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venerdì, Aprile 19, 2024
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Nicht schlafen: il Guernica di Alain Platel

RENZO FRANCABANDERA | Teatro Grande a Brescia. Stucchi dorati. Scena aperta mentre il pubblico entra in sala. Un gruppo di attori si muove silenzioso intorno ad una grande statua animale. Suono di campanacci. A fare da fondale un sipario slavato, che ha perso la tinta rossa a favore di un pallido color carne: un drappo caravaggesco passato per le mani di Alberto Burri, tali da provocare ampie sdruciture e consunzioni.

Leggermente asimmetrico rispetto al centro della scena, sulla sinistra domina sul palco una possente scultura di carattere iperrealista, raffigurante i corpi moribondi di due o tre cavalli, a gambe aperte e con la pancia rivolta agli spettatori, con il collo reclinato verso terra e a cui verranno bendati gli occhi con uno straccio, quasi a non guardare la loro esecuzione. Attorno a questo possente eyecatcher si muovono i nove danzatori e performer che Alain Platel ha scelto per Nicht schlafen, evocazione tragica di un’imminente fine del consesso umano, piegato e piagato dalle sue stesse miserie, dalle liti per impadronirsi dei suoi propri inutili stracci.

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I nove sono figure già incontrate nelle recenti creazioni di Platel, e qui ciascuno porta il suo codice di movimento. Riconosciamo, ad esempio, le due presenze di origine africana del brevilineo e magnetico Russell Tshiebua, e dell’altissimo e più esile Bule Mpanya, già incontrati nel bellissimo Coup fatal, visto in Italia a Bologna nel 2014 a Vie Festival: il Guardian li definì i “dandy di Kinshasa”, ed in quello spettacolo era assistente alla direzione artistica anche Romain Guion, qui in scena, insieme ad altri sei danzatori di origine arabo-europea, uno solo dei quali donna, Bérengère Bodin (anche lei in Italia con Platel per Torinodanza 2014, con Tauberbach. Allora come ora danzando con Elie Tass). Fra i nove anche il siciliano Dario Rigaglia.

Ma per questa nuova creazione, Platel ha selezionato artisti che hanno già lavorato al suo fianco anche fuori dal palcoscenico, come Steven Prengels (direzione musicale), Hildegard De Vuyst (drammaturgia) e Dorine Demuynck (costumi).
Nicht schlafen (non dormire) parte dall’ispirazione non solo musicale dell’opera di Gustav Mahler, ma anche dalla sua biografia, dal tempo e dai luoghi in cui ha vissuto.

Appena iniziato lo spettacolo i nove iniziano una strenua lotta che li riduce alla quasi nudità, con i vestiti fatti a brandelli. Se ne rivestiranno, in modo miserabile, in un mondo che abiteranno da straccioni fino alla fine, delineando u’ antropologia pre o postbellica non importa ma in cui il valore è la sopraffazione, l’incomunicabilità, l’ineluttabilità del confronto violento che non lascia spazio ad altro, e su cui si adagia per contrappunto, è proprio il caso di dirlo l’Adagietto della Sinfonia n 5 per i suoi 10 minuti di durata, con la stessa filosofia estetica con cui Ford Coppola aprì Apocalypse now con i larghi e, tutto sommato calmi, suoni dell’organo Hammond di The End dei Doors. Il riferimento è infatti certamente ai problematici anni del Ventesimo secolo che portarono alle grandi crisi e tragedie delle due guerre mondiali, ma anche al nostro tempo, che pare maturare nell’aria una grande e imminente catastrofe di cui siamo tutti consapevoli ma che attendiamo con ineluttabile fatalità. Il mondo di bestie al macello trova evocazione anche qui nella figura del cavallo, e rimanda all’immaginario della Guernica di Picasso, dove le vittime sono gli uomini (e ancor prima, negli studi, il toro in alto a sinistra), ma a spiccare e a catturare l’occhio è il cavallo, con i suoi occhi sgranati.

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Nella creazione di Platel dal forte impatto drammatico, domina un cromatismo omogeneo che grazie ai corpi nudi trasmette un’idea quasi bicromia senza esserlo, intensificata dall’assenza di altri elementi se non i corpi degli esseri umani e il complesso statuario, che riverbera nei visi sfigurati dalla progressiva stanchezza dei danzatori, chiamati ad una prova di energia, di racconto della nobiltà e fierezza dell’uomo piegate alla brutalità della guerra. Seguiranno per tutto lo spettacolo trasfigurazioni di momenti di pietà (altro tema caro a Platel) in un contesto drammaturgico in cui il regresso della società rimane palese e inarrestabile, con un rimando costante fra composizione coreografica e installazione bestiale. Notevoli in questo anche gli altri performer,  David Le Borgne, Ido Batash, Samir M’Kirech, con il primo a fare davvero da cavallo e gli altri due a realizzare un complesso sistema di movimenti scenici di cui sono comunque parte sempre tutti, sistema che tesse una trama di inarrestabile caos, che arriva finanche in platea nel finale e che persino quando diventa caos calmo comunica un senso di inquietudine assoluta.

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Un complesso di simboli coreografici perfetto quindi, quello di Platel, per esprimere le terribili conseguenze generate dal conflitto ma ancor di più dell’attesa di questo momento, dove rimane potente, per contrasto, l’ancestralità africana dei due performer Mpanya e Tshiebua che ad un certo punto intonano canti tradizionali. Il cavallo agonizzante durante la loro frenetica danza con le cavigliere africane indosso sembra richiamare quasi il destino biologico delle specie viventi, quella luce violenta e inesorabile della savana che travolge la notte fonda dell’uomo, quasi a voler spiegare la brutalità come elemento inscindibile dalla vita, su cui però la ragione dell’essere vivente non riesce ad avere il sopravvento.

La visione dello spettacolo, sconsigliata ai minori di 14 anni, trasmette, con le sue coreografie volutamente imperfette, apparentemente disordinate, una sensazione di fragilità della nostra forza di volontà, ci lascia con il fiato ansimante del cavallo all’ultimo respiro e, come il protagonista di The Revenant, cerchiamo riparo nella carcassa calda della bestia che vediamo morta ma di cui conserviamo nelle orecchie il respiro degli ultimi attimi. Che è forse quello che Platel vuole forse raccontare.

 

Nicht schlafen

Direzione Alain Platel
Composizione e direzione musicale Steven Prengels
Creazione e performance Bérengere Bodin, Boule Mpanya, Dario Rigaglia, David Le Borgne, Elie Tass, Ido Batash, Romain Guion, Russell Tshiebua, Samir M’Kirech
Drammaturgia Hildegard De Vuyst
Assistenza artistica Quan Bui Ngoc
Assistenza alla Direzione Steve De Schepper
Scene Berlinde De Bruyckere
Luci Carlo Bourguignon
Suoni Bartold Uyttersprot
Costumi Dorine Demuynck
Direttore di palcoscenico Wim Van de Cappelle
Fotografia Chris Van der Burght
Direttore di produzione Valerie Desmet
Tour manager Steve De Schepper
Produzione les ballets C de la B

Coproduzione Ruhrtriennale, La Bâtie-Festival de Genève, TorinoDanza, la Biennale de Lyon, L’Opéra de Lil-le, Kampnagel Hamburg, MC93 Bobigny Paris, Holland Festival, Ludwigsburger Schlossfestspiele, NTGent, Brisbane Festival
Distribuzione Frans Brood Productions
Con la collaborazione di: Città di Ghent, Provincia delle Fiandre Orientali, Autorità Fiamminghe

IMPLACABILE #1: Black Mirror stagione 3, ovvero “Grazie, non ci serve niente”

488-black-mirror-streaming.jpgALBERTO CORBA | Black Mirror è la ormai celebre serie antologica inglese, di genere Sci-fi, ideata da Charlie Broocker e prodotta da Endemol e Channel 4.
La prima puntata va in onda il 10 Ottobre 2012: racconta il rapimento di una rampolla della famiglia reale, per cui viene chiesto a titolo di riscatto che il primo ministro faccia sesso in diretta tv nazionale con una maiala.
No, non una maiala figuratamente intesa: una scrofa. L’episodio è talmente perfetto sotto ogni profilo che ogni venatura grottesca sfuma dietro angoscia, dramma ed un senso di sano disgusto. Rory Kinnear (già amato per Penny Dreadful e The Imitation Game) è un titano nel ruolo del primo ministro. Ci porta fuori da qualunque stereotipo scontato verso una realtà umana imperfetta, fragile, vulnerabile: crudelmente vera.
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Gli episodi sono narrativamente sconnessi: un’antologia per l’appunto. Storie, dialoghi e personaggi inediti e inquietanti. Ogni episodio esplora uno specifico sviluppo tecnologico, sociale o sociopolitico e l’impatto che esso ha su mondo che in fondo è anche il nostro. Black Mirror ha la capacità di presentarci un futuro dove la tecnologia che doveva renderci la vita più leggera è un aguzzino che ci tormenta, dove la società è degenerata in un abisso in cui abbiamo perso la nostra umanità a favore di un happy ending da reality show. Ci strappa dalla nostra zona di comfort e ci catapulta in follie in cui c’è una ragione. In quelle follie lo spettatore si agita scomodo sulla poltrona e capisce che forse non sta guardando veramente al futuro, sta esplorando la natura umana.
Gli episodi durano 50 / 60 minuti: il Maniaco Seriale mangerà la prima stagione di 3 episodi come un vol-au-vent al buffet di un matrimonio. La seconda stagione (sempre 3 episodi) si conferma magnifica e sconvolgente. Ci godremo lo speciale natalizio del 2014 come il regalo dark di cui non sapevamo di avere disperato bisogno. E dopo un anno sabbatico ad affamarci, grazie a dio vengono annunciate le stagioni 3 e 4!

Episodio 3.1, il primo di 6, viene rilasciato su Netflix il 16 Ottobre 2016.. La storia è quella di un mondo dove tutto è regolato da quanti “like” ottieni sul social network: l’idea è buona, come sempre, ma la narrazione stenta, ed in breve annoia: verso il minuto 15 sappiamo già tutto. Bryce Dallas Howard è bravina, ma già vista con gli stessi occhioni vuoti in mille fotogrammi di Shyamalan (guardatevi il sottovalutato Lady in the water e capirete). Nel complesso, comunque, un buon prodotto. La regia e la fotografia non perdono mai un colpo… c’è solo questa chiusa, troppo simile a un lieto fine. E anche un po’ troppo urlata, come se avesse bisogno di volume per essere ascoltata.
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Ma il Maniaco Seriale non si lascerà intimidire e vedrà gli episodi 2 e 3 … e gli altri. Cosa sono questi finali, se non felici, morbidi? Perché riesco a capire, di più, ad anticipare, ogni dettaglio dei personaggi e dei loro percorsi? Perché è tutto così… GIA’ VISTO?
Black Mirror era una perla (nera per l’appunto). Nel 2014 aveva chiuso un ciclo di 7 episodi col quale aveva superato una linea, morale prima che tecnica o stilistica. Aveva tutta la forza di un prodotto realizzato secondo un progetto creativo e non di marketing. Un colossale chissenefotte vomitato su statistiche e piani commerciali. Qualcosa che altre serie pseudo-intellettuali e pseudo-anarchiche come Sense8, Californication o Touch non hanno neppure mai sfiorato. Qualcosa che ci piaceva. La grande fregatura (per lo spettatore) e la carta vincente era che ogni episodio per definizione è autoconcludente: niente finali cliffhanger che poi il prossimo anno tocca spiegare come mai il protagonista è ancora vivo. Niente linee narrative aperte che adesso lo sa dio come far tornare i conti.
E allora perché produrre altri 12 episodi? Eravamo a posto, non ci serviva nulla!
Temo la risposta sia solo una… la cosa peggiore che possa accadere a qualunque serie indipendente e contro gli schemi: ha avuto successo.

Musica e serie tv – 2 – da Twin Peaks a Mad Men

imagesFABRIZIO PARENTI | Inizio questo secondo pezzo con un piccolo mea culpa: la volta scorsa ho dimenticato di scrivere di quella ch’è stata la madre di tutto ciò che vedremo dopo, la genesi del cambiamento nell’idea stessa di serie, quella che ha cambiato modo di scrivere, filmare e recitare, ovvero Twin Peaks. Ma l’ho dimenticata perché la suntuosa colonna sonora di Angelo Badalamenti non va nella direzione in cui andranno strada facendo le altre serie, ma resta nel campo delle costruzioni sonore di uno sfondo alla vicenda, senza mai entrare nelle dinamiche narrative e senza cercare gli accoppiamenti tra singolo pezzo e situazione. Badalamenti sta a Lynch come Herrmann sta a Hitchcock, le sue musiche sono di straordinaria atmosfera ma restano monolitiche, non vanno in direzione della trasversalità (e questo ragionamento varrà anche per Lost e la colonna sonora di Michael Giacchino).

quindi, dopo questa parentesi, riprendiamo il discorso da dove l’avevamo interrotto e andiamo nel 2007 quando debutta una protagonista del mondo seriale: Mad Men. Creata da Matthew Weiner, già tra gli autori de The Sopranos, di cui parleremo tra poco, diventa da subito un cult e conquista in poco tempo il pubblico e la critica per molti motivi tra i quali, e qui entra in gioco la musica, la raffinatissima ricostruzione storica. È forse la prima volta, se si tralascia lo strano caso di Life on Mars, che una serie viene contestualizzata storicamente; e sotto l’aspetto musicale la collocazione negli anni Sessanta permette all’ autore della colonna sonora, David Carbonara, di spaziare attraverso quel meraviglioso decennio musicale utilizzando tutto l’utilizzabile passando dal rock al folk, dal jazz alla lounge, scovando rarità e vere chicche. A queste si abbinano le musiche originali dello stesso Carbonara come quella dei title sequence che grazie anche alla grafica di Steve Fuller inizierà a creare il fenomeno della sequenza video clip, fenomeno di cui parleremo meglio a proposito di altre serie.

La colonna sonora è veramente notevole e si può finalmente parlare di musica intesa come materiale narrativo, di uso di tutti gli elementi possibili per costruire un prodotto ancora più sfaccettato e sottile, capace di coinvolgere il pubblico completamente in una sorta di ipnosi estetica.

Ma tornando un po’ indietro bisogna assolutamente parlare anche de l’altra serie che vede Weiner tra gli autori, The Sopranos. Qui anche viene fatto un grandissimo passo avanti sopratutto perché il supervisore alle musiche, l’autore David Chase, si affida quasi completamente per le scelte a Steve van Zandt, anche tra gli interpreti, chitarrista della E Street Band di Bruce Springsteen, quindi non un autore di musica per cinema e tv ma un vero rocker, uno che affonda nella materia con un approccio totalmente diverso dal passato. Si crea infatti un interessantissimo percorso che miscela diversissime ispirazioni e che interagisce perfettamente con la materia della serie.

C’è come nota dominante il blues ma tutto ha un grande sapore di contemporaneità, mai di nostalgia, e anche questo sarà un cambiamento irreversibile.
Ora concluderei qui, anche perché prima di parlare della prossima serie, bisogna chiudere gli occhi, concentrarsi e fare un lungo respiro, come si fa davanti ai grandi esercizi sportivi; infatti nel prossimo pezzo entreremo in una delle serie più sconvolgenti della storia delle serie, Breaking Bad.

Eros motore del mondo: la tormentosa Beatitudine di Fibre Parallele

ELENA SCOLARI | “Sta tutto nella vostra testa, sta tutto nella vostra testa”. Così ripete il mago pastore Cosma Damiano. Ma non è un personaggio di Haruki Murakami, che popola di uomini pecora i suoi romanzi, è invece il ruolo demiurgico che Mino Decataldo interpreta in La beatitudine di Fibre Parallele.
Il suo nome unisce i due santi medici Cosma e Damiano, fratelli nati a Costantinopoli e facili alle guarigioni miracolose, diffusamente venerati in Puglia, la regione d’origine della compagnia.
Tramite il mago lo spettacolo propugna l’idea che il teatro sia una truffa (idea già cara a Diderot, per precisione storica) poiché costringe il tempo e lo spazio dentro una finzione, e con gli attori gli spettatori sono prigionieri consenzienti di questo inganno.
Nulla ci vede più d’accordo, cari lettori. Già altre volte abbiamo esposto la nostra profonda convinzione che entrando in teatro lo spettatore firmi un tacito accordo di connivenza con gli attori, promette che crederà a ciò che vedrà. Un falso dichiarato che diventa più vero del vero. Sta tutto nella nostra testa, appunto.

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La geometria de La beatitudine è composta da due coppie (più il mago): una madre affettuosamente opprimente col figlio in carrozzella (Lucia Zotti e Danilo Giuva) e due coniugi (Licia Lanera e Giandomenico Cupaiuolo) legati da un figlio fantasma, un bambolotto di plastica per sostituire il loro bambino nato morto.

Le cose non vanno granché bene né di qua né di là: il figlio disabile ha problemi sia con l’ascensore sia con mammà, che tanto bene gli vuole ma non sa capire che ormai è un uomo e vuole la sua libertà, nell’altra coppia è facile immaginare che l’architettura di una famiglia costruita sulla tragicomica presenza di un figlio manichino non può che sgretolarsi e portare guai. Primo perché il suddetto bambolotto si ostina a non aprir bocca per mangiare e poi perché i due non vanno più a letto insieme, lui non lavora e lei passa molto tempo al centro di volontariato. Chiaramente per dare il suo amore di madre mancata. A tutti i bisognosi tranne che al marito. La beatitudine del titolo è una fuggevole chimera.

Potrebbe sembrare un dramma borghese in salsa pugliese, ma La beatitudine è più originale, il modo in cui le due coppie fatalmente si incontrano e si intrecciano è ironico, poetico, simbolico e un po’ assurdo. E sarà frutto di una profezia del mago pastore.
La donna più giovane si invaghirà dell’uomo in carrozzella conosciuto al centro, in una scena cardine cercheranno di consumare il loro desiderio in un comico amplesso funestato dalle scomodità di cervicale e sedia a rotelle. La vecchia madre e il giovane marito disoccupato si incrociano invece per ragioni di pedinamenti, saranno cola-beatitudine-4_rosaria-pastoressalpiti da insolita passione e la splendida 80enne Lucia Zotti si lancerà in uno spogliarello travolgente e gioioso.

Tutti gli attori sono bravi: Licia Lanera è carnale, focosa, volitiva e divertente, Lucia Zotti è radiosa e leggiadramente canzonatoria, entrambe mostrano i loro corpi forti di verità, Giandomenico Cupaiuolo è cinico e irridente nel suo essere indolente e incazzato, Danilo Giuva è inquieto e seducente e il mago pastore di Mino Decataldo è un vaticinatore visionario e distaccato.

La scena è occupata solo da un tavolo, il desco di un nucleo familiare fasullo, una pila di piatti vi campeggia, presagio di rottura. Tutti sono vestiti di nero e dietro di loro è proiettata la scritta beatitudine in un corsivo elegante. Uno spazio riempito dalla prorompente presenza umana dei personaggi, carichi di una tensione che sentiamo esploderà.
La scrittura scenica di Lanera e Spagnulo è bella, il testo e la regia donano carattere preciso ai ruoli e compongono una struttura di dialoghi che guida nelle nevrosi e nelle debolezze delle quattro “pecorelle”, mosse dal mago/pastore demiurgo.

Gli attriti tra i personaggi, evidenti fin dall’inizio, deflagrano in un finale dove tutto va in frantumi: i piatti, i rapporti, i sentimenti, le vite e le certezze.

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L’eros, la spinta naturale verso il sesso come unica forma di  espressione vitale e vera finisce qui in un gorgo tragico, in cui tutti soccombono ai propri istinti e in cui la fragilità fragorosa dell’irreale è mostrata a suon di cocci scaraventati.
Un finale talmente chiaro che non avrebbe bisogno delle spiegazioni che invece ci vengono date, il mago Cosma Damiano chiude lo spettacolo con una chiosa superflua, si sa che un Demiurgo non ha bisogno di parole. La beatitudine è un pensiero penetrante e incisivo sul senso del teatro e sulla consapevolezza di quanto questa finzione ci sia necessaria.

La beatitudine, visto al festival Wonderland di Brescia, organizzato da Residenza I.DRA.

di Licia Lanera e Riccardo Spagnulo
drammaturgia Riccardo Spagnulo
con Giandomenico Cupaiuolo, Mino Decataldo, Danilo Giuva, Licia Lanera, Lucia Zotti
luci Vincent Longuemare
spazio Licia Lanera
assistente alla regia Ilaria Martinelli
tecnico di palco Amedeo Russi
foto Rosaria Pastoressa
organizzazione Antonella Dipierro
regia Licia Lanera
produzione Fibre Parallele, coproduzione Festival delle Colline Torinesi, CO&MA Soc. Coop. Costing & Management e con il sostegno di Consorzio Teatri di Bari – Nuovo Teatro Abeliano

L’amichevole volto del fascismo: Domini Públic al Castello Sforzesco di Milano

cwfzc0uwgaqbft8ANDREA CIOMMIENTO | C’è uno spazio pubblico, il Cortile della Rocchetta al Castello Sforzesco di Milano, che prende vita grazie a una performance nella quale ogni spettatore ascolta domande in cuffia. Le sue risposte possono manifestarsi solamente con il movimento (spostandosi verso destra e sinistra) e il gesto (espressioni facciali e uso delle mani, braccia e piedi). Qui il dominio del pubblico è sovrano e unicamente condotto da una voce registrata, senza la presenza di attori. L’unico patto è stare lì, cento persone in un unico luogo aperto, e farsi coinvolgere tra la dimensione reale e immaginaria.

Potremmo definire questo tipo di esperienze “teatro partecipativo” o ancora “teatro immersivo”, ma oltre alle definizioni teoriche Domini Públic del catalano Roger Bernat è anzitutto una produzione collettiva legata ai dispositivi del potere e alla manipolazione dell’individuo.

L’inizio è semplice, graduale, con domande elementari, che fanno scoprire visivamente chi è con chi in piccoli gruppi riconoscibili per appartenenze provvisorie legate alla risposta data. Poi il pubblico riceve – in base alle proprie risposte – una casacca, definendosi stabilmente in gruppi di appartenenze per colore: i blu sono poliziotti, i rossi prigionieri e i gialli la croce rossa. Da qui in avanti le atmosfere si rendono cupe e al contempo ironiche, grottesche e contradditorie. Gli spettatori sono indotti dalla voce registrata a inseguire altri spettatori, intervenire per dividerli, salvarli o prendersene cura; solo alcuni si sdraieranno al suolo come in una battaglia senza sangue. L’arco drammaturgico si chiude al coperto: i cento performer/spettatori si ritrovano davanti a un plastico in miniatura con pedine dalle sembianze umane e una proiezione video dello stesso plastico. Ora il pubblico può solo ascoltare l’ultima lista di domande, ultimi istanti per rielaborare la manipolazione avvenuta fino a quel momento.

In quello che abbiamo raccontato fino ad ora non c’è nulla che riguardi l’animazione o semplicemente una dimensione ludica dell’esperienza. Certo è che lo spettatore ascolta, si muove, reagisce a ogni domanda in forma individuale e collettiva, ma mai legata a un gioco d’intrattenimento. Potremmo sentirci in un luna park che si converte gradualmente in una “dittatura dei balocchi”. Si percorre un lieve senso di minaccia in cui qualcosa sta per succedere, realmente. Questa sensazione predispone i corpi dei presenti; li rende vivi e attenti con il proprio movimento. Qui il performer è lo spettatore stesso, vicino a quello che oggi viene definito prosumer intendendo un’identità ibrida tra consumer (consumatore di contenuti) e producer (produttore di contenuti).

bernat_zonak11-667x444In Domini Públic ci sono regole, come in un gioco, dinamiche di gruppo e di branco, come in un gioco, norme di comportamento indotto, come in un gioco. Ma ciò che il pubblico vive ha il gusto dell’amichevole volto del fascismo (ndr, “The Friendly Face of Fascism” è il nome della compagnia di Bernat) all’interno di una ricerca sull’estetica della percezione.

Cosa accade nell’immaginazione di chi partecipa? Può l’identità di un individuo cedere in favore del dominio collettivo sul singolo o sulla minoranza? Come potremmo definire l’intervento dell’autorità sul singolo sprovvisto di strumenti critici? Se Brecht invita intellettualmente a scegliere, a perseguire la propria scelta critica e a prendere posizione sul mondo, qui Bernat e il suo TFF invita concretamente a un posizionamento fisico, a una scelta fisica nel mondo.

Il lavoro di Roger Bernat è arrivato a Milano grazie a Zona K, centro milanese delle arti performative che in questi anni sta sperimentando una particolare forma di programmazione artistica non legata unicamente al proprio spazio nel quartiere di Isola, vicino a Porta Garibaldi, ma diffuso in una rete di ospitalità in luoghi cittadini, come in un questo caso al Castello Sforzesco, o nel caso degli Agrupacion Serrano all’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini con “Birdie”. La performance si inserisce all’interno di una retrospettiva legata alla Scena contemporanea catalana con spettacoli, proiezioni video, incontri in città dal 26 novembre al 4 dicembre. Tutte le info sul sito www.zonak.it

Domini Públic (Roger Bernat)
Ideazione, direzione e testo Roger Bernat/FFF; coordinamentoHelena Febrés; una produzione La Mekánica / Apap (advancing performing arts projects), Teatre Lliure / Centro Párraga / Elèctrica Produccions, con il sostegno di Generalitat de Catalunya / Entitat Autònoma de Difusió Cultural – departament de cultura i mitjans de comunicació / Unione Europea / Programma Cultura 2007-2013; con il sopporto de Ministerio de Educación, cultura y deporte_INAEM; www.rogerbernat.info

 

Il Paradiso degli Idioti: La Ballata dei Lenna a due o quattro zampe?

VALENTINA SORTE| Partiamo dal titolo. Ma quale? Quello ufficiale, Il Paradiso degli idioti, o quello che all’interno dello spettacolo gli fa da controcanto, ovvero il Paradiso degli eroi? In altre parole, chi abita il Paradiso de La Ballata dei Lenna: degli idioti o degli eroi? La questione non è banale.

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Da una parte c’è Andrea (Nicola Di Chio) che, dopo la morte del padre, è alle prese con la sua prima sceneggiatura “Il Paradiso degli eroi”, appunto: una saga cinematografica di supereroi che daranno il via ad una nuova era dell’umanità, la cui scena madre prevede l’uccisione di Adamo ad opera di una Donna-Scimmia. Il suo paradiso è a tutti gli effetti un universo parallelo, sovraccarico di simboli e di evasione, in cui si riversano i goffi tentativi di un trentenne di gestire l’eredità dei padri.

A irrompere in questo microcosmo immaturo e galvanizzato, dal lontano Canada, è la sorella Sonia, rientrata in Italia per leggere insieme al fratello il testamento morale lasciato dal padre prima di morire. Sonia, a differenza di Andrea, ha i piedi ben piantati a terra. Fin troppo. È un’artista visiva molto spregiudicata, pronta a travalicare qualsiasi limite etico pur di affermarsi. Realizza cioè vere e proprie statue viventi, ricorrendo alla più estrema chirurgia estetica: allungamento o accorciamento degli arti, amputazioni, sbiancamento della pelle. Una sorta di ORLAN ancora più radicale.

Le loro sono due forme di iperrealtà agli antipodi. La prima per difetto di realtà, la seconda per eccesso. Due deliri di onnipotenza che devono però fare i conti con un mondo tutt’altro che eroico, fatto di fallimenti e disillusioni.

Innanzitutto non esiste alcun testamento. Andrea si è inventato tutto per costringere la sorella a tornare, assente anche ai funerali di famiglia. Il messaggio è forte lo stesso: il padre non ha lasciato alcuna eredità morale ai figli. Una lezione dura quanto quella di Cristian Mungiu in Bacalaureat. Solo che qui, nemmeno i figli si salvano. I due fratelli sono infatti due figure antieroiche e senza riscatto, incapaci di prendere in mano la situazione o di gestire anche solo simbolicamente l’uccisione dei padri. Idioti?

Questa ambivalenza si ritrova anche nella partitura scenica. Lo spettacolo viaggia su due registri molto leggibili: quello più onirico e performativo che trova piena espressione nel gesto e nelle immagini, e quello più realistico e narrativo che prende forma nei dialoghi e nell’uso degli oggetti. Sicuramente quello più riuscito è il primo, grazie ad un bravissimo Francesco Marilungo nei panni di Adamo e alla capacità visionaria di Paola Di Mitri (alla regia) di comporre dei quadri surreali ma sempre equilibrati, e di scivolare con disinvoltura in cornici più realistiche, curando molto bene le transizioni dagli uni alle altre. E viceversa.

Due sequenze molto riuscite sono senza dubbio quelle legate alle metamorfosi di Adamo. All’inizio dello spettacolo vediamo Marilungo uscire da un cellophane uterino con un rosso cordone ombelicale, alla cui estremità è fissato un microfono. Questo microfono/cordone sarà la sua estensione cognitiva ed empirica, una protesi tattile e percettiva del mondo che userà per esperire sé e gli altri. Una riscrittura scenica della Fenomenologia della Percezione di Maurice Merleau-Ponty.

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Altrettanto suggestiva è la lenta trasformazione di Adamo nelle fattezze di un asino, sia nelle movenze del corpo che nella comparsa di orecchie posticce, se non addirittura di una maschera d’asino. L’andatura bipede cede il posto alle quattro zampe, lasciando intravedere interessanti ibridazioni morfologiche uomo-scimmia-asino degne del Codex seraphinianus. Anche Miriam Fieno nei panni dell’eccentrica artista in preda ad un vero e proprio delirio creativo ci regala una sequenza molto energica, dove il senso di sproporzione e l’eccesso riescono attraverso il gesto ad alleggerire e ritmare la narrazione.

Il Paradiso degli idioti è un lavoro interessante e ricco di potenzialità che può migliorare certamente sotto due aspetti. Per prima cosa deve mirare ad un maggiore equilibrio tra la texture drammaturgica e la scrittura scenica. I dialoghi risultano a volte eccessivi o poco efficaci, perché prevedibili o non essenziali allo sviluppo della storia o dei personaggi. Il rischio è infatti di appesantire una scena che vive al contrario nelle parti più performative. Togliendo tutto ciò che è superfluo, la composizione acquisterà di certo un ritmo più fluido e godibile. Anche perché La Ballata dei Lenna ha uno spiccato linguaggio visivo, sia nella scelta dei costumi che delle scenografie. Forte ad esempio l’idea di usare delle buste di plastica appese a lunghi cordoni ombelicali per costruire una parete divisoria fra l’interno della casa e l’esterno o per avvolgere gli oggetti in scena. Bravi quindi Valentina Menegatti, Eleonora e Lucio Diana.

In secondo luogo, è vero che lo spettacolo gioca sull’esplicita sovrapposizione di simboli e sulla capacità di rovesciarli, prendendoli per quello che sono ma anche distaccandosene con uno sguardo più ludico, ma la sensazione finale è quella di un eccessivo accumulo di segni non del tutto funzionale alla struttura dell’opera. L’operazione è pericolosa perché invece che aggiungere livelli di lettura e arricchire il lavoro finisce col depotenziare e soffocare i singoli elementi.

Detto questo, La Ballata dei Lenna non se l’è cavata affatto male. Dopo i primi spettacoli nati dalla collaborazione con Michele SanteramoLa protesta, Cantare all’amore e Realitaly – questo è un primo esperimento “solista” che fa intravedere la ricerca di un codice espressivo più personale e specifico, e di certo da seguire nella sua evoluzione.

IL PARADISO DEGLI IDIOTI

con Nicola Di Chio, Paola Di Mitri, Miriam Fieno, Francesco MariIungo

drammaturgia e regia Paola Di Mitri

scene Eleonora Diana, Lucio Diana

costumi Valentina Menegatti, 

con il sostegno di KILOWATT FESTIVAL, TEATRI DI BARI, TEATRO KISMET OPERA

Visto ad Arcene, all’interno della rassegna E.T. extra teatro – teatro in luoghi insoliti organizzata da Qui&Ora Residenza Teatrale

“Corpus Hominis”: l’esposizione della bellezza secondo Enzo Cosimi

enzocosimi_corpushominis-3SILVIA FERRARI | Enzo Cosimi ci dice che la bellezza è ovunque, soprattutto dove ci dimentichiamo di cercarla. Dal 2015 sta lavorando su una trilogia intitolata “Ode alla bellezza. Trilogia sulla diversità”, un lavoro intenso e non facile che prova a portare lo sguardo oltre le apparenze. Dopo “La bellezza ti stupirà” (prodotto l’anno scorso in esclusiva per Cagliari Capitale italiana della Cultura 2015 e dedicato ai senzatetto) la seconda parte della trilogia, “Corpus Hominis”, è stata ospite sempre nel capoluogo sardo per Autunno Danza, festival dedicato alla danza e alle arti performative che da più di vent’anni è diretto da Momi Falchi e Tore Muroni: una delle vetrine più importanti per la danza in Sardegna e non solo.

“Corpus Hominis” è un’offerta sacra fin dal titolo: al centro della scena ci sono i corpi nudi di due uomini (Matteo Sedda e Lino Bordin), rappresentanti inermi di età diverse e di un diverso modo di viversi e vivere l’amore omosessuale. Esibiti, esposti, soli, i due uomini sono offerte sacrificali allo sguardo del pubblico. Fin dall’ingresso nello spazio scenico (lo straordinario spazio dei Grottoni di Cagliari), lo spettatore ha l’impressione di assistere ad un rito intimo di cui è nello stesso tempo complice e voyeur. Si entra al buio, in silenzio, cercando discretamente di trovare il proprio posto in uno spazio non predisposto secondo i canoni tradizionali: non ci sono sedie, non c’è definizione dello spazio scenico, non c’è delimitazione dei confini né tra interpreti e pubblico, né tra gli stessi spettatori.
Alcuni spettatori stanno in piedi, altri si siedono, si cerca di incastrarsi, di trovare la posizione migliore. Non sempre il risultato è comodo. L’effetto, si direbbe, è voluto: ci si ritrova un po’ impacciati, un po’ imbarazzati a osservare una performance che via via diventa metaforicamente anche un gioco di ruoli. Chi è davvero lo spettatore? Che cosa sta osservando? O forse si dovrebbe dire, che cosa sta spiando?

Il corpo di Lino Bordin è il primo traguardo della vista dopo il buio iniziale. Un accendino compone lentamente l’immagine di una nudità antica, quasi statuaria nel suo essere coperta da un telo, composta di rughe e pieghe che sono saggezza e solchi di esperienze e rivoluzioni cercate. A illuminare il corpo a pezzi interviene presto la torcia di un cellulare, citazione efficace di un voyerismo contemporaneo che riporta allo schermo come mezzo “spiatorio”, mai espiatorio. Qui lo spettatore si ritrova interpellato suo malgrado, rappresentante di una società indifferente, complice inconsapevole di un’analisi quasi violenta del corpo anziano. Ogni parte viene illuminata, esibita. È bellezza, ma bellezza che richiede uno sguardo nuovo, non estetico nel senso contemporaneo del termine, ma etico. E il fatto che Bordin sia un non professionista, un ex funzionario delle Nazioni Unite prestato, concilia la verità, la rende incredibilmente credibile.

D’improvviso il gioco si rovescia insieme alle luci e protagonista diventa il corpo dell’intenso Matteo Sedda, estremizzato interiormente ed esteriormente. C’è aggressività e fragilità nel suo assolo, c’è pulsione erotica e animale, paura e abbandono. I movimenti, violenti, sono canalizzatori di un’energia che rappresenta vigore, ma anche disagio. Anche qui la sensazione per lo spettatore è quella di un senso di colpa sotterraneo: ci si trova di fronte ad un’esposizione che genera quasi imbarazzo. Davvero possiamo assistere a così tanta esibizione d’anima oltre che di corpo?

Come di fronte alla tenerezza antica di Bordin, così di fronte alla violenza di Sedda, lo sguardo rimane sospeso, impacciato. Il passaggio successivo è un passo ulteriore nella creazione del sacrificio: l’immagine della Pietà, ricostruita con il corpo di Bordin che si fa Cristo e quello di Sedda che lo sostiene, lascia disarmati. C’è in quest’immagine scolpita sotto gli occhi del pubblico tutta l’intensità dell’amore, del dolore, del sacrificio dell’omosessualità vissuta oggi, nell’età matura (che è il tema portante della performance), ma in fondo, ancora purtroppo a qualunque età.

Cosimi non si ferma qui. Lascia solo il pubblico di fronte a un video che amplifica le mille domande che i due interpreti lasciano risuonare nella mente: immagini di violenze, di rivolte, di sassi scagliati contro l’omsessualità, di sesso esplicito. “What’s the point of a revolution?” è la domanda finale.
La risposta, prima ancora che lo spettatore possa elaborarla, sembra arrivare dalle voci delle interviste che risuonano in sottofondo, a scena vuota: le voci e i racconti di uomini in età avanzata provenienti da tutta Italia che portano la loro esperienza di omosessualità vissuta per un’intera vita o scoperta in tarda età, per necessità o libertà finalmente conquistata.
La rivoluzione (e anche la bellezza), sembra dirci Cosimi, è ovunque, anche dove non ce l’aspettiamo. Risiede trionfante dove c’è il coraggio della verità.

CORPUS HOMINIS
Ideazione, regia, coreografia: Enzo Cosimi
Immagini: Lorenzo Castore
Performer: Matteo Sedda, Lino Bordin
Disegno luci: Gianni Staropoli
Video: Stefano Galanti
Sound design: Enzo Cosimi
Montaggio suono e foto: Niccolò Notario
Cura spazio scenico: Enzo Cosimi, Gianni Staropoli
Organizzazione: Flavia Passigli
Produzione: Compagnia Enzo Cosimi e MIBACT
In collaborazione con: Festival Danza Urbana, Festival Teatri di Vetro
Con il sostegno per le residenze di: Armunia
Si ringraziano: Gender Bender e Il Cassero GLBT Center, Angelo Azzurro Circolo Mario Mieli
Produzione: 2016

Visto a Cagliari all’interno di Autunno Danza 2016

Alla deriva del teatro: l’Amleto di Roberto Latini/Fortebraccio

ESTER FORMATO  |  Amleto + die Fortinbrasmaschine è – come scritto nelle note di regia –  una riscrittura di una riscrittura che Heiner Müller fece dell’Amleto. Più che riscrittura, in realtà l’Hamletmaschine mulleriano risulta essere una scomposizione dell’opera scespiriana, organizzata in cinque episodi nei quali la scrittura scenica assorbe frammenti degli atti originari della tragedia tessendoli attraverso un’ottica estraniante. Si direbbe – leggendo il testo – che gli occhi del presunto Amleto e della presunta Ofelia sono fissi su uno scenario quasi apocalittico dell’Europa degli anni ’70  in cui Müller vive e scrive  e, in questo luogo e tempo, hanno smarrito la loro parte, il senso del proprio essere all’interno del dramma e procedono disarticolati verso un punto estremo della narrazione teatrale.

Ora, a noi pare che il lavoro di Fortebraccio Teatro, scritto ed interpretato da Roberto Latini, trovi la sua ragion d’essere proprio nella ricerca fra Müller e Shakespeare sul ruolo di Amleto e di Ofelia all’interno del contesto drammatico di riferimento. Latini riprende difatti ulteriori versi dal bardo inglese, reintegra nell’architettura mulleriana altre suggestioni dall’Amleto al fine di compiere un riscrittura altra che, messi da parte i riferimenti dell’Europa di quaranta fa, si focalizzi sullo scardinamento ruolo/personaggio e personaggio/attore.

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Io non sono Amleto. Non recito più alcun ruolo. Le mie parole non dicono più niente.” Latini, non a caso, inizia il suo Amleto + Fortinbrasmaschine con questa battuta che è presente nell’episodio IV di Hamletmaschine. Da un angolo buio del fondo dell’assito dove siede, la sua figura avanza per poi sfiorare lentamente la quarta parete. Microfoni differenti, disposti in diversi punti del palco, sono pronti ad accogliere la sua voce, accompagnata dalla tensione dei muscoli che investe l’intera scena di una corporeità eloquente. La sua voce, dunque, si sfibra nelle onde sonore modulate dalla sofisticata intelaiatura che veicola l’audio, trasmettitore delle variazioni tonali, che non può essere scisso dalla drammaturgia stessa. Del resto è nello stesso lavoro vocale e verbale che si coglie la fragilità che intercorre fra attore-personaggio, l’incapacità di riconfigurare con coerenza una tragedia, e quindi di recuperare parti e  personaggi ben netti, funzionali allo svolgimento regolare di un dramma familiare ed individuale insieme. Mantenendo la struttura episodica di Müller, Latini conduce la sua riflessione sul teatro e sulla relativa funzione, sfiorandone un punto di disfacimento.

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Ich bin Fortinbras/ich war Hamlet”; “Ich bin Fortinbras/ich war Ophelia”; “Ich bin Fortinbras/ich war Polidoro”, sono queste relazioni duali che scandiscono le parti dello spettacolo, scindono l’attore dal personaggio mediante i due tempi differenti del verbo essere, disarticolandone l’unità. Fortebraccio è in “Amleto + Fortinbrasmachine” il perno centrale da cui muovono le due “maschere” Amleto e Ofelia, punto di origine di una finzione scenica che smaschera se stessa. Del resto, chi è Fortebraccio? Fortebraccio allude a Fortebraccio Teatro, quindi alla idea di teatro che sottende questo lavoro; Fortebraccio è il testimone ultimo della tragedia del principe di Danimarca. Non solo. È un neo-usurpatore che rivendica il passaggio per la Polonia, nel tentativo di riconquistare i territori sottratti al suo genitore dal padre di Amleto. È – alla fine – l’unico sopravvissuto di una famiglia reale, orfano, erede illegittimo. È un tema secondario, spesso espunto, rispetto al dramma familiare sul quale, ora, riusciamo a percepire il suo sguardo esterno si, ma sempre pregno di una condizione di orfano.  Difatti, buona parte dello spettacolo di  Latini s’incentra sulla rivendicazione della filiazione che in Amleto diventa lacerante questione, specie nel terzo atto. Lo scontro fra Amleto e Gertrude, lo sdoppiamento metaforico di questi  nelle figure di Polidoro e di Ecuba, l’emblematica Ecuba del monologo che chiude il secondo atto;  difendere la madre dalla guerra della sua anima, vendicare suo padre e uccidere suo zio; azioni che significano per Amleto essere non più figlio, ma padre, adulto. Balzo che egli non riuscirà a compiere, lasciandosi in una condizione di orfano, di figlio quasi illegittimo, maschera scomposta attraverso lo sguardo di Claudio; è lo smembramento di una struttura naturale – la famiglia legittima – che riflette, quindi, lo scardinamento della forma teatrale in mutevoli flussi concretati nelle voce complessa e ricca di Roberto Latini.  Di contro Ofelia, quasi alter-ego dello stesso Amleto, una Cassandra in questo vuoto spazio scenico attraversato da onde sonore.

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“Accordare l’azione alla parola e la parola all’azione” recita ad un certo punto Roberto Latini che dà vita ad un flusso che accumula detriti, quelli dell’espressione teatrale, per condurli alla deriva. Eppure – infine – alla convinzione che le parole non dicano più niente, l’attore, oltre la sua maschera, ritrova dinanzi qualcuno che di fianco “fa quel che può” per porsi in suo ascolto. Quando si è alla deriva non si ritorna indietro, ma si procede forse verso un ulteriore punto di non ritorno, nuovo e inesplorato. Questo è Fortebraccio Teatro che torna a confrontarsi con un’idea per certi aspetti già sdoganata in Ubu Roi. Ma lì era proprio l’opera complessiva nella sua forma e nel suo linguaggio che suggeriva una visione entropica del teatro, un limite che coincideva con l’esaurimento definitivo dell’avanguardia e della sua annessa sperimentazione. In Amleto + Fortinbrasmaschine siamo invece catapultati dentro una soluzione drammaturgica estrema e contratta,  che rinviene nella lente della duplice riscrittura – peculiarità ma anche ragione di una minore intellegibilità – non più la forma, ma il fluttuare della parola in uno spazio ormai orfano di forme fisse e stabili con le quali rappresentare il nostro presente e futuro: “Il dialogo con i morti non deve interrompersi fino a che non ci consegnano la parte di futuro che è stata sepolta con loro”.

AMLETO + DIE FORTINBRASMASCHINE
Versione Radio
di e con Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
scena Luca Baldini
luci e tecnica Max Mugnai
drammaturgia Roberto Latini Barbara Weigel
regia Roberto Latini
produzione Fortebraccio Teatro                                                                                                            
foto di scena Fabio Lovino
in collaborazione con L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino; ATER Circuito Regionale Multidisciplinare-Teatro comunale Laura Betti; Fondazione Orizzonti d’Arte con il contributo di MIBACT e Regione Emilia Romagna.

 

Il mondo di G.R.R. Martin, le storie di Westeros

NANE CANTATORE | Uno scrittore di fantasy o, come vogliono farsi chiamare quelli seri come G.R.R. Martin, di “imaginative fiction” è, innanzitutto, un creatore di mondi. Martin stesso lo dice, nei suoi consigli ad aspiranti scrittori: “non scrivete nel mio universo, in quello di Tolkien, della Marvel, di Star Trek o in qualsiasi altro sfondo preso in prestito. Usare un mondo altrui è da pigri; se non utilizzate i vostri muscoli letterari, non li svilupperete mai” (LINK). Scrivere è inventare, e inventare è costruire mondi, prima ancora che immaginare storie.

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La migliore rappresentazione di questo tipo di invenzione letteraria, allora, non è data dalle opere letterarie stesse, ma da un genere peculiare di letteratura secondaria: l’enciclopedia, l’atlante, il repertorio di mondi immaginari. Nel caso del mondo del ciclo più celebre di Martin, ovviamente, si tratta di AWOIF (LINK), A wiki of ice and fire: un’enciclopedia del mondo dei romanzi e della serie TV, in cui le opere fanno da fonti canoniche per compilare le voci, ma queste hanno tutta l’autorevolezza dell’enciclopedia, per cui una volta messe giù e controllate definiscono in modo preciso la realtà che descrivono.

A questo punto, allora, le discrepanze tra la trama dei libri e quella della serie televisiva passano in secondo piano: l’importante è che il mondo sia lo stesso, per esempio che Braavos sia sempre una Venezia in mezzo a una laguna accessibile soltanto passando sotto le gambe del Colosso, o che gli abitanti delle Summer Islands non siano biondi con gli occhi azzurri e la pelle diafana, e le vicende dei diversi personaggi possono passare in secondo piano. Per meglio dire, è perfettamente accettabile che, per esempio, Stannis Baratheon sia stato sconfitto da Ramsay Bolton e ucciso da Brienne nella quinta stagione della serie e nel quinto volume sia ancora vivo e pronto a combattere con Ramsay nell’attacco a Dreadfort (non a Winterfell, che nei romanzi è stata distrutta). Lo è perché si tratta di varianti divergenti, come accade in ogni mitologia: Odisseo può essere figlio di Autolico o di Laerte, Ifigenia può essere morta in Aulide o sostituita all’ultimo momento con una cerva e portata in Tauride, tutto dipende dalla versione che piace di più.

Che la coerenza fondamentale sia quella del mondo, del resto, lo hanno capito bene Benioff e Weiss, gli autori della serie televisiva, che hanno deciso di ribadirlo, una volta per tutte, in un elemento centrale del cosiddetto paratesto, vale a dire nella sigla: come ogni romanzo della saga, prima di iniziare, mostra una cartina di Westeros e di Essos, così la famosa sigla ci fa vedere in quali parti del mondo inventato da Martin ci porterà il plot dell’episodio. Il mondo è lo stesso, ma la narrazione procede per linee diverse, dovute tanto al diverso medium, quanto alla differenza di talento e di obiettivi tra Martin e il due Benioff-Weiss. Lo si vede in particolare nell’ultima stagione uscita, che è certamente ben riuscita come prodotto televisivo proprio perché ha poco a che fare con i romanzi. Se Martin è specializzato nel complicare le trame, aumentare i personaggi e moltiplicare gli ambienti, gli sceneggiatori televisivi hanno fatto strage di personaggi secondari senza includerne nessuno di nuovo, ne hanno lasciato fuori un sacco, hanno tagliato un bel po’ di storie (forse) secondarie e hanno raddoppiato il carico di tette, draghi e sangue.

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In altre parole, Benioff e Weiss hanno dato al pubblico quello che (forse) voleva, facendo più o meno il contrario di quello che si aspettano i lettori di Martin, vale a dire il piacere dell’approfondimento, della scoperta e della divagazione, in un mondo sempre più ricco e dettagliato, nel quale le vicende delle grandi famiglie e del trono perdono di significato rispetto alla dimensione quotidiana, di espedienti e rivelazioni, di domande e di passioni, di tragedie, sofferenze e gesti di umanità, in cui l’erranza dei diversi personaggi acquista uno spessore, al tempo stesso, realistico ed esistenziale.

Insomma, le due diverse narrazioni si tengono insieme proprio perché sono diverse: come il Prometeo di Eschilo è diverso da quello di Esiodo o di Platone, e ne cambiano le vicende, così il diverso sviluppo dei fatti narrativi dà senso alle diverse esigenze di espressione, di messaggio e di contenuto. La domanda centrale, allora, è: perché costruire mondi? La risposta di Martin è lapidaria: perché quello che abbiamo non è un gran che. Anzi, per usare le sue parole:

“La fantasia è argento e scarlatto, indaco e azzurro, ossidiana venata d’oro e lapislazzuli. La realtà è fatta di plastica e compensato, rifinita in marrone fango e verde militare. La fantasia ha sapore di peperoncini habanero e miele, cannella e chiodi di garofano, carne rossa al sangue e vini dolci come l’estate. La realtà è fagioli e tofu, e cenere alla fine. La realtà sono I centri commerciali di Burbank, le ciminiere di Cleveland, un parcheggio coperto a Newark. La fantasia sono le torri di Minas Tirith, le antiche pietre di Gormenghast, le sale di Camelot. La fantasia vola con le ali di Icaro, la realtà con la Southwestern Airlines. Perché I nostril sogni diventano così piccini quando si realizzano?” (LINK)

Ma se i sogni si rimpiccioliscono realizzandosi, a volte gli incubi si ingrandiscono: ce ne siamo accorti l’8 novembre e, per citare ancora una volta dal blog di Martin: “Per i prossimi quattro anni, i nostri problemi diventeranno molto, molto più grandi. L’inverno sta arrivando. Ve l’avevo detto.” (LINK)

 

Il teatro, l’Erasmus e Altiero Spinelli: ritrovare le Chiavi per riaprire le porte d’Europa

10000000000009c4000008f83434f3f8RENZO FRANCABANDERA | Aggirarsi per Londra all’indomani del referendum sulla Brexit è stata quest’anno un’esperienza educativa. La città era, e probabilmente ancora è, un po’ frastornata. Ma, come per le elezioni USA, è sempre la periferia a decidere i destini, a sentirsi lontana dal centro. Sono le periferie a vivere i disagi, a non sentirsi parte del network che invece le città fra loro naturalmente creano. Basta vedere una mappa delle infrastrutture ferroviarie per comprendere quanto le città, i poli di ricchezza, tendano a creare fra loro legami. Come le città così i poli culturali hanno questa tensione al legame, a creare unione. E se c’è qualcosa che in questi decenni ha creato l’ossatura dell’Europa dal punto di vista culturale, questo è stato senza dubbio il livello più alto dell’istruzione, il network universitario e i progetti transfrontalieri. Uno dei più importanti, utilizzati in modo massiccio e sicuramente anche il più popolare, è il progetto Erasmus.
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Parliamo del progetto che ogni anni fa muovere dentro le Università d’Europa migliaia di studenti, garantendo la possibilità di un confronto trasfrontaliero, di un avvicinamento che arrivi veramente a creare un’identità sovranazionale, quello che era il sogno con cui ci ha lasciato 30 anni fa Altiero Spinelli, fra i fondatori del pensiero europeista.

E’ stata questa particolare coincidenza che ha visto la morte di uno dei padri d’Europa e la nascita di uno dei progetti di integrazione più importanti per la cultura europea a far pensare al Piccolo Teatro ad una serata evento, che si terrà Lunedì 28 novembre al Teatro Studio Melato. Dopo le straordinarie esperienze di collaborazione tra Università Statale e Piccolo Teatro sulla “legalità” e sul “lavoro teatrale di Luca Ronconi”, questa doppia intersezione della memoria diventa occasione per dare forma a un nuovo importante incontro tra le due istituzioni milanesi, in un percorso drammaturgico, ma anche didattico e teatrale con gli allievi della Scuola del Piccolo che reciteranno di fronte a centinaia di studenti, fra i quali saranno numerosi gli allievi del Corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo dell’Università Statale di Milano, guidati da Stefano Massini, consulente artistico del Piccolo e docente del corso di Drammaturgia della Scuola di Teatro “Luca Ronconi” diretta da Carmelo Rifici. Sono loro che in questi mesi hanno lavorato all’elaborazione di un testo teatrale ispirato a sei parole chiave che ruotano intorno al concetto di Unione Europea, collegandosi al lavoro di Altiero Spinelli: estranei, unione, radici, oltre, pace, altro.
unnamed-1Ne è nato un percorso drammaturgico, ma anche didattico e teatrale, di cui saranno interpreti nella serata del 28 gli allievi della Scuola del Piccolo, cui si aggiungerà l’esperienza degli attori Leonardo De Colle e Pia Lanciotti. “Portiamo nel nome e nel nostro lavoro la parola Europa – ci ha dichiarato Sergio Escobar, da anni alla guida del Piccolo Teatro d’Europa – e non può suonare rinunciatario, dunque, chiederci se l’Europa non esista più o se l’Europa esista ancora. Lavoriamo per la seconda. L’identità non è un fotogramma, ma un racconto. Non è assurdo, dunque, pensare che, paradossalmente, il riaffermarsi di nazionalismi e di muri di egoismo nasca non già da prove di forza, ma da somme conflittuali di debolezze di quegli Stati che, nel pensiero dei fondatori dell’Unione Europea, avrebbero dovuto interpretare lo “sguardo largo” dell’Europa ma che ora sembrano aver perso qualsiasi sguardo”.

Sicuramente ora come non mai il problema della cittadinanza europea è quello di costruire una identità comune, coltivata nella valorizzazione delle differenze di storie, di genti, di idee, per conoscere, affrontare quelle che attraversano il mondo. Un tema che si avverte ancor di più nel nostro vissuto quotidiano perché mina le nostre sicurezze nelle sue colonne portanti con la diffidenza, la paura per i grandi fenomeni migratori, uniti alla grave crisi economica e al terrorismo internazionale: sono i timori, questi, che si sono diffusi nelle fasce più vulnerabili della popolazione, che si sono impoverite, sono state espulse dal mercato del lavoro e vivono sulla propria pelle un grande senso di precarietà, che certo non aiuta a creare un’Europa dei popoli.
E’ il tema ribadito anche da Silvia Costa presidente della Commissione Cultura della UE che ha  voluto commentare l’iniziativa rafforzando come questa identità debba valorizzare la cultura delle differenze e non cedere alla paura delle diversità, guardando anche alle radici. “Non possiamo costruire il nostro futuro se non conosciamo il passato e le radici del sogno europeo. L’Unione Europea è un progetto che ha coinvolto tre generazioni di giovani: i padri fondatori l’hanno concepita, i giovani del Dopoguerra che hanno vissuto i primi passi della Comunità e la riunificazione seguita alla caduta del Muro di Berlino, e i giovani d’oggi, i primi veri ‘nativi europei’. Ma dobbiamo ancora lavorare sul processo democratico, la cittadinanza, l’integrazione economica e politica e la solidarietà, unica via per affrontare le nuove sfide globali che stanno mettendo a dura prova l’Unione Europea e la sua unità”

unnamed-2I nomi che riecheggiano in questo lavoro così polifonico che risuonerà lunedì 28 sono quelli di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, Ursula Hirschmann e Ada Rossi, protagonisti autentici dell’europeismo, che hanno lavorato per il sogno di un’Europa unita durante i giorni più bui della storia del nostro continente. Le parole dei primi tre, in particolare alcuni dei loro testi più icastici, sono stati oggetto della rielaborazione drammaturgica dagli studenti del Corso di Storia del Teatro dell’Università e il loro testimone di parole è passato nelle mani di altri giovani che di quel testo devono fare teatro, portarlo in scena, con la regia di Emiliano Bronzino. Un passaggio forse anche filosofico a ben pensarci, sulla necessità che la parola dei padri sia capace di essere feconda e dare opportunità, lavoro. Una fonte di ispirazione che mai come in questo momento deve continuare a scorrere, ma che modestamente proponiamo sia portata anche in periferia.

Questa infatti è la ulteriore e forse la vera sfida per l’Europa, per scongiurare il rischio del populismo periferico: Brixton a Londra era e continuerà ad essere povera sia dentro che fuori la UE, la sua comunità afro caraibica dopo il voto su Brexit pareva assai poco appassionata al tema, mentre alla Tate diverse visitatrici ostentavano spille con la bandiera d’Europa. E fra i votanti pro UE sicuramente il livello di istruzione era in correlazione stretta con il Remain. La cultura non vuole muri, ma deve con determinazione feroce tornare prossima alla periferia, a portare queste parole lontana dal centro, per trovare l’efficacia militante dei padri fondatori.

Speriamo quindi che in un futuro prossimo questo allestimento così particolare abbia modo di essere proposto anche a scolaresche delle periferia della città, quelle abitate da fasce di popolazione che vivono il tema dell’integrazione anche solo nella comunità metropolitana prima ancora che europea, quelle comunità da cui nascono le gang di minorenni, il disagio, gli esclusi di seconda generazione, che in Francia sono il terreno fertile dei reclutatori di manovalanza terroristica. Un tempo davvero complesso il nostro: paradossalmente era più agevole la lettura di un pianeta a blocchi contrapposti e ad economie separate, come quello diviso fra mondo capitalista e mondo comunista, che un unico calderone dove la forbice ricchi poveri si è allargata e in cui l’Europa non è più il centro nevralgico di tutto. Ma l’Europa per molti, moltissimi, è ancora una porta per il futuro: tutto sta, quindi, a far percepire ad ogni cittadino di essere proprietario di un mazzo di chiavi, e che va custodito come il mazzo di chiavi della propria casa.

 

Le chiavi d’Europa
Serata Spinelli/Erasmus
testi da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni
e testi elaborati dagli studenti del Corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo dell’Università degli Studi di Milano: Anna Bellelli, Jacopo Cerati, Alice Della Cerra, Edoardo Ghirardato, Alice Maria Grati, Matteo Mauri, Elisabetta Molteni, Francesco Ottonello, Chiara Piemontese, Arianna Soffiati, Sebastiano Sottile, Francesco Toscani, Vanja Vasiljević

con Leonardo De Colle e Pia Lanciotti e con le allieve e gli allievi del Corso ‘Luchino Visconti’ della Scuola di Teatro ‘Luca Ronconi’

messa in scena a cura di Emiliano Bronzino
con il Patrocinio del Parlamento Europeo