che si mitiga all’ingresso della terza danzatrice, Giuliana Mele, il cui movimento rompe una tensione a due generando nell’insieme un concatenarsi di pose tra i corpi. Il trio si intreccia tra  agganci fluidi, l’uno conseguenza dell’altro, riproducendo ogni volta una sorta di  microstorie replicabili all’infinito, una dopo l’altra, come piccole finestre che si schiudono sul mondo. Si prova in qualche modo ad uscire da questa triangolazione a circuito chiuso, spostando sedie e tavoli in punti diversi della scena, ma tutto resta immutato, e forse, quel desiderio di andare implode.

Cultus è il terzo e ultimo lavoro presentato in programma, e, anche l’ultimo progetto coreografico di Roberto Zappalà prima della Trilogia dell’estasi che comprende Après midi d’un faune,  Bolèro e Le Sacre du printemps in prima assoluta i prossimi 30 e 31 maggio al teatro del Maggio Musicale Fiorentino. Cultus ha visto la luce lo scorso luglio nel Parco archeologico del Scolacium (CZ) per poi debuttare  al teatro Verdi di Gorizia per il Visavì Festival. Dei suoi 65 minuti, ne abbiamo applaudito qui a Roma una parte ridotta che ha comunque trasmesso i temi di amore, cura e bellezza. La creazione appartiene all’ampio progetto di ricerca che accompagna il percorso artistico di Roberto Zappalà, Transiti Humanitatis ed è un viaggio coreografico, come lui lo definisce, dentro una miriade di sensazioni emotive che portano lo spettatore ad una sospensione temporale.  C’è in  questo lavoro una selezione accurata di testi, brani e musiche di David Lang, per la precisone il suo The little match girl passion, di memoria bachiana nella monumentale Passione secondo Matteo, e il monologo di Charlie Chaplin nel film Il grande dittatore, che nutrono il concept coreografico verso una spiritualità raggiungibile solo dopo la catarsi, quel processo di liberazione dal dolore che purifica. Un ideale che il corpo può perseguire se rispettato, quasi venerato, curato nelle sue manifestazioni, che ogni danzatore ci svela indicandone una parte: spalla, piede, braccio, mentre pose scomposte, distorsioni al limite dell’armonico si inanellano l’un l’altra. Ma la danza per Zappalà trova nella sua drammaturgia soluzioni che aprono  frammenti fluidi, gesti intimi, movimenti ritmati, lentezza e attimi di unisono tra i quattro danzatori, che indossano tutine trasparenti in cotone. Fucsia per Anna Forzutti, blu indaco per Silvia Rossi, mentre Giuseppe Zarconi in glicine e verdino Filippo Domini. Un inno tra i corpi e nei corpi che anela all’eternità, al desiderio di superare quella condizione caduca dell’umano dichiarato coralmente dai danzatori nell’ultimo minuto della pièce: eternity forever.

 

2X2

coreografia Roberto Zappalà

musica Johann Sebastian Bach

danza e collaborazione Anna Forzutti, Silvia Rossi

costumi e luci Roberto Zappalà

 

SOLO ANDATA

coreografia Mauro Astolfi
interpreti Maria Cossu, Giuliana Mele, Alessandro Piergentili
luci Marco Policastro
musiche autori vari
produzione Spellbound Contemporary Ballet
coproduzione Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza

 

CULTUS

coreografia Roberto Zappalà

musica William Shakespeare, David Lang

danza e collaborazione Filippo Domini, Anna Forzutti, Silvia Rossi, Erik Zarcone

costumi e luci Roberto Zappalà

Foto di scena Giuseppe Follacchio

 

La solitudine (sociale e politica) nelle teche di vetro di Hannes Langolf

RENZO FRANCABANDERA | Nell’ambito di CARNE – focus di drammaturgia fisica voluto per Ert da Michela Lucenti, dopo la prima assoluta al Teatro Bonci di Cesena, è andato in scena al Teatro Arena del Sole di Bologna How About Now, concepito e diretto dal danzatore e coreografo Hannes Langolf. Lo spettacolo, coprodotto da ERT, è stato realizzato con il sostegno di DV8 Physical Theatre, esperienza artistica da cui l’artista proviene, una fra le realtà trasformative della danza contemporanea degli ultimi decenni.
Si tratta di un’esperienza artistica che trascende i confini tradizionali della danza e del teatro, come in fondo è logico aspettarsi dall’artista, anche in ragione del suo background che include collaborazioni con artisti del calibro di William Forsythe, Angelin Preljocaj e Wayne McGregor, tra gli altri.
Langolf porta sul palcoscenico una performance che va ben oltre la semplice esecuzione di movimenti coreografici e che è una vera e propria drammaturgia fisica.
Lo spettacolo è ambientato interamente all’interno di una teca di vetro sigillata, in cui Langolf e il giovane Ed Mitchell, per altro assai distanti nel sembiante fisico, si impegnano in una performance che esplora l’interrelazione tra parola, danza e immagine.
All’aprirsi del sipario, una serie di piccole luci nel buio lontano danno l’idea di una ambientazione metropolitana. Verdi e blu in lontananza. Ma ecco il primo piano, lo zoom sulla nostra realtà, sul micromondo.
La suggestiva scenografia, curata da Loren Elstein, insieme alle luci di Joe Hornsby, crea un ambiente particolarissimo, che enfatizza la fragilità e l’effimero carattere della natura umana. Una teca di vetro, illuminata da una luce bluastra. Uno dei due sta pisciando di spalle quando l’altro gli rivolge la parola. La situazione è subito di periferia, di un mondo illuminato da qualche neon, ci si immagina fanali di auto di passaggio e niente altro. A ben considerare, i due sono effettivamente chiusi dentro un mondo di cui sono i protagonisti, gli abitanti. Verrebbe da dire: …e tutto il mondo fuori. Ma non è così, perché quello che succede lì dentro ha assai a che fare con quello che c’è fuori.

ph © Hugo Glendinnig

Il pubblico da questo momento in avanti viene trasportato in un mondo in cui ogni movimento e ogni gesto racconta una storia di vulnerabilità e insicurezza: quella fisica è una vera e propria narrazione parallela. La complessa coreografia dei danzatori, poco dopo l’inizio del dialogo, prende le mosse con movimenti ora concordi ora divergenti, in cui i due per lo più oscillano e si muovono con gesti sincopati e quasi robotici, spesso disumani, quasi da trap, ora in slowmotion ora, di colpo, in fast forward. Sono gesti talvolta innaturali, appoggiati sulla colonna sonora elettroacustica composta dal sound designer Jethro Cooke e suggestionati dalla drammaturgia originale dello scrittore Andrew Muir.
La vicenda cui si assiste è liberamente ispirata a Omobono e gli incendiari, dramma fra i classici del teatro contemporaneo svizzero, scritto dal drammaturgo Max Frisch nel 1953.
The Arsonists, precedentemente noto anche in inglese come The Firebugs o The Fire Raisers, nato prima come spettacolo radiofonico poi adattato per la televisione e il palcoscenico come un’opera teatrale in sei scene, è una storia ambientata durante il colpo di stato di Praga che nel ‘48 mise fine alla Terza Repubblica Cecoslovacca instaurando il regime comunista.
Il protagonista, un pacifico borghese, accoglie involontariamente in casa gli autori di alcuni incendi dolosi appiccati nella sua città e costoro, ottenuta ospitalità con l’inganno, introducono materiale infiammabile nell’abitazione. Pensando che questi stiano scherzando, il padrone di casa finisce per fornire loro i fiammiferi per appiccare il fuoco che distruggerà il suo mondo. Si tratta di una riflessione potente su come a volte si faciliti la distruzione del sistema sociale, non leggendo in modo preciso le forme di disagio, e di come spesso, addirittura, si finisca per accoglierle, sottovalutandole.
La dinamica a tratti surreale che anima il dialogo tra questi personaggi viene incorporata anche nella riscrittura di Muir, che pur tralasciando i riferimenti politici, riambienta la vicenda della comunicazione a distanza affidata ai social network: è questo secondo lo scrittore il materiale verbale altamente infiammabile, capace di distruggere la reputazione di un individuo ma anche, come si è visto, di condizionare le democrazie, che appaiono fragilissime come non mai. Parrebbe una solitudine nei campi di cotone, trasposta oggi e mondata di ogni afflato poetico, per stare su un testo decapitato di ogni possibile lirismo (la qual cosa è assai ‘british-contemporanea’), ci lascia invero un po’ asciutti sul fronte della parola. Commentiamo a fine spettacolo che pare quasi gli inglesi, dopo i grandi drammaturghi dei secoli passati, abbiano ora qualche remora a proporre la parola poetica, come se non avesse più la cifra per stare nell’oggi.

ph © Hugo Glendinnig

Ciò che rende How About Now a suo modo straordinario è la capacità di esplorare i temi profondi e universali attraverso una combinazione di elementi artistici che vanno oltre la parola, dalla colonna sonora coinvolgente all’atmosfera emotiva che avvolge lo spettatore dall’inizio alla fine dentro un gioco di suono e luci, fino al finale, con il fumo che si sprigiona nella cabina.

Langolf invita il pubblico a riflettere sulle proprie relazioni ed esperienze, offrendo uno spettacolo che va oltre l’intrattenimento per toccare le corde più profonde dell’animo umano.
Qui forse la lettura che viene data dell’originale è che spesso quelli che appiccano l’incendio non ne escono vincitori ma sono fra i primi a sparire fra le fiamme, mentre il vero e proprio palazzo, qui rappresentato dal resto della scatola scenica, dall’istituzione teatro, non ne viene poi intaccato. E sovvengono vicende recenti, e proteste, e agitazioni. Ma alla fine lo scatolone tiene, i poteri si fanno bicefali, arrivano a convivere, e il piccolo fiammiferaio invece soccombe.
Forse è anche questo che ci rende nichilisti oggi dopo le grandi utopie novecentesche sbriciolatesi con i muri: sapere che quasi nessuna protesta finisce per intaccare i livelli superiori, che ogni forma di organizzazione incendiaria che voglia sovvertire, modificare, è assai facile che venga schiacciata da forme di potere orwelliane, mentre i Navalny di qua, gli Assange di là, con le loro forme di contestazione estrema, restano con il cerino in mano, si immolano in autocombustione. How about now?

HOW ABOUT NOW

ideato e diretto da Hannes Langolf
coreografia Hannes Langolf con Ermira Goro e Ed Mitchell
con Hannes Langolf e Ed Mitchell
assistente alla creazione Ermira Goro
drammaturgia Andrew Muir
scenografia e costumi Loren Elstein
sound design and composition Jethro Cooke
lighting design Joe Hornsby
responsabile di produzione Ryan Funnell
direttore di scena Chloe Astleford
direttore tecnico Jake Hughes
realizzato con il sostegno finanziario come parte di DV8 Physical Theatre’s Legacy Commissions
sostenuto da Arts Council England e Stanley Thomas Johnson Foundation
con il supporto di Jeff Garner
prima fase di ricerca progettuale sostenuta da The Place
produzione Moonwalking Bear Productions
coproduzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
docenti della Compagnia Laure Bachelot, Baptiste Bourgougnon, Tina Afiyan Breiova, Ching-Ying Chien, Beth Edwards, Liam Francis,Yen-Ching Lin, Christina May, Hannah Rudd, Jeannie Steele
ricerca progettuale sostenuta da Charles Antoni, Alessio Bagiardi, Sam Coren, Sonya Cullingford, Kath Duggan, Chris Evans, Valentina Formenti, Joel Mesa Gutiérrez, Yen-Ching Lin, Ed Mitchell, Louis Partridge, Marta Rak, Lewis Walker
si ringraziano Tamsin Ace, Wendy Houstoun, Mitch James, Rike & Lendschi Langolf, Conor Marren, Liz Mischler, Lloyd Newson, Tom Patullo, Nancy Rossi, London College of Fashion, Artsadmin per Moonwalking Bear Productions
produttore Louise Eltringham
sviluppo del progetto e fundraising Jenna Lambie Ridgway
foto Hugo Glendinnig
nell’ambito di CARNE focus di drammaturgia fisica

Giorni felici: il Beckett umanissimo di Civica, con Demuru e Abbiati

Ph Duccio Burbieri

RENZO FRANCABANDERA | “No better, no worse, no change. No Pain.”
In questa immutabilità di deprivazione sensoria, il dolore fisico e psichico è neutralizzato in un eterno grigio, ben rappresentato dalla scenografia di Roberto Abbiati (interprete anche del personaggio maschile Willie) e ispirata ai cretti di Burri, ma qui in monocromo grigio.
Al centro della scena, quasi a fare da tappo a un vulcanello, a una mezza solfatara, posta più che tirannicamente in cima a qualche montagna come Wilson immaginò un decennio e passa fa, si trova infitta in una montagna fino al busto Winnie (Monica Demuru), la protagonista di Giorni felici di Samuel Beckett, testo capitale della seconda metà del secolo scorso che torna in scena in questa stagione per la regia di Massimiliano Civica in una produzione del Metastasio di Prato.
La drammaturgia di Samuel Beckett in Happy Days offre nella sua monotona ripetitività un’analisi complessa della condizione umana attraverso i suoi protagonisti, Winnie e Willie, insieme ad altri personaggi simbolici e solo evocati come Shower/Cooker e Mildred. L’opera teatrale esplora i temi universali dell’identità contemporanea nella società occidentale: la solitudine, la routine, la speranza e la disperazione, presentando un quadro cupo ma al contempo commovente della vita, lettura che questo allestimento prova sotto molti aspetti a enfatizzare. La luce in cui la coppia si trova (di temperatura piena e finta, ben misurata da Gianni Staropoli), unita alla monotonia e ripetitività delle azioni, sono certo simboliche della lotta quotidiana per trovare senso, significato e scopo nella loro esistenza limitata, ma la scelta che Civica fa e che Demuru nella sua notevolissima interpretazione raccoglie e rilancia è proprio quella di rendere questo personaggio non algido e astratto ma fragilmente quotidiano.

Ph Duccio Barbieri

La donna, sulla cinquantina, secondo le precise indicazioni del drammaturgo che aveva nei suoi testi l’abitudine di descrivere minuziosamente spazi e ambienti in cui la vicenda doveva aver luogo, è simbolicamente sepolta fino alla vita in una montagna di terra, immagine della sua condizione di prigioniera di una routine oppressiva e senza speranza.
Tuttavia, nonostante la situazione disperata, Winnie cerca costantemente di mantenere un’apparenza di normalità e ottimismo, affermando ripetutamente che ogni giorno sarà una “giornata felice”.
La sua costante lotta per trovare un senso di normalità e felicità nonostante le avversità è uno dei temi centrali di Giorni Felici, che al suo debutto conobbe un’accoglienza invero assai tiepida, ma che nel tempo tornò progressivamente in auge, fino a divenire uno dei grandi classici del teatro del Novecento.

disegno eseguito live da Renzo Francabandera

Ma quella che in questa lettura viene accentata è la postura un po’ nostalgica, il rimanere legati a quella “vecchia maniera” salvifica e tranquillizzante con cui le cose venivano fatte in un tempo solo evocato ma non contestualizzabile.
La Winnie di Demuru risulta straordinaria  al nostro sguardo perchè è un personaggio letterario assoluto, ma allo stesso tempo umanissimo, con sentori di signora in coda alla cassa al supermercato, bouquet di quella che nel mondo cinico e ateo dei social si sventola con il calendarietto plastificato nella antisala dell’ufficio dell’Inps, perlage di quell’altra ancora che evoca tisane e antichi rimedi ma con un moderno piglio new age che, ci mancherebbe, si stava meglio quando si stava peggio – dice – mentre commenta acida la nuova foto postata dall’amica, che mamma come le si vedono le rughe!
Che manco esistevano i social quando Beckett scrisse, ma è come se fossero già inglobati ugualmente nell’umanità che raccontava, per dire quanto fosse capace di raccontare non la superficie ma la profondità della psiche umana!
Demuru riesce a essere, in un cambio di smorfie, ora letteratura, ora caricatura di satira sociale à-la-Mannelli.
Pur in questo suo viversi mediano, senza slanci, non manca di darsi una posa vagamente ero-ammiccante, con cui provare a contrastare il tempo che passa, con un bustino ricamato e un vedo/nonvedo per portare i seni in vista, quel trucco e quella vanità che però contrastano con una borsa che sembra più quella di Mary Poppins che una luìvuitton (si nota la malizia appuntita e anche feroce nei costumi di Daniela Salernitano, che con pochissimi attributi scolpisce i personaggi).
Willie, marito di Winnie, di converso funge da contrasto all’ottimistica determinazione muliebre. Ignorando in gran parte la donna (Civica lo fa apparire di spalle, spesso assente allo sguardo dello spettatore) e impegnato in un sonno atavico e senza tempo o nella lettura del giornale (unici momenti in cui il sembiante fisico di Abbiati appare alla vista), l’uomo incarna l’apatia e la distanza emotiva che spesso affliggono le relazioni umane.
La mancanza di comunicazione e connessione tra Winnie e Willie evidenzia la solitudine e l’isolamento che affrontano entrambi, nonostante la loro presenza fisica vicina l’uno all’altro. Ma qui, pur essendo Demuru impegnata in quello che a conti fatti è un monologo con episodiche interruzioni da white noise maritale, il Wilie di Abbiati resta un personaggio che in qualche vago modo prova persino a imbastire una risposta; non di certo un vero e proprio dialogo, per carità, ma quella rassicurante attestazione l’uno all’altro di essere in vita. Come fanno i senescenti, che per mitigare l’ansia della morte si chiamano spesso al telefono per esser certi che dall’altra parte si campi ancora, affogandosi per il resto in quelle discussioni vuote sul “cosa mangi?”, “ma hai visto cosa è successo…!”.

Ph Duccio Burbieri

Lo spettacolo inizia con il suono della sveglia, si alza un sipario di telo bianco (un velo pietoso, a conti fatti) svelando un mondo arido in cui i due personaggi sono immersi. Il velo ricalerà (e la sveglia risuonerà) fra il primo e il secondo atto, per poi sollevarsi ancora dopo una ipotetica nottata. Al riprendere del giorno, Winnie è ormai sepolta dalla montagna fino al collo, impossibilitata ormai a muoversi.
La lettura che dà Civica si fonda sull’idea che il “quasi monologo” della donna sia un tentativo di comunicare, semplice, nel suo farsi disperatamente continuo. Si affida per l’operazione a due interpreti particolarissimi della scena contemporanea italiana, dal portato artistico complesso, capaci di cifre e sfumature ampie e poco comuni. Demuru è attrice che ha l’abilità di dare alla voce un’espressività peculiare, frutto del suo specifico talento canoro.
Abbiati è artista immaginifico, che opera sui segni scenici sia come attore che come creatore degli spazi scenografici (sua, come si diceva, è l’ambientazione e l’installazione materica realizzata per questo allestimento), ma è anche altissimo disegnatore (la scenografia continua infatti su un telo dipinto, a fondale, una sorta di “eccetera eccetera” che prolunga all’infinito la geografia disumanizzata dello spazio scenico materico in primo piano).
Mentre nel caso di Abbiati si può parlare di una voluta assenza scenica, che dà ancora più enfasi alle sue puntiformi e sporadiche apparizioni, Demuru ha una presenza umanissima e quasi familiare. L’uno è un Buster Keaton a torso nudo, un personaggio che viene fuori dai libri di Jerome K. Jerome, un povero cristo in mutande ma che non manca il vezzo della paglietta deluxe e del giornale inglese. Lei uguale ma al femminile, con un cappello che non si capisce bene se finisce per farla assomigliare più a un Napoleone sconfitto o a un Cristoforo Colombo che non vede terra. Insomma sono come tutti noi, capitani navigatori da acqua bassa, ansiosi velleitari che pretendiamo il marchio deluxe sulle cose che andiamo a comprare al discount.
L’uso magistrale del linguaggio e della postura da parte dei due attori, ben governati da Civica che lascia i loro due talenti navigare liberi nel mare di Beckett, contribuisce alla creazione di un’atmosfera surreale e, più che opprimente, sardonicamente rassegnata: ogni azione e ogni parola assumono un significato più spesso, e arrivano allo spettatore costringendolo a un doloroso tedio in cui specchiarsi.
E quando Willie a fine spettacolo, a quattro zampe, prova a scalare la montagna, protendendo una mano verso il suo amore che lo reclama, il gesto si fa volutamente equivoco, e non si capisce se si protenda verso di lei o verso la pistola. Un gesto perfetto, che qui vale lo spettacolo e la presenza cameo di Abbiati a cui servono pochi secondi per pennellare il suo genio. E infatti l’ambiguità dell’intenzione è così sottilmente leggibile, che la visione di questo Beckett finisce persino con una tragicomica risata.
Cosa può sopravvivere a questa umanità suicida e rassegnata? Qualche sparuta piantina, che nel grigio cementizio pare mantenere un sembiante verdognolo e trovare la sua strada verso la vita nonostante tutto: è la natura che in potenza si afferma, a dispetto dell’essere umano.
Da vedere assolutamente. Da tempo non girava un Beckett così “giusto”.
Dopo le date in Emilia al nuovo Teatro delle Passioni di Modena, ospite di ERT, lo spettacolo è in questi giorni al Piccolo di Milano.

 

GIORNI FELICI

di Samuel Beckett
traduzione Carlo Fruttero
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Roberto Abbiati e Monica Demuru
scene Roberto Abbiati
costumi Daniela Salernitano
luci Gianni Staropoli
assistente alla regia Ilaria Marchianò
suggeritore Filippo Baglioni
direttore di scena Loris Giancola
elettricista e fonico Daniele Santi
sarta Annamaria Clemente
coordinamento tecnico dell’allestimento Marco Serafino Cecchi
assistente all’allestimento Giulia Giardi
cura della produzione Francesca Bettalli e Camilla Borraccino
ufficio stampa Cristina Roncucci
foto e video documentazione Duccio Burberi
grafica ed editing Francesco Marini
produzione Teatro Metastasio di Prato
foto Duccio Burberi

In accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di The Estate of Samuel Beckett c/o Curtis Brown Group Limited

 

Danza in Rete off: a Vicenza la nuova generazione della danza internazionale

RENZO FRANCABANDERA | Un’altra grande stagione di danza quella pensata a Vicenza da Piergiacomo Cirella e Loredana Bernardi, i Direttori Artistici di Danza in Rete, rassegna dedicata al linguaggio della musa Tersicore, con una serie di eventi che da metà febbraio a inizio maggio animano il territorio del capoluogo veneto.
La rassegna è promossa dalle Fondazioni del Teatro Comunale Città di Vicenza e del Teatro Civico di Schio.

Anche questa edizione non vive solo nei teatri, ma anche in luoghi simbolici e negli spazi urbani delle due città, con la danza a sviluppare, anche in sedi inaspettate, il suo potenziale di relazione e di rintracciamento dell’identità del territorio.
Parliamo quindi di un evento diffuso, che si realizza in spazi diversi, sia nei teatri principali che in ambiti artistici e siti monumentali, con numerosi appuntamenti tra spettacoli, performances, incontri di approfondimento con esperti e artisti, che incrociano a loro volta operazioni di audience development e engagement, da tempo cifra di questa parte della programmazione del TcVi.

È un’edizione ricchissima anche per la sezione Off di Danza in Rete, affidata alla direzione artistica di Alessandro Bevilacqua, che in questi anni ha tessuto relazioni di calibro nazionale e internazionale capaci di dare il senso di un prezioso percorso pluriennale di crescita, portando la rassegna e la sua sezione sperimentale a divenire un vero e proprio incubatore-vetrina del meglio della giovane danza italiana e non solo.

Chiaro esempio di questo fermento la giornata del 9 marzo,​​ realizzata in collaborazione e con il contributo de La Piccionaia – Centro di Produzione Teatrale di Vicenza, dove ad alcune nuove giovani realtà italiane si sono aggiunte le esperienze della piattaforma israeliana 1|2|3, promossa dalla direttrice artistica del Centro Suzanne Dellal, Naomi Perlov; si tratta di una realtà concepita per dare nuove possibilità alle future generazioni di coreografi in Israele, per aiutarli nello sviluppo di strumenti di composizione e di un linguaggio originale.
Gli artisti che partecipano al programma provengono da esperienze molto differenti fra loro e in questo spazio a suo modo protetto, dentro l’intricato tessuto della cultura israeliana, cercano nuove tonalità aggiuntive rispetto al codice coreografico che in Israele ha interpreti già molto forti. A Vicenza hanno presentato alcune coreografie due giovani ma già interessanti artisti della piattaforma: Tamir Golan che ha proposto il solo di apertura del pomeriggio del 9 marzo, Wabi Sabi e il successivo duetto Oxytocin, interpretato insieme a Gil Elgrabli, e il talentuoso Reches Itzhaki con un suo assolo, Nitta.

Wabi-Sabi, danzato sulle note di Shinju di Hako Yamasaki, è la resa in forma coreografica di un concetto ben noto alla cultura giapponese di derivazione buddhista, ovvero quello di bellezza imperfetta, che nutre tutto ciò che è autentico, accettando tre semplici verità: nulla dura, nulla è finito, nulla è perfetto. Una sorta di bellezza triste che l’artista rende con movimenti lenti e calibrati e poi improvvise accelerazioni che ritornano su alcuni gesti ripetuti, come le due mani che si uniscono nella posa di chi sta cercando di sciogliere un nodo con l’indice e il pollice delle due mani uniti. Più animalesca e selvatica la postura di Itzhaki, che si muove in Nitta come fosse una piccola bestia suggestionata dallo spazio circostante in cui si muove curiosa, su una base melodica di ritmi di samba veloce, Pallett di Khosrow and Shirin.
Tamir Golan chiude la proposta delle tre brevi coreografie israeliane con il duetto Oxytocin, un incontro di fisicità ma anche di passioni, in cui emergono con chiarezza le dinamiche di relazione amorosa, con i suoi slanci ma anche con le sue dinamiche ripetitive e le nevrosi. L’ossitocina è un ormone che viene secreto nelle donne e negli uomini durante l’orgasmo ed è noto anche come “ormone dell’amore”. È anche un neurotrasmettitore che svolge un ruolo nelle relazioni sociali e può influenzare la formazione della fiducia interpersonale. E lo spettacolo che si apre su inseguimenti e intrecci ariosi, si chiude proprio in una posizione incastrata dove i due danzatori/personaggi si costringono l’un l’altro a soggezioni e dinamiche vincolate e vincolanti. Potenza e dannazione del sentimento.
Al danzatore la creazione di duetti è valsa il premio “Outstanding Creator”. Tamir è stato scelto per partecipare con le sue opere all’Holland Dance Festival (Den Hagg, Olanda) e a MILANoLTRE (Milano, Italia), e nell’autunno del 2023 ha creato un nuovo lavoro per il Conservatorio nazionale di Parigi, Francia.

Dopo l’affollato incontro con il pubblico dei coreografi israeliani e la loro maestra, è stata la volta della proposta di Spellbound, con Sola Andata. Spellbound Contemporary Ballet nasce nel 1994 per volontà del coreografo Mauro Astolfi cui si è aggiunta alla guida dopo due anni Valentina Marini.
Lo spettacolo vive di ambientazioni d’antan in cui le figure protagoniste di questa vicenda, non spiegata ma sufficientemente esplicita, appaiono pian piano, quasi fossero fantasmi di una antica vicenda domestica che viene rievocata. I particolari costumi conferiscono alla situazione scenica l’atmosfera vintage, così come le luci, che creano un interno notte. Un tavolo, delle sedie. Una donna si avvicina al tavolo e mima il gesto di una carezza. Poco dopo entrerà il secondo performer in scena a dare materialità alla superficie su cui quelle carezze si ponevano, la sua testa, la sua nuca.
I due sembrano avere una relazione, ma poco dopo un’ulteriore figura femminile entra in questo spazio intimo. Non è chiaro mai il ruolo perturbante di questa terza presenza che sconvolge la dinamica duale ma è sufficiente a creare un andamento narrativo a tre, che mantiene vivo lo sguardo sulla coreografia di Astolfi fatta di presa di distanze e sensuali avvicinamenti, i cui interpreti sono Maria Cossu, Giuliana Mele, Alessandro Piergentili.
Le note di regia parlano della tentazione, del richiamo di un viaggio di sola andata, del momento in cui ci si indirizza per qualcosa di definitivo, per quella scelta che sarà per tutta la vita. Una specie di strano dejavù dal gusto vagamente cechoviano quello a cui si assiste in scena, ma un po’ più perturbante.

La seconda parte della serata ha seguito al Teatro Astra, dove gi spettatori fruiscono in sequenza Danze Americane, un solo di Fabrizio Favale, presenza ormai salda nella coreografia indipendente italiana e che è a DIR Off con questo interessante progetto selezionato anche alla NID – Platform 2023 e da ResiDanceXL, e a seguire A Solo in the Spotlights, della giovane rivelazione Vittorio Pagani, una creazione selezionata anche per Aerowaves 2024 e per la Vetrina della giovane danza d’autore 2023 – Network Anticorpi XL.
Partiamo dall’assolo danzato da Fabrizio Favale che presenta 3 delle complessive 7 sequenze coreografiche, proposte come fossero evoluzione di esercizi dentro un training.
Il danzatore, partendo da alcune tecniche e modalità specifiche della danza moderna e postmoderna americana (da cui l’autore stesso proviene per formazione, come chiarisce in un messaggio letto in italiano e inglese ad inizio spettacolo) propone esercizi di maestri come Josè Limon, Tricia Brown e Merce Cunningham, proposti al pubblico dapprima, per così dire, in purezza; poi lo stesso esercizio viene riproposto su base musicale e successivamente sviluppato in una versione arricchita da spunti e stimoli più vicini al segno coreografico contemporaneo, mostrando il legame fra questi meravigliosi germogli originari del secolo passato e le declinazioni gestuali e artistiche che da quelle ancora vivono nel presente della danza.
Dalla tecnica del grande maestro messicano Limon, che si sviluppa attraverso una suddivisione in isolamenti di impulsi localizzati, indirizzati in tutte le direzioni, passando per la successiva ricerca di Brown, fino a chiudere con l’Adagio di Cunningham, andando così ad attraversare con pochi ma chiarissimi segni i decenni centrali del secolo scorso, quelli fra gli anni Trenta e gli Anni Cinquanta. Full Scholarship presso American Dance Festival 1990, Favale, giovanissimo, nel 1996 è stato nominato “miglior danzatore italiano” dal Premio G. Tani e dopo aver portato il suo codice in Italia e all’estero, nel triennio 22-24 Fabrizio Favale è Artista Associato di MILANoLTRE.
Qui negli esercizi, al principio dei quali vengono abbassate alcune quinte e il fondale per lasciare visibile la scatola nuda del palcoscenico e quindi lo spazio dell’arte svuotato di artifici, viene usato come concetto di fondo il principio per cui la tecnica ha condotto il linguaggio al presente.
È un commovente viaggio nella storia dell’arte della danza, a ben guardare, con i frammenti proposti non a caso in avanzamento cronologico: questo rende visibile ad esempio il passaggio dalle forme ancora ibridate con la gestualità del balletto di Limon, a quelle più psicologiche e libere di Brown fino al rapporto di Cunningham che libera il movimento dal bisogno di “spiegare” la musica, facendo esplodere il corpo in tutto il suo potere significante.
Il lavoro ha un suo nitore, particolarmente leggibile da chi è appassionato di storia, di evoluzione dei segni, di comprensione del loro farsi, mescolarsi, riprendersi e lasciarsi per andare oltre. Sotto questo profilo Danze Americane, un po’ come Lezioni Americane di Calvino, vuole tornare su alcuni concetti chiave per riportarli all’oggi con uno sguardo al futuro.

A Solo in the Spotlights di Vittorio Pagani è un tuffo nei meandri dello spazio scenico, affidato alla esuberante e piena corporeità viva di un giovane talento, che proprio in quanto giovane, si pone il tema centrale del proprio posto sul palco che, in quanto artista, è anche il proprio posto nella società.
Pagani è artista formatosi negli ultimi anni in Inghilterra. Dal 2023 fa parte del collettivo LARVÆ, gruppo di professionisti dello spettacolo supportato dalla Compagnia Equilibrio Dinamico: performer e coreografo originario di Milano, nel 2018 si è unito al Ballet Junior de Genève dove ha ballato le creazioni di alcuni tra i coreografi più influenti a livello internazionale. Nel 2021 ha creato il passo a due Around 5:65, selezionato per RIDCC2022. Laureatosi in Expanded Dance Practice nel 2023 presso la University of the Arts London, a The Place London ha creato l’anno scorso A Solo in the Spotlights, selezionato poi per Resolution2023, la Vetrina della Giovane Danza d’Autore 2023 e Aerowaves2024.

Lo spettacolo lo vede solo in scena a giocare con il corpo e la parola, in una drammaturgia che lo spinge a raccontare il suo essere giovane danzatore oggi, fra contraddizioni, pulsioni, tensioni al futuro, fallimenti. In questo raccontarsi, mentre alcune proiezioni di matrice testuale scandiscono la narrazione, il giovane pare affidarsi alla sua giovanile esuberanza barocca, in questa ostentazione del proprio sè portata all’estremo. Pregevole il disegno luci di Mark Webber e i costumi di fluorescenza pink di Bruna Scazzosi. Il solista esplora così, dentro un mélange di musiche techno pop contemporanee, gli aspetti della vita da danzatore, ma anche come si cambia quando si finisce sotto i riflettori, fino quasi al bisogno di doversi nascondere per tornare ad essere se stessi. La coreografia ha diversi spunti di interesse e il corpo di Pagani ha una fisicità interessante e capace di declinare molteplici identità, che in questa creazione appaiono leggibili. Si tratta di un artista promettente a cui rivolgere attenzione.

 

WABI SABI
coreografia e performance Tamir Golan
musica Shinju di Hako Yamasaki
costumi Tamir Golan

NITTA
coreografia e performance Reches Itzhaki
musica Pallett di Khosrow and Shirin
costumi Adam Elezrah, Achinoam Cina

OXYTOCIN
coreografia Tamir Golan
danzatori Gil Elgrabli, Tamir Golan
musica Mica Levi
editing musicale Tamir Golan

 

SOLO ANDATA

coreografia Mauro Astolfi
interpreti Maria Cossu, Giuliana Mele, Alessandro Piergentili
luci Marco Policastro
musiche autori vari
produzione Spellbound Contemporary Ballet
coproduzione Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza

DANZE AMERICANE

coreografia e danza Fabrizio Favale
set, costume e art work First Rose
coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Vicenza, Festival Danza in Rete, Festival MILANoLTRE, KLm – Kinkaleri / Le Supplici / mk
con il contributo di MIBAC, Regione Emilia-Romagna, Comune di Bologna
con il sostegno di h(abita)t – Rete di Spazi per la Danza
il progetto è stato realizzato con il contributo di ResiDance – luoghi e progetti di residenza per creazioni coreografiche, azione del Network Rete AnticorpiXL

> Progetto selezionato alla NID – Platform 2023 / sezione Open Studios
> Progetto selezionato da ResiDanceXL – luoghi e progetti di residenza per creazioni coreografiche, azione del Network Anticorpi XL

A SOLO IN THE SPOTLIGHTS

coreografia Vittorio Pagani
interprete Vittorio Pagani
aiuto alla drammaturgia Hannes Langolf, Martin Hargreaves
testi originali Vittorio Pagani
video Vittorio Pagani
produzione The Place London
coproduzione LARVÆ
produzione esecutiva Equilibrio Dinamico Company
disegno luci Mark Webber
costumi Bruna Scazzosi
musiche di Adolphe Adam, Tomat, kwajbasket, Patti Smith e Allen Ginsberg e Queen

> Creazione selezionata per Aerowaves 2024
> Spettacolo selezionato per la Vetrina della giovane danza d’autore 2023 – Network Anticorpi XL

 

Le cornici della società, intervista a Stefano Simone Pintor su Dorian Gray

GIULIA BONGHI | Dopo Toteis e Peter Pan – The Dark Side, Dorian Gray è la terza opera commissionata dalla Fondazione Haydn di Bolzano e Trento a compositori dell’Euregio Tirolo-Alto Adige-Trentino. Con la direzione artistica di Matthias Lošek, la programmazione dedicata all’opera ha mosso dei passi coraggiosi nel segno dell’innovazione e della sperimentazione, raggiungendo obiettivi importanti come la vittoria del Premio Abbiati per la messa in scena dell’opera Written on skin, l’ideazione del concorso Fringe e la realizzazione di tre importanti produzioni. Il progetto Dorian Gray, con la musica di Matteo Franceschini, libretto e regia di Stefano Simone Pintor, sarà in scena al Teatro Comunale di Bolzano sabato 16 e domenica 17 marzo 2024.

Ho avuto il piacere di intervistare il regista, di ritorno dal ritiro di un premio a Parigi. L’Académie des beaux-arts ha assegnato il Grand Prix – des membres libres al regista Robert Carsen, che doveva devolvere il riconoscimento in denaro a tre artisti di cui apprezza l’operato. Si è rivolto alle nuove generazioni, indicando la regista e coreografa Eleanor Burke, lo storico della moda Alexandre Samson e l’autore e regista Stefano Simone Pintor.

Ph Andre Macchia – Foto di scena della prova Antepiano

Mancano ormai pochi giorni al debutto. Come procedono le prove?

Le prove procedono bene. Siamo giunti alla fine della terza settimana e devo dire che siamo dove dobbiamo essere. Abbiamo una settimana ancora di prove in cui dobbiamo sistemare molto lavoro da un punto di vista tecnico, però sta funzionando tutto bene e siamo tutti molto contenti del percorso. Si prospetta un’opera molto promettente.

L’interesse specifico per il romanzo di Oscar Wilde com’è nato?

All’inizio è stato Matthias Lošek che ha commissionato a Matteo Franceschini un’opera nell’ambito di un progetto della Fondazione Haydn. Sono giunti all’idea di creare un’opera su Dorian Gray, idea che, diciamo così, Matteo coccolava da tempo. La cosa si spiega da sola: ovviamente è un romanzo di Wilde incredibile. Poi sono subentrato. Avevo fatto già, nel 2018, un’opera scritta da Roberto Vetrano, sempre edita da Ricordi, che si chiamava Ettore Majorana. Cronaca di infinite scomparse. Era venuta in tournée al Teatro Sociale di Trento con la Fondazione Haydn. Dopo mi è giunta la commissione di fare la regia di Falcone – il tempo sospeso del volo di Nicola Sani, sempre al Teatro Sociale, due anni fa, in occasione del trentennale della strage di Capaci.

Abbiamo lavorato, io e Matteo, lungamente per elaborare la struttura dell’opera e poi per scriverla insieme. Naturalmente io il libretto, lui la musica, ma sempre con un continuo scambio.

Può anche essere sensato che la prima messa in scena di un’opera scritta da un librettista e un compositore, venga effettivamente messa in scena da uno dei due. Anche delle prime opere, quando la figura del regista non esisteva, chi curava la messa in scena era chi l’aveva scritta.

In realtà mi capitano un po’ tutte e due le cose. È bello vedere come ci interpreta un terzo elemento. Alla fine, la ricchezza viene dallo scambio. D’altro canto, hai ragione anche tu, cioè quando l’opera la metto in scena io, vado a fondo di tante cose.

Gioco sempre un po’ su questo, ma in realtà è una vera filosofia: quando scrivo, cioè, considero l’uno e l’altro – lo scrittore e il regista – due persone diverse. Quando scrivo l’opera non penso mai alla soluzione registica, perché credo che sarebbe un gioco di economia che mi aiuterebbe verso una soluzione e che però tarperebbe le ali alla creatività della scrittura e viceversa. Invece, il regista si trova a dover risolvere un testo per la scena. È risolvere il problema a dare adito alle idee migliori; quindi, non ci penso mai più di tanto all’inizio e dopo mi ritrovo a chiedermi «adesso come lo faccio questo testo?».

Ci si deve mettere in difficoltà. 

Sì, esatto. Parole sante. Poi non tutti sono proprio d’accordo. Però sì, io questa cosa la sposo in pieno.

Le tematiche del romanzo. Nel Dorian Gray abbiamo l’arte come specchio, la vita come forma d’arte, la vanità, l’apparenza, la paura di perdere la bellezza e la gioventù, l’influenza e la corruzione, l’omosessualità. Quali sono quelle che hai affrontato di più, che ti interessano di più, che magari sono ricorrenti nella tua vita artistica.

In realtà le abbiamo affrontate praticamente tutte. Anzi, senza praticamente. Ne abbiamo anche aggiunte altre. Perché è un po’ uno spaccato della nostra società e noi viviamo una società molteplice, multimediale e frammentaria. Tutto questo influenza la nostra vita quotidianamente.

Dopo aver studiato a fondo il romanzo, la cosa più importante che è venuta fuori è che cosa succede fra Dorian Gray e gli altri o, meglio, chi è Dorian Gray per gli altri. Anche leggendo un paio di citazioni e che poi ho messo all’inizio del libretto. Una è una risposta che diede Oscar Wilde a un critico: «ognuno vede i propri peccati in Dorian Gray». Quali siano i peccati di Dorian Gray, nessuno lo sa. Li vede colui che li ha commessi e in realtà è questo il motivo della continua attualità dell’opera.

Oscar Wilde aveva capito perfettamente che non c’è niente come la potenza dell’immaginazione del lettore che completa il racconto, con le proprie esperienze e il proprio portato emotivo. È un’opera che diventa senza tempo, perché ciascun lettore di ciascun tempo la completa, come dicevo, proiettandoci i propri demoni o desideri più reconditi. E così fanno anche gli altri personaggi rispetto a Dorian Gray. Hanno delle ossessioni quasi patologiche nei suoi confronti. Dorian funge un po’ da detonatore delle pulsioni degli altri. Per cui è venuta fuori l’idea di questa inversione logica, che poi un’inversione non è perché è dentro al romanzo, di avere Dorian con la sua stessa vita che diviene il ritratto delle vite degli altri. Lo specchio.

L’altra citazione è quella della prefazione famosissima al libro: «è lo spettatore e non la vita che l’arte realmente rispecchia». Quindi tutto il nostro spettacolo doveva divenire una sorta di grande ritratto del pubblico. Da qui è nata l’idea di avere una struttura molto corale, a capitoli, ciascuno dedicato a un personaggio secondario, potremmo dire, della storia. Ciascuno di loro vede il proprio Dorian Gray in una maniera diversa e si proietta in esso.

Ogni capitolo è nominato con il nome di un personaggio che abbiamo selezionato: Basil Hallward, il pittore; Sibyl Vane, l’attrice; Alan Campbell, il chimico; Gladys Monmouth, che racchiude un po’ tutti i personaggi femminili della storia; James Vane, il fratello di Sybil; Harry Wotton, il filosofo. Ripercorrono ognuno la storia dal punto di vista del personaggio e si intrecciano fra di loro.

Si incrociano le storie, a volte si rivedono degli episodi che già avevamo visto in un altro capitolo, ma riprendendoli un pochino prima o un pochino dopo e anche, soprattutto, dal punto di vista di un altro. Dorian rimane in tutto questo immantinente, immutabile, non si coglie. Per citare Aldo Busi e la sua bella prefazione al Dorian Gray, nell’edizione Mondadori, è il «Mephisto assente», che c’è e non c’è. Non si capisce se sia vero, se ci sia o non ci sia, se sia una proiezione, oppure se sia un personaggio, una persona a caso, un ragazzo appena arrivato a Londra, in questa società che si auto dipinge come perfetta ma in realtà diventa coercitiva nei confronti degli altri.

Ph Andre Macchia – Foto di scena della prova Antepiano

È esemplificativo come inizia e finisce il libretto: «We… You… I… They… He… She… Dorian». Sembra davvero che Dorian sia una proiezione di tutti gli altri personaggi. Sembra che lottino da soli, contro sé stessi.

Chi è questo Dorian? Questo doppio di ciascuno di loro? Studiando e immergendomi nella letteratura del doppio, che era cara alla letteratura Vittoriana – basti pensare a R. L. Stevenson, a soggetti come Dr Jekyll e Mr Hyde, ma anche alla nascita della psicologia freudiana – mi sono imbattuto nella teoria del doppelganger, che, caso vuole, ha lo stesso acronimo di Dorian Gray. C’è stata questa, diciamo, illuminazione e Dorian Gray, a quel punto, è veramente diventato il doppelganger di tutti gli altri personaggi.

Alla fine, chi sia questo Dorian Gray nessuno lo sa e sta allo spettatore stabilirlo. Ma non è neanche importante, cioè è più una domanda che viene lasciata a ciascuno di noi. Ne viene fuori uno spaccato di sei personaggi la cui ispirazione è nel libro, ma soprattutto è nella nostra quotidianità. Mi sono ispirato ai testi di Oscar Wilde, soprattutto al De Profundis, le lettere dalla prigionia, oltre che, naturalmente, al romanzo stesso, Il ritratto di Dorian Gray. Ma la cosa che più mi ha lasciato senza parole è stato leggere i quotidiani, dove si trovano veramente dei tali che sembrano i personaggi del Dorian Gray, ma portati all’oggi.

Quindi abbiamo un Basil Hallward che sostanzialmente non riesce più a riconoscere qual è il confine fra un’ossessione per una Musa e un’ossessione per un ragazzino e quindi diventa uno stalker. Abbiamo una Sibyl Vane che fugge nel mondo delle ombre, usa il teatro e l’arte come una sorta di terapia per problemi familiari latenti e proietta davanti a sé l’idea di un Principe Azzurro che non esiste; quindi, sostanzialmente, vive in un mondo allucinato. Harry Watton è il tipico narcisista manipolatore. Ci sono storie così, nella nostra quotidianità, che sono terribili e da questo punto di vista potremmo anche definirla una tragedia contemporanea la nostra.

Ciascun personaggio in un qualche modo incarna uno dei nostri vizi contemporanei, la deriva sociale della nostra società. Non sono vizi del singolo individuo, ma sono vere e proprie derive sociali. Ci sono state ispirazioni anche dal testo di Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, che individua appunto le derive della nostra società, come consumismo, sociopatia, diniego. Tra queste, per esempio, il diniego è stato quello forse che, perlomeno a me, fa più paura di tutte.

Trovo che ci sia un senso di universalità. Trattare tematiche che dipingono la nostra società, che hanno a che fare con tutti, compreso il grande tema dell’ignoranza, ad esempio. Possiamo definirlo un carattere peculiare della tua ricerca artistica?

Mi verrebbe da dire una specie di attivismo artistico. Oggi viviamo in un’epoca dove non esistono più le grandi narrazioni. Non esistono più i grandi intellettuali di un tempo. Non si crede più, le religioni sono sempre meno seguite, oppure seguite in maniera estremizzata. Non si ascoltano i filosofi. Quindi agli artisti, secondo me, è dato il compito di portare avanti una domanda su noi stessi. Noi ci rifugiamo nel leggere i libri, nel guardare film e serie-tv, nell’ascoltare musica. Quanto l’artista ha salvato con il proprio lavoro il mondo?

L’arte ci salva.

È una vera e propria missione. Perché noi abbiamo bisogno delle storie per comprenderci. Quindi in realtà credo veramente che l’intellettuale moderno possa essere in questo momento l’artista, e quindi quello che pone delle domande. È attivismo e anche lavoro politico, nel senso di indagine sulla nostra società, sulla nostra polis.

Dorian Gray è pieno di argomenti che, rispetto a due secoli fa, oggi sono esplosi. Per esempio, consideriamo solo quello della bellezza. Per me è stato abbastanza chiaro vedere come la bellezza fosse conseguenza di un’ossessione per il tempo che svanisce. All’inizio Dorian Gray, quando vede il suo ritratto, dice «perché non posso fare che sia lui a invecchiare al posto mio? Perché non posso rimanere sempre lo stesso?». Quando sei così giovane sei nel massimo della tua potenza biologica e puoi fare tutto. Pian piano, man mano che invecchi, non è altro che un decadimento fisico, corporeo, a volte mentale.

A un certo punto Dorian dice: «questo ritratto mi ha rubato il tempo».

Il tempo in quest’opera è trattato in vari modi dalla scrittura musicale di Matteo Franceschini, che ha fatto veramente un’indagine personale artistica sull’utilizzo del tempo. L’ho fatto anch’io, a mio modo, applicato al testo, all’intersezione fra le storie dei vari personaggi. Il tempo si dilata anche nel libretto, vi sono parti che svaniscono e che poi ritornano; quindi, anche graficamente c’è la rappresentazione di questo. Come vediamo mille Dorian Gray diversi, ognuno di noi percepisce anche il tempo e sé stesso nel tempo in maniera diversa.

Ph Andre Macchia – Foto di scena della prova Antepiano

L’opera lirica è una forma artistica che si presta a raccontare grandi storie.

C’è anche l’astrazione della musica che ti permette in qualche modo di parlare a un livello diverso, ma mantenendo tutta la potenza, anzi aumentando la potenza del linguaggio teatrale.

Tra l’altro, c’è tantissima musica nel romanzo di Dorian Gray. Sono citati per esempio dei momenti in cui Dorian suona dei duettini al pianoforte, o quando va all’opera a vedere il Lohengrin. Oltre a citare, ovviamente, Shakespeare, o altri testi come À rebours di Huysmans, che aveva tra l’altro ispirato tutto il libro di Wilde, insieme alla leggenda faustiana. Cita l’arte in molti ambiti; sappiamo che il discorso sull’importanza dell’arte per le nostre vite, per Wilde è fondamentale.

La macchina scenica che state creando – lo scenografo è Gregorio Zurla, i costumi sono di Alberto Allegretti, Fiammetta Baldiserri firma le luci e Virginio Levrio il video design – è semplice in quanto estremamente efficace, ma allo stesso tempo complessa e articolata. 

La sensazione che ho tentato di costruire è un linguaggio filmico, magico e misterioso. Abbiamo questa grande cornice sul boccascena che racchiude all’interno i vari mondi, tempi, spazi, storie, eventi, personaggi che andiamo a creare. Quindi vari quadri o ritratti di personaggi. Però ci sono tanti altri micromondi che a volte coesistono fra loro. Ci sono tante cornici che si intersecano, proprio come le vite o gli eventi di questi personaggi. Con l’andare e venire di cornici e con l’utilizzo della macchineria teatrale, un continuo passare senza soluzione di continuità da una parte all’altra. L’effetto è veramente interessante e molto fluido. Ogni capitolo è autoconclusivo, però è intrecciato agli altri.

Lo trovo molto fedele a Oscar Wilde negli intenti, il che non vuol dire che sia fedele o che debba essere fedele necessariamente nella linea narrativa, perché è un altro strumento il teatro, rispetto al romanzo. C’è un’economia diversa di scrittura e quindi gli eventi possono anche cambiare. I personaggi possono avere una biografia anche parzialmente diversa. Però gli intenti, almeno per come li ho ricevuti io da lettore, erano questi e questa è stata la nostra traduzione.

D’altronde, il significato di un’opera non si esaurisce nell’opera in sé e neppure negli intenti dell’artista. L’arte è sempre una questione di domande.

L’intento è proprio quello di lasciare delle domande. Ecco, il ruolo dell’artista.

 

DORIAN GRAY

Musica di Matteo Franceschini
Libretto di Stefano Simone Pintor

Dorian Gray Laura Muller
Basil Manuel Nuñez Camelino
Sibyl Giulia Bolcato
James Ugo Tarquini
Alan Alexandre Baldo
Gladys Elena Caccamo
Harry Mathieu Dubroca

Orchestra Haydn di Bolzano e Trento
Direzione d’orchestra Rossen Gergov
Regia Stefano Simone Pintor
Scenografia Gregorio Zurla
Costumi Alberto Allegretti
Luci Fiammetta Baldiserri
Video Design Virgilio Levrio

Teatro Comunale di Bolzano
Sabato 16 marzo, ore 20.00
Domenica 17 marzo, ore 17.00

PAC LAB | Il Re Chicchinella di Emma Dante chiude (in bellezza) il ciclo su Basile

CHIARA AMATO* | In occasione dell’ultimo spettacolo di Emma Dante, in prima assoluta in a Milano fino al 28 marzo, il Teatro Studio – Melato cambia la propria struttura, con una gradinata frontale allo spazio scenico, che avvicina gli attori al pubblico, disposto solitamente su una platea emiciclica.
Lo spettacolo Re Chicchinella è tratto da una fiaba de Lo cunto de li cunti ovvero lo trattenemiento de peccerelle, nota raccolta di novelle in lingua napoletana, che Giambattista Basile pubblicò nel 1634 e dedicò ai membri dell’Accademia Napoletana degli Oziosi (da otium latino inteso come svago).
L’opera di Basile, nota anche con il titolo di Pentamerone (cinque giornate), è una raccolta di cinquanta fiabe, raccontate in cinque giornate da dieci narratrici: i racconti sono collocati in una cornice che segue lo schema del Decameron di Boccaccio anche se diversi sono il linguaggio e i temi trattati. Infatti l’autore seicentesco aveva arricchito le fiabe popolari utilizzando il dialetto napoletano nelle sue espressioni gergali, colorite fino al turpiloquio, perchè riprendessero i toni della nuova commedia dell’arte. La partitura metrica è decisamente barocca e riesce a sollevare dal basso la morale che ognuno di questi racconti vuole lasciare al lettore, ricordando i drammi shakespeariani (come ebbe a scrivere Benedetto Croce).

La regista torna quindi a indagare questo autore dopo i precedenti due lavori, La Scortecata e Pupo di zucchero, chiudendo così questa trilogia fiabesca. Spiega Dante che ‘Re Chicchinella racconta la storia di un sovrano malato (…) circondato da una famiglia anaffettiva e glaciale che ha un solo interesse, ricevere un uovo d’oro al giorno. L’animale vive e si nutre dentro di lui, divorando lentamente le sue viscere’.
Il fine è sempre quello di svelare lati dell’animo umano attraverso il grottesco, il paradossale, la comicità e la tragicità dell’esistenza e delle relazioni, in questo caso familiari e di corte. Lati bui e miseri delle dinamiche di potere commentando le quali il Re malato risponde ‘a che servono li denari?!’ se questa è la vita che lo aspetta?

ph. Masiar Pasquali

L’opera si apre con una scena interamente nera, elaborata dalla stessa regista che insieme a Sabrina Vicari si è occupata anche dei costumi, e un’immagine molto suggestiva: gli attori (Annamaria Palomba, Angelica Bifano, Stephanie Taillandier, Viola Carinci, Davide Celona, Roberto Galbo, Enrico Lodovisi, Yannick Lomboto, Samuel Salamone, Marta Zollet, Samuel Salamone, Viola Carinci, Marta Zollet) vestiti a lutto indossano maschere di gallina e borbottano versi, sgranando fra le mani un rosario; ai loro piedi un ammasso nero di tulle, piume e balze si comincia a muovere.
Da questo fuoriesce a torso nudo il Re (Carmine Maringola) che comincia a relazionarsi con i suoi due paggi (Davide Mazzella e Simone Mazzella). Viene spiegato che tutta la tragicomica vicenda è iniziata quando una volta, defecando, e non avendo mezzi con i quali pulirsi, aveva utilizzato una gallina che credeva morta, ma che invece si era introdotta nel suo deretano. L’animale si nutre di quello che lui ingerisce e per questo il protagonista inizia a digiunare, sperando che la gallina muoia e che la sua corte non sia più interessata solo all’aureo tornaconto: siamo infatti di fronte a una parabola che fonde la leggenda di Re Mida e la favola di Esopo sulla gallina dalle uova d’oro.
Segue l’arrivo delle damigelle, che indossano reggiseni decorati di gemme, parapalle e scarpette che richiamano la danza classica. Queste formano un vero corpo di ballo e infatti il loro unico linguaggio in scena è eminentemente corporeo (raramente brevi frasi in lingua francese). L’effetto generato è comico grazie al loro muoversi all’unisono, come galline impazzite in un pollaio, e nel ripetere le stesse frasi a turno: si sputano cibo addosso reciprocamente, mangiano con ingordigia, si sporcano e danzano da una parte all’altra della scena.
La storia narrata riguarda il Re Carlo III d’Angiò e in scena, tra i suoi familiari reali, appaiono la figlia e la moglie, dalle quali non si sente né amato né capito ma solo sfruttato.
La prima indossa un abito bianco piumato e un fiocco rosso fra i capelli mentre la seconda un abito lungo nero dalle maniche bianche: i colori potrebbero simboleggiare il carattere molto infantile della principessa, che infatti parla anche come una bambina, e l’austerità e la rigidità della regina che non è innamorata del suo sposo, anzi tutt’altro.

ph. Masiar Pasquali

I due coniugi reali si denigrano e battibeccano in scena con toni volgari, masticano il dialetto napoletano con grande abilità e si affrontano fisicamente molto da vicino, in cerca dello scontro. La disperazione del Re giunge al culmine, mentre tutti banchettano allegramente sotto i suoi occhi, e prega il medico di tirargli via il pennuto animale dal culo.
Le infermiere, vestite in culotte, parapalle e top bianco, insieme al medico in total-black rimandano alla famosa scena di Arancia Meccanica di Kubrick, dove il protagonista viene tenuto immobilizzato contro la sua volontà per poi arrivare alla ‘guarigione’: la musica è sacrale, ma in questo caso non arriva il lieto fine e il re crolla morto a terra, dopo una convulsa danza macabra.

ph. Masiar Pasquali

A conclusione tutti gli interpreti in lutto circondano il corpo che giace a terra, disponendo inginocchiatoi da chiesa lo avvolgono in un’ipocrita preghiera e spunta il pennuto (Odette Lodivisi), questo sì ben voluto e caro a tutta la corte. Sulle note di Passacaglia di Battiato, si chiude l’opera con il plauso del pubblico, che durante lo spettacolo ride, non di rado davvero a crepapelle.
Il lavoro diretto da Dante ha vari punti di forza nell’equilibrio ben calibrato fra la violenza della lingua e la leggerezza delle battute, tra la bellezza dei costumi e del movimento scenico degli interpreti. Proprio quest’ultimo riflette un lavoro intenso che la compagnia deve aver chiaramente sostenuto durante le prove: il corpo e la fisicità, nonostante la danza sia marginale rispetto al recitato, sono gli elementi cardine dello spettacolo e si ricollegano a una particolare sensibilità della regista che ha sempre guardato al codice coreografico a complemento della presenza scenica.
Gli attori si muovono spesso in maniera corale, sembrano guitti della Commedia dell’Arte, c’è nudità come a voler amplificare questa centralità del corpo. Si è immersi in uno tempo arcaico e in uno spazio tra la favola e la realtà perché le dinamiche relazionali sono fin troppo reali e offerte al pubblico con carica forte e senza convenevoli.
Gli abiti meritano una menzione particolare per due ordini di ragioni: sono belli ed eccessivi, ricordano lo stile di Dolce&Gabbana e delineano i personaggi. Sono parte integrante dei caratteri e anticipano la natura degli animi dei protagonisti di questa favola sui generis, tutta in piena coerenza con la cifra di Basile, al cui stile si resta coerenti, pur nella rilettura del tempo presente.
Il risultato è che l’impronta della regia di Emma Dante accresce le parole dell’autore napoletano, dandogli contemporaneità, pur rimanendo in uno spazio/tempo lontano e irreale.

 

RE CHICCHINELLA
Prima assoluta
libero adattamento da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile
scritto e diretto da Emma Dante
elementi scenici e costumi di Emma Dante
luci Cristian Zucaro
assistente ai costumi Sabrina Vicari
con Carmine Maringola (Re), Annamaria Palomba (Regina), Angelica Bifano (Principessa), Davide Mazzella, Simone Mazzella (Paggi), Stephanie Taillandier (Dama d’onore), Viola Carinci, Davide Celona, Roberto Galbo, Enrico Lodovisi, Yannick Lomboto, Samuel Salamone, Marta Zollet (Dame di corte), Samuel Salamone (Dottore), Viola Carinci, Marta Zollet (Infermiere), Odette Lodovisi (Gallina)
coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Atto Unico/Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, Carnezzeria, Célestins Théâtre de Lyon, Châteauvallon-Liberté Scène Nationale, Cité du Théâtre – Domaine d’O – Montpellier / Printemps des Comédiens
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma
coordinamento di produzione Atto Unico/Compagnia Sud Costa Occidentale Daniela Gusmano

Teatro Studio Melato, Milano | 9 marzo 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Il teatro documentario e la manifestazione dell’onirico: La Banca dei Sogni di Domesticalchimia a Padova

RENZO FRANCABANDERA | Questo modo di fare teatro è antico. Il teatro documentario ha radici profonde nella storia delle arti performative, e la sua evoluzione nel corso del tempo ha riflettuto i cambiamenti sociali, politici e culturali del mondo circostante. Partendo dall’innovazione introdotta da Erwin Piscator nel primo Novecento fino alle moderne declinazioni di oggi, è possibile tracciare un percorso affascinante che evidenzia il ruolo cruciale di questa forma d’arte nell’interpretare e rappresentare la realtà, insieme alla fortuna. Piscator era stato già un secolo fa un pioniere del teatro politico e documentario, introducendo una nuova visione del teatro come strumento per analizzare e commentare gli eventi contemporanei. Attraverso l’uso di montaggi, proiezioni di filmati e l’incorporazione di elementi giornalistici nelle sue produzioni, Piscator aveva creato una forma di spettacolo che sfidava le convenzioni teatrali tradizionali e coinvolgeva attivamente il pubblico nel processo di riflessione politica e sociale.
Dopo L’Istruttoria di Weiss di metà degli Anni 60, giusto per fare il rimando più celebre, in epoca contemporanea, una rinascita del teatro documentario ha cominciato a prendere forma a partire dalla fine degli anni 90, con nuove declinazioni da parte di artisti che, sfruttando anche le nuove dotazioni multimediali che consentono di lavorare anche fuori dallo spazio teatrale convenzionale, hanno avuto un grande esito internazionale, da Roger Bernat a Rimini Protokoll o Milo Rau e Lola Arias, per nominare alcuni fra coloro che hanno avuto recenti circuitazioni anche nel nostro Paese.
Diverse sono le compagnie italiane che hanno scelto questa formula di espressione per il proprio codice scenico. Fra queste, negli ultimi anni, un particolare successo ha avuto l’azione di Domesticalchimia, compagnia fondata nel 2016 da Francesca Merli (regista), Elena Boillat (perfomer e coreografa) e Federica Furlani (sound designer
e musicista)  Intorno a questo nucleo, si
aggiunsero presto Camilla Mattiuzzo (drammaturga), Laura Serena (attrice) e Davide Pachera (attore).
Già con il primo lavoro, Il Contouring Perfetto, spettacolo prodotto con il sostegno di ERT Emilia
Romagna Teatro e Rami Residenze Artistiche, la compagnia risultò vincitrice del Festival“Avanguardie 20 30”. Sono seguiti nel 2018 Una Classica Storia d’Amore Eterosessuale, vincitore del Premio “Theatrical Mass” indetto da Campo
Teatrale e del Bando di Opera Prima Festival per la categoria nuove scoperte.
Si arriva così al successivo progetto La Banca dei Sogni, che 
si propone di raccogliere e documentare i sogni delle persone attraverso interviste audio e video, per poi trasformarli in materiali artistici da utilizzare in performance teatrali. Questo approccio permette di dare voce ai sogni individuali e di esplorare le loro connessioni con la realtà quotidiana e l’esperienza umana.
Questo lavoro d’inchiesta sull’attività onirica di persone di tutte le fasce d’età che collegandosi alla pratica del teatro documentario, si configura come forma artistica che combina elementi della realtà con quelli della rappresentazione teatrale, offrendo al pubblico come prospettiva di fondo, non immediata ma che si arriva a leggere chiaramente in controluce, una riflessione indiretta su tematiche sociali, politiche o esistenziali. Il progetto pur nelle difficoltà del tempo pandemico, ha avuto un particolare successo e molti teatri in diverse regioni italiane l’hanno sostenuto, “adottandolo”.
L’ultimo in ordine di tempo a chiedere alla compagnia un intervento sul proprio territorio è stato il Teatro Stabile del Veneto che ha ospitato gli artisti a Padova per un’indagine che ha coinvolto tra l’altro molte realtà e associazioni del territorio e che si è conclusa sia con la consueta restituzione spettacolare, sia con una partecipata tavola rotonda, tenutasi l’8 marzo dopo lo spettacolo, e a cui hanno partecipato oltre agli artisti (Merli, Serena e , anche docenti universitari (la prof. Cina e il prof. Cellini del dipartimento di psicologia e neuroscienze), esponenti dell’associazionismo coinvolti nel progetto (Sebastiano Rizzardi e Nicola Bernardi), coordinati nel dialogo da Diletta Rostellato del TSV.
L’intento è stato quello di riflettere, al termine della replica, insieme al pubblico presente sulle similitudini che esistono tra teatro e antropologia, tra teatro e psicologia, tra teatro e filosofia mostrando anche come l’interdisciplinarietà tra queste realtà all’apparenza così differenti, possa creare un’alleanza efficace, mettendo il linguaggio dell’arte a comunque denominatore.

Ispirate dall’omonimo libro degli antropologi J. & F. Duvignaud e F. Corbeau, che con i sogni hanno raccontato le tensioni di classe della società francese degli anni ‘70 e ‘80, Domesticalchimia ambisce con questa operazione a raccontare la nostra società, nel percorso esistenziale e anagrafico che va dal bambino all’anziano, una scansione temporale che si dà anche nello spettacolo, che evolve proprio per scene che raccontano l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta e la vecchiaia attraverso i sogni di persone anagraficamente coerenti con questo dato anagrafico.
Come si arriva a questo?
La compagnia ha intervistato bambine/i, adolescenti, adulte/i e anziane/i di Padova come di diverse città d’Italia prima di questa, da Firenze, a Milano, Novara, Treviso, Lecce e Trieste, ogni volta restituendo quanto raccolto con una nuova riscrittura scenico-drammaturgica.
L’idea non è quella di fare psicanalisi o interpretazione, ma di scattare una fotografia, o meglio una radiografia del nostro presente, condotta attraverso uno strumento che generalmente si considera intimo, captando le tematiche che riguardano ciascuna età della vita, dai sogni per il futuro alle prospettive del tempo del lavoro, fino alla progressiva decadenza che l’essenza vivente conosce nell’ultimo tempo dell’esistenza. Lo spettacolo, come forma di restituzione, diventa quindi una sorta di termometro della specifica comunità su cui il progetto si innesta, traendo spunto dai “sognatori” che Domesticalchimia incontra di volta in volta con la sua indagine.

Vengono quindi messe in scena storie vere di persone comuni, utilizzando spesso tecniche di intervista e testimonianza per creare uno spettacolo autentico e coinvolgente e a differenza che nelle altre città, qui la sperimentazione è stata ulteriore. Infatti il modulo creativo in origine prevedeva che i sognatori stessi fossero in scena. Qui invece Merli, da sempre affascinata dalla pratica cinematografica, crea un dialogo fra i due artisti in scena (Laura Serena, Marco Trotta).

In questa nuova formula, il teatro documentario di Domesticalchimia continua a evolvere, spingendosi oltre i confini tradizionali della rappresentazione scenica tal quale. Con i nuovi media disponibili, ma che già Piscator usava un secolo fa, gli artisti hanno a disposizione nuovi strumenti per raccogliere storie e testimoniare esperienze, creando spettacoli che si nutrono della partecipazione diretta del pubblico e si inseriscono nel contesto contemporaneo in modi sempre più innovativi e coinvolgenti. L’evoluzione storica del teatro documentario è stata caratterizzata da una costante ricerca di nuove forme espressive e di nuove modalità di coinvolgimento del pubblico. Da Piscator all’attualità, questa forma d’arte ha dimostrato la sua capacità di adattarsi e rinnovarsi, rimanendo sempre fedele alla sua missione di dare voce alle esperienze e alle testimonianze del contemporaneo.

Nel contesto dello spettacolo teatrale, i sogni diventano una fonte preziosa di ispirazione e materia prima per la creazione artistica. Gli attori, attraverso l’interpretazione dei sogni raccolti, offrono al pubblico una visione intima e personale di mondi interiori, trasformando le esperienze oniriche in narrazioni vivide e coinvolgenti. Attraverso l’uso di elementi scenici, come luci, suoni e movimenti coreografici, gli attori riescono a trasmettere l’atmosfera surreale e suggestiva dei sogni, invitando il pubblico a esplorare il proprio inconscio e ad interrogarsi sul significato profondo delle proprie visioni notturne. Qui, dal sogno professionale del giovane ragazzo la cui vita è stata attraversata dalla malattia, fino ai sogni del ragazzo Asperger e all’ipotetico dialogo per un’assunzione lavorativa, e poi alla vita segnata dall’esperienza traumatica del sisma di un giovane dalla doppia vita, fino alla signora che aiuta in una comunità i malati di Alzheimer, oltre la semplice rappresentazione artistica, come testimoniato anche dall’incontro dell’8 marzo, La Banca dei Sogni si pone come uno strumento di ricerca che consente di esplorare tematiche legate alla memoria, all’identità e alla percezione della realtà.

Nello spettacolo, attraverso l’analisi dei sogni, che a volta sono sogni lucidi sulle proprie speranze concrete di vita, e la loro trasformazione in materiale teatrale, il progetto offre uno spazio di riflessione e di confronto sulle dimensioni nascoste dell’essere umano. Si è generato così anche a Padova un dialogo aperto e profondo sulla natura dell’inconscio e sulle sue manifestazioni artistiche, e ovviamente molti esiti, pur venuti fuori nel dialogo con persone che hanno attraversato esperienze traumatiche/post traumatiche, non sono state poi portate in scena proprio per proteggerle e lasciarle in quello spazio di trasformazione affidato all’arte ma non reso pubblico con l’esito spettacolare. È bene chiarire che non si tratta di un’istallazione interattiva ma di un vero e proprio spettacolo, c’é una trama legata all’evolvere delle età della vita, attraversate da “personaggi” che sono sia gli “spettattori” (in questo caso partecipanti al progetto di indagine onirica) sia gli attori in scena, mentre la regia lavora oltre che alla resa cinematografica (invero particolarmente accurata e di qualità fotografica molto alta) anche al montaggio dei materiali esterni e alla presenza scenica dei due performer con drammaturgia site specific.

La Banca dei Sogni rappresenta un esempio di come il teatro documentario possa essere utilizzato per esplorare tematiche complesse, offrendo al pubblico un’esperienza artistica e sociale stimolante. Attraverso la fusione tra realtà e sogno, su cui la drammaturgia si apre e si chiude, collegandosi ad un’esperienza di messa in scena goldoniana e di una sua possibile adesione al reale, il progetto invita gli spettatori a immergersi in mondi interiori e a scoprire nuove dimensioni dell’esistenza, in un cortocircuito fra tempi, spazi e racconti, che si esalta nei tratti documentari, dimostrando così il potere illuminante dell’arte teatrale.

LA BANCA DEI SOGNI

Un progetto di Domesticalchimia
ideazione di Francesca Merli, Laura Serena
drammaturgia Matteo Luoni
regia Francesca Merli
con Laura Serena, Marco Trotta
in video Andrea Bortolami, Luisa Pasti, Enrico Balestra, Andrea Benetton, Guido Sciarroni, Khalil, Giusy Molena
indagine a cura di Matteo Luoni, Francesca Merli, Laura Serena, Marco Trotta
musiche Federica Furlani
disegno luci Francesca Merli
assistente alla regia e cura dei costumi Enrico Frisoni
riprese video, montaggio Stefano Colonna
foto di scena Serena Pea
produzione TSV – Teatro Nazionale
si ringraziano Casa Priscilla, Liceo Nievo, Stranger Teens Oncologico, Talents Lab Lego, Cucine Economiche Popolari, Associazione IASI pronto anziano, Associazione Alzheimer di Piove di Sacco, Università degli Studi di Padova – Dipartimento di Psicologia Generale , PADOV-HA!