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giovedì, Aprile 25, 2024
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La psicoanalisi di Frongia: L’Eclisse dei sentimenti

ROBERTA ORLANDO | L’avevamo già pregustato all’interno del progetto Next, ma dopo il debutto in prima nazionale, ci sembra doveroso un approfondimento dell’ultimo lavoro di Francesco Frongia, in scena all’Elfo Puccini fino al 4 Dicembre.

Un soggiorno moderno, il suono della tv accesa, una donna anziana in un impermeabile eccentrico, un’altra più giovane che la rimprovera, come una madre con la figlia adolescente che ha messo una gonna troppo corta o che ha preso un’altra nota a scuola. Peccato che qui i ruoli siano ribaltati. È la figlia che detta le regole comportamentali a una madre che ha fatto di nuovo “la pazza” al supermercato, che si è messa ancora quella giacca ridicola, che ormai sta diventando lo zimbello del quartiere. La reazione dell’anziana Muriel (Ida Marinelli) è incostante, a tratti sembra imbarazzata, altre volte indifferente, oppure non smette di giustificarsi e di sdrammatizzare, accrescendo la collera della figlia Stephanie (Elena Ghiaurov) che sin dalle prime battute si dimostra stremata dalla situazione.
Questa è solo la peclipserima delle otto scene che compongono l’atto unico di Joyce Carol Oates, autrice americana che Francesco Frongia aveva già affrontato nel 2010 con “Nel buio dell’America – Dissonanze” (tradotto come in questo caso da Luisa Balacco) e che in Italia risulta ancora poco nota, rispetto all’ampiezza della sua produzione.

Le due protagoniste sono in costante conflitto non solo tra loro, ma anche con il mondo circostante. Un mondo che per Muriel è fatto di rifiuto del passato e del suo ruolo materno (persino di farsi chiamare “mamma”), di amori immaginari e scomposizione della realtà. Per Stephanie, al contrario, c’è invece la ricerca ossessiva di un passato che le è stato nascosto, il bisogno di un padre in quanto, soprattutto, arbitro di questo gioco di forze tra lei e sua madre. Ma Muriel le ricorda “Tuo padre se n’è andato tanto tempo fa, portandosi via la sua faccia”, infatti non resta neanche un’immagine di lui, non un ricordo. Così la figlia cerca (invano) un appiglio per salvarsi da questo rapporto-gabbia e dalla compassione che sta minacciando anche la sua ambizione professionale, ma allo stesso tempo ha paura. Di cosa? Di affrontare una realtà diversa, di essere indipendente (che potrebbe tradursi in ulteriore solitudine?), che è poi la paura diffusa di chi non ha ancora “tagliato il cordone ombelicale”, a prescindere dall’età.
Sulla base di questa interpretazione, ci appare paradossale che Stephanie sia impegnata nella formazione di un partito politico a favore dei diritti delle donne. Uno dei momenti più amaramente comici dello spettacolo coincide infatti con una telefonata in cui la donna espone a una collega i presupposti di una lotta contro la violenza domestica, ma la conversazione viene disturbata dalla madre che compare in tuta sportiva, accende la tv e si infiamma davanti a un incontro di boxe, facendo il tifo per Mike Tyson. Proprio in questa scena troviamo, più visibile che mai, la metafora centrale di tutta l’opera: Muriel si allena a vincere questo scontro, spinta da un (inconscio?) desiderio di riscatto e di (ri)affermazione che prevale sui sentimenti, facendoli “eclissare”.
Arriverà persino a denunciare la figlia per maltrattamento, azione che richiederà l’intervento e la mediazione di una divertente Cinzia Spanò nei panni dell’assistente sociale.

Un tema delicato, che nonostante il crudo realismo, viene affrontato con una dolcezza che ammorbidisce anche le azioni più fredde. Tuttavia, a livello ritmico si incontra qualche rallentamento che appesantisce la scena e che avrebbe quindi reso vantaggioso qualche taglio aggiuntivo. Sebbene la suddivisione in brevi scene dovrebbe favorire questo aspetto, in realtà affievolisce continuamente il livello di tensione, che sale e scende e poi risale, fino all’apice che si raggiunge solo alla fine, quando una delle due donne sembra “vincere la battaglia”, ottenendo in premio la libertà di continuare a vivere di fantasia (il che implica la coercizione dell’avversaria): ed ecco che la porta del soggiorno si spalanca per lasciar entrare l’amante spagnolo di Muriel (Osvaldo Roldan), che lasciandosi alle spalle una “paradisiaca” luce bianca, balla con lei un tango. Molto efficace l’effetto della luce, che crea una dimensione onirica nella quale le ombre dei due corpi danzanti si muovono, come avvolti nella nebbia.

L’interpretazione delle due protagoniste è il punto di forza dello spettacolo, in particolare quella di Ida Marinelli, tra comicità, follia e sdoppiamenti di personalità.
Frongia si conferma un regista di una sensibilità non comune, che sa insegnarci a vedere anche quel che non si vede.

L’ECLISSE
di Joyce Carol Oates

traduzione di Luisa Balacco
regia di Francesco Frongia
con Ida Marinelli, Elena Ghiaurov, Cinzia Spanò e Osvaldo Roldan
costumi di Ferdinando Bruni
luci e suono di Nando Frigerio
produzione Teatro dell’Elfo
con il sostegno di Next

Compleanno trent’anni dopo: il dialogo a distanza fra Moscato e Ruccello

RENZO FRANCABANDERA | Parlare di uno spettacolo a 30 anni dalla sua creazione non è propriamente stare sulla notizia. Ma è anche vero che parlare di “Compleanno” di Enzo Moscato, che ha inaugurato la stagione 2016/2017 dello spazio No’hma a Milano il 16 novembre scorso, significa parlare di molte cose assieme.
Soprattutto occorre considerare due fattori: il primo è che la critica assolve un compito che ha con il tempo un rapporto dinamico, che permette la riflessione anche dopo anni perché considera il rapporto fra arte e società, entrambi fenomeni in movimento. Il secondo invece riguarda il fatto che l’osservazione di uno spettacolo teatrale ha il pregio, e in fondo anche il privilegio, di osservare una struttura cangiante, una caratteristica che non riguarda altre arti, che cristallizzano la creazione in un’immobile stasi, come il cinema o le arti pittoriche.

Per il lettore a digiuno, parliamo di un allestimento di poco successivo alla scomparsa di Annibale Ruccello, grandissimo talento del teatro italiano, che condivise il periodo di splendore creativo, fra fine anni Settanta e inizio Anni Ottanta, con interpreti della scena come appunto Enzo Moscato, Mario Martone, Isa Danieli, de Berardinis, Neiwiller, Servillo, Santanelli.

La Napoli di quegli anni occorrerebbe ricordarsela, o immaginarsela per chi è nato dopo. Una città ancora più viva e sconvolgente di ora, fra creatività nuove, sceniche e musicali, vecchi equilibri e nuove tensioni sociali. Nel decennio fra il 76 e l’86 Pino Daniele incideva i suoi primi album, trionfava il sound soul jazz di Napoli Centrale, ascendevano i talenti di Moscato e Ruccello e moriva Eduardo de Filippo; Raffaele Cutolo riorganizzava la criminalità con la nascita della Nuova Camorra Organizzata e, mentre il terrorismo insanguinava l’Italia, a fine novembre 1980 un terremoto devastava l’Irpinia facendo tremare tutto il Sud e Napoli in particolar modo.
Anni di beat generation in salsa soul, di liberazione sessuale, di terrorismo e pane e rose, di scritture teatrali nuove, di grande letteratura, con la città governata dal sindaco comunista Maurizio Valenzi, anni non condensabili in un bignami di hqdefault.jpg4 righe, per una delle stagioni più incredibili della città e, in fondo, dell’Italia intera e del mondo, se si pensa che nel 1986 iniziò l’era della trasparenza di Gorbaciov e che nel 1980 Reagan era diventato presidente degli Stati Uniti. Rock Hudson nel 1985 fu una delle prime vittime illustri dell’AIDS, che sconvolgerà la comunità omosessuale, mentre da Bennato a Maradona passando per il cemento, l’Italia campione del mondo, l’omicidio di Giancarlo Siani, il rapimento di Ciro Cirillo, Napoli viveva una delle sue impossibili rivoluzioni, fra estasi e dannazione, fra calci di punizione al millimetro, burattini senza fili e discese per via Toledo. Vorremmo rimandare, per capire quegli anni nella loro crudezza e potenza ad un grande documentario, Sciuscià 80, di Giuseppe Joe Marrazzo, fatto con interviste a bambini di strada a Napoli nel 1980, linkato alla foto in questo articolo.

Compleanno nasce in questo clima, è uno spettacolo frutto di quegli anni, di un periodo che fondamentalmente racconta lasciandolo però sullo sfondo, illeggibile o quasi; la piece testimonia il dialogo a tratti surreale fra struttura sociale tradizionale e quella parte della comunità artistica di cui Annibale Ruccello era esponente singolarissimo. La sua scomparsa in un incidente d’auto, come Rino Gaetano cinque anni prima, privò il teatro italiano di un vero e proprio principe, tanto che la scena è dominata da un trono che resterà vuoto mentre alla destra del trono si trova una seggiola su cui sederà un narratore scomposto e sconvolto, un Moscato dalla parola sonante e agìta.  Alla sinistra del trono ricoperto di tulle e illuminato da una luce rossa, quindi alla destra del pubblico, un tavolo apparecchiato per una triste festa di compleanno, che inizia con l’entrata stessa in scena dell’attore, che reca, invece che una torta, una base su cui sono accese candele di sapore votivo, funerario, scomposte nel loro essere già sciolte, come in chiesa, davanti ad un ex voto.
Moscato-02.jpgCompleanno è ancora con il sentimento di oggi la chiamata ad assistere al lamento per la scomparsa dell’amico, prima ancora che dell’artista, un componimento struggente di ammiccamenti umani e piccoli gesti del quotidiano, fatto di frasi comprensibili forse in alcuni casi solo da loro due, come un dialogo fra un devoto e una capuzzella delle anime del Purgatorio. Poi c’è una parte letteraria, comprensibile alla comunità, privata dell’intelligenza mai nominata di Ruccello, ma evocata in forma simbolica, ad esempio con le rose, quelle di Jennifer, di uno dei suoi testi principali. Poi c’è una parte di cui è incarnazione il corpo dell’attore, accessibile a tutti ancora oggi, a distanza di 30 anni e che anzi, il corpo che cambia di Moscato trasforma in un dialogo con la morte, con la Morte, un personaggio di cui si aspetta l’avvento, più che di un genio di cui si piange l’impossibile ritorno. E che si tratti di un rito funebre, in qualche modo, di una surreale danza macabra, lo statuisce chiaramente una breve lettura che anticipa lo spettacolo e che fa ode alla morte giovane, che cristallizza l’eterno oltre la decadenza della vita. E più passano gli anni, più, ovviamente, l’attore incarna questo inevitabile decadere del corpo, testimoniando come il solo dialogo con lo spirito, l’arte, segnino i passaggi verso l’immortalità.
Il resto è un balbettio, un incomprensibile legare in una giaculatoria il richiamo della gatta
Rusinè a bestemmie in sardo e storie dal nuovo mondo, di canzoni pop-jazz storpiate dalla parlata dei Quartieri spagnoli.
Compleanno è uno spettacolo che si capisce proprio quando si accetta la sua dimensione incomprensibile, esattamente come il mistero della morte, un esperimento drammaturgico di valore assoluto, che ancora oggi per complessità resta per certi versi un quadro astratto di liricità irraggiunta, un Aleph del dolore, che Moscato recita ancora in modo sconvolgente, disumano, incomprensibile, barocco.

 

COMPLEANNO

( ante-Compleanno: testimonial Giuseppe Affinito )

Dedicato ad Annibale Ruccello

 

testo, regia, interpretazione: Enzo Moscato

scena e costumi: Tata Barbalato

voce su chitarra: Salvio Moscato

organizzazione: Claudio Affinito

produzione Compagnia Teatrale di Enzo Moscato/Casa del Contemporaneo

Spazio Teatro NO’HMA Teresa Pomodoro
Via Andrea Orcagna, 2 – Milano

Esodo. Un tributo a Sergio Atzeni firmato da Valentino Mannias

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SILVIA FERRARI | Sergio Atzeni è un cantore della Sardegna più autentica. C’è nella sua scrittura la sacralità antica di una terra arcaica, il ritmo ancestrale del cuore isolano. Ma anche la verità sboccata e sporca che appartiene alla vita, alla quotidianità delle città, dei muri e degli esseri umani. Atzeni mescola sacro e profano, natura e umanità, salmi e bestemmie.
L’attore e regista sardo Valentino Mannias ha scelto di dedicargli uno spettacolo. Si intitola “Esodo. Tributo a Sergio Atzeni”, ed è il secondo lavoro di Mannias prodotto da Sardegna Teatro dopo “Giovanna, detta anche Primavera”. La scelta è felice perché il venticinquenne Mannias è davvero promettente (lo conferma anche il Premio Hystrio alla Vocazione vinto nel 2015).

Di Mannias colpisce d’impatto la sua naturalezza nello stare in scena, il suo passo appropriato e lieve dentro e fuori dal palcoscenico. È sofisticato, ma mai manieristico. È ubiquo, ma mai eccessivo.
L’ispirazione della trama è familiare. Lo spettacolo nasce da un racconto paterno, la storia di un ragazzo sardo (Giancarlo) che si trasferisce a Lignano Sabbiadoro per studiare all’Accademia del Turismo. C’è la partenza, accompagnata da personaggi teneri e buffi, ci sono il viaggio in nave e l’attesa verso il futuro, c’è l’impossibilità di tornare a casa per Natale e la proposta di lavorare in un albergo a Maiano del Friuli insieme ad un altro compagno nuorese. Una storia di partenze, un misto di avventure e nostalgie che ha in sé il gusto rocambolesco di un Tom Sawyer contemporaneo e l’emozione intima dei racconti di famiglia.

Sul palcoscenico Mannias, con la sua camicia rossa, voce e corpo da cantastorie, non è solo a narrare. È accompagnato dalle musiche e dalla fisicità minuta di Luca Spanu che crea l’accompagnamento con chitarra, violino e oggetti appoggiati su un tavolino che è unica scenografia. Mannias sa usare lo spazio in modo intelligente: sale e scende dal palcoscenico, esce dalla sala, rientra dalle quinte, confonde lo spettatore con canti che arrivano alle spalle e provando a capovolgere le prospettive. Anche le luci, nello scambio tra palco e platea, lo aiutano in questo gioco. Così come il sipario che c’è ed è usato ma la sua apertura e chiusura sono anticipate e posticipate da proiezioni sulle pieghe.

In tutto questo dove sta il tributo ad Atzeni? Lo spettacolo è sicuramente atzeniano nel titolo: “Esodo”, un mix di suoni biblici e di rimandi antichi che ha molto a che fare con la scrittura salmodica di Atzeni. Lo è apparentemente meno nei dettagli tematici della vicenda, che, come detto, trova la propria ispirazione altrove. È però una storia di partenza ed è forse qui che risiede un altro legame importante con lo scrittore sardo, nel tema mitico del lasciare l’isola. Il protagonista Giancarlo è il padre di Valentino, ma in realtà Giancarlo potrebbe essere qualunque sardo che parte oggi come novant’anni fa. A partire da quel Ruggero Gunale che è il protagonista di “Il quinto passo è l’addio” a cui questa pièce dichiara di ispirarsi. A partire da Vincenzo che entra nello spettacolo negli ultimi respiri raccontando la sua partenza negli anni Trenta, dando un senso perenne nel passato e nel futuro. A partire dallo stesso Valentino Mannias che è partito per Milano per studiare teatro.
I protagonisti, qui come in Atzeni, sono episodi biografici che si fanno epica, mai declamata, ma raccontata in punta di piedi. L’epica delle piccole storie, degli uomini comuni, dei gesti più che delle gesta, delle storie più che della Storia. Ed è qui forse che risiede forse il più bel tributo ad Atzeni giornalista oltre che scrittore: «Credo che le vite di tutti gli uomini meritino di essere in qualche modo ricordate, trasmesse. Questo è il compito che si devono assumere gli scrittori piccoli; gli scrittori grandi creano le grandi metafore, i capolavori; gli scrittori piccoli hanno il compito molto più modesto di raccontare, così come sono capaci, le persone che hanno conosciuto».

Un’unica critica: un tributo ad Atzeni avrebbe forse richiesto meno pulizia nella lingua e nella messa in scena. C’è anche maledizione nella sua scrittura, non esibita ma sotterranea. Di questo forse alla fine dello spettacolo resta un po’ di nostalgia.

ESODO. TRIBUTO A SERGIO ATZENI
di Valentino Mannias
con Valentino Mannias e Luca Spanu
musica Luca Spanu
regia Valentino Mannias
foto Dietrich Steinmetz
produzione Sardegna Teatro

Visto al Teatro Massimo di Cagliari all’interno della stagione 2016-2017 di Sardegna Teatro

Identikit seriali: il satiro (dell’appartamento 23)

JAMES VAN DER BEEK, KRYSTEN RITTER, DREAMA WALKER
I protagonisti della sitcom “Don’t trust the b— in Apartment 23”, James Van Der Beek, Krysten Ritter (Chloe) e Dreama Walker (June).

Federica Bastoni | Le serie tv sono diventate il nostro anfiteatro personale, da cui spiare, assimilare e digerire versioni più o meno realistiche delle nostre vite, e su cui articolare una possibile trama di senso della contemporaneità. Una forma di spettacolo a fruizione solitaria, non più unica e irripetibile, ma anzi ripetibile per definizione grazie allo streaming. Il rapporto preferenziale che le serie innescano allora, non è più quello fra lo spettatore e l’attore ma quello con il mezzo, vero e proprio veicolo del messaggio e strumento poliedrico di definizione del punto di vista. Al posto delle maschere di tessuto o legno, i caratteri archetipici sono definiti da una mappa di gestualità e atteggiamenti fisici, accenti e particolarità vocali, ruoli drammaturgici all’interno dei loro contesti e nei confronti dei loro mondi di riferimento, parabole ascendenti e discendenti rispetto alle schizofreniche scale di valori e disvalori dell’oggi. Identikit seriali è una lente di ingrandimento puntata su i caratteri delle serie tv, nuovi e antichi allo stesso tempo; il personaggio di oggi è…

Il satiro 2.0: Chloe, la “stronza dell’appartamento 23”

Chloe, party girl promiscua, cinica e faccendiera, è la protagonista dell’esilarante sitcomedy Don’t trust the bitch in Apartment 23, ambientata quasi interamente nel soggiorno di un appartamento newyorkese, scenario della convivenza fra lei e June, ingenua biondina arrivata dall’Indiana per i seguire i suoi sogni di indipendenza. Per mantenere la sua costosa vita metropolitana Chloe è costantemente alla ricerca di coinquiline da truffare: dopo aver incassato l’affitto anticipato di molti mesi a venire, le perseguita con ogni sorta di comportamento deplorevole fino a che non riesce a farle fuggire. Ovviamente senza rimborsarle. June, vendendo l’intero mobilio dell’appartamento una volta scoperta la truffa, riesce a conquistare il suo cuore. Le due diventano amiche, ed il loro atipico rapporto si configura come una sorta di iniziazione per June non solo alla spietata jungla della grande città, ma anche alla vita adulta.

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Chloe ricalca una moderna versione del satiro, figura connessa alla misteriosa nascita della tragedia greca. All’origine di questo mito c’è la divinità minore Pan – metà umano, metà bestia, figlio di Ermes, messaggero degli dei e Persefone, regina degli inferi – connesso ai culti dionisiaci e della fertilità, divertito e scanzonato, né benevolo e né maligno e per questo portatore di una inusuale ambiguità per il mondo greco, massimamente polarizzato nelle rappresentazioni di “bene” e “male”. Così Chloe, in equilibrio fra furori orgiastici e poesia al di fuori dei confini di qualunque hybris, è un tornado di apparenti contraddizioni che spostano la percezione dello spettatore oltre ogni possibile riduzione a cliché: bellissima femme fatale non a caso vestita prevalentemente di nero o rosso, si concede poi, ad un parlare decisamente scurrile seppur fatto di motti sapienziali, brevi tormentoni solo in superficie ilari ma intrisi di una marmorea indifferenza per ogni regola o consuetudine socialmente accettata. I campi semantici della sua filosofia post-pop sono l’eccesso in tutte le forme, l’esaltazione di sé come creatura meravigliosa e dei piaceri come unica possibile risposta a qualunque ostacolo posto dalla vita di tutti i giorni. Il satiro, lontano dall’Olimpo, si aggira per boschi o radure, accompagnato da ninfe e baccanti ubriache e danzanti in un movimento sfrenato e continuo che diventerà il leggendario “fuoco fatuo” delle epopee nordiche. Chloe incarna questo stesso ritmo centripeto e questa stessa intensità futile (Ndr. L’autrice conferisce all’aggettivo “futile” quasi sempre una connotazione estremamente positiva); la mora eburnea Chloe dal ghigno complice, senza un impiego meglio specificato se non la mantenuta, è circondata da compari altrettanto anomali quanto lei: James Van Der Beek che interpreta se stesso in preda all’eterno tentativo di liberarsi del personaggio di Dawson Leery per rilanciare la sua carriera e il suo sex appeal, o il vicino Eli Webber, infermiere voyer che spia le giovani vicine, o infine, l’ex coinquilina Robin che, ossessionata da Chloe, cerca di attirare la sua attenzione mettendo in guardia ogni nuova arrivata dell’appartamento 23 con fare da sibilla. Ma Chloe si rivela anche fondamentale per June, sua guida nella scoperta delle leggi non scritte della Grande Mela, diventando una sorta di maestra; e qui ritorna la questione dell’origine della tragedia e della funzione fondamentale e perduta del coro legata al verso del ditirambo, burlesco e ancestrale nella sua origine satiresca: è il coro infatti a incarnare, in una dimensione collettiva, l’incalcolabile mistero sapiente e risolutivo che permetterà all’eroe di scoprire in sé il proprio inestimabile valore, la capacità di discernimento e quindi azione. Chloe nel suo essere satiresca, infatti è definita “the bitch” ma non è la vera stronza della storia; tanto che alla fine della seconda stagione, un deus ex machina rivelerà l’identità dell’unica stronza degna di tale titolo.. ma da qui in poi si chiamerebbe spoiler!

 

 

 

L’umanità futura di Juan Mayorga: un caos tendente all’entropia

ESTER FORMATO |  La scena è  fredda ed essenziale, caratterizzata da un arredo d’ufficio bianco, segno di un’amorfa e asettica realtà aziendale in cui – presumibilmente – sono immersi i personaggi. C’è poi un livello superiore rispetto al piano d’assito, segnato da una luce verde fluorescente, a ricordarci della verticalità gerarchica insita nel sistema lavorativo vigente.

Contrassegno di Futura umanità è sin dall’inizio un’allucinata e caotica derealizzazione dell’assetto socio-lavorativo; un dirigente ed un autista, mascherati da enormi peluche, reclutano Giorgio, efficiente dipendente con la passione per la musica, per convertirlo ad un piano segreto che, ispirandosi a fantomatiche dottrine comuniste, mira a liberare gli impiegati dall’automatismo messo in atto dall’aggressivo mercato del lavoro e dell’economia. Una protezione collettiva e ferrea impedisce, tuttavia, ai nuovi compagni di riconoscersi all’interno, sicché la novella comunità rivoluzionaria, fondata su un’idea “comunista e dialettica” aleggia fantomaticamente nei dialoghi fra i tre personaggi, ai quali si aggiunge l’ambigua Silvestri.

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In una complicata sovrapposizione di identità che defluisce, infine, in un caos fra veri dipendenti e attori reclutati ad hoc, come la stessa Silvestri, la pièce di Juan Mayorga si presenta come una fredda scomposizione del plot attraverso un linguaggio che impone ai personaggi un abuso, vagamente parodiato, di stilemi ideologici, di campionature espressive e gestuali insite nelle stesse realtà aziendali che rendono svuotati i lavoratori del nostro presente. È come se l’intelaiatura compositiva di questo lavoro sia stata messa appunto attraverso la sottrazione di coerenza formale, a vantaggio di un processo dialettico tutto insito nei dialoghi dei singoli personaggi che a fatica riusciamo a seguire.

Come conseguenza, assistiamo ad un eccessivo richiamo a più disparate appartenenze ideologiche, incancrenite forme della storia contemporanea, che sottendono  una scissione dei gruppi che fanno parte del piano di protezione ed uno slittamento di forme  del sistema autoritario legalizzato a quello che dovrebbe liberarcene, ereditando dal primo linguaggio e comportamenti.  Siamo ad un punto entropico della narrazione, alla completa distopia ideologica in cui idee contrapposte sembrano  equivalersi e, specularmente, teatrale.

 Non sembrano difatti, la poca chiarezza e la confusione di molti punti, imputabili esclusivamente alla giovane compagnia di Agiteatro  (la regia è, tra l’altro, qui firmata da tre dei componenti) che da un punto di vista interpretativo lavora sostanzialmente bene, ma alla natura stessa dell’opera. L’impressione è che i limiti evidenti relativi alla fluidità e fruibilità del lavoro corrispondano ad un sottile gioco pseudoideologico che dalla storia narrata arriva a concretarsi anche nella struttura dell’opera: pare, appunto, che la mente geometrica del drammaturgo spagnolo concepisca la storia di Futura Umanità svuotata di una formalità precisa nella volontà di restituire un’opera interamente aperta e parziale che stimoli una varietà di possibilità interpretative su un futuro angosciante, caratterizzato da un mostro ideologico fatto di anarchia e sistema insieme. La compagnia coglie perfettamente queste peculiarità, cercando di trovare dall’interno un modo affinché lo spettatore sia invitato a interpretare attivamente le varie dialettiche compresenti.

Resta, però, un sovraccaricato gioco d’identità, un linguaggio artificioso che suggerisce allo spettatore una sorta di Truman show nel quale, però, non vi è nessun tipo di perfetta complicità, seppur inquietante, a delineare una realtà virtuale nei confronti del singolo, ma un cortocircuito entropico al quale ci è difficile prenderne parte.

FUTURA UMANITA’ di Juan Mayorga
traduzione di Simone Trecca e Amy Bernardi
regia Marco Bellomo, Alessandro Filosa, Valerio Leoni
organizzazione lavoro e drammaturgia scenica Valerio Leoni
scenografia Alessandro Filosa
attrezzeria Marco Bellomo
assistente Mattia Parrella
grafica Rosanna Sirizzotti
con Marco Bellomo, Alessandro Filosa, Claudia Guidi, Valerio Leoni

prod. AGITEATRO

Roberto Zappalà, la danza di messa a fuoco di Romeo e Giulietta

Foto di Serena Nicoletti
Romeo e Giulietta 1.1 @ Hanfilm
Romeo e Giulietta 1.1 @ Hanfilm

MATTEO BRIGHENTI | Il sorriso è lo specchio dell’incontro. E non parte dalle labbra, ma dagli occhi, che diradano linee d’ombra e d’ombretto, il fumo gettato dagli adulti, incomprensioni su incomprensioni. Ci vuole passione, dedizione, ci vuole pazienza per sdraiarsi accanto, testa contro testa. Romeo e Giulietta 1.1 di Roberto Zappalà è la coreografia della leggerezza, della tenerezza e della forza di mescolarsi per andare oltre il proprio corpo, essere uno ed essere due, restare io e te e diventare noi.
Il passo a due con Gaetano Montecasino e Valeria Zampardi è il primo capitolo del progetto ‘Antologia’ con cui l’artista catanese intende recuperare i lavori storici del suo repertorio, rivisitarli, riattraversarli, e scaturire il contatto con nuove visioni. Perché il futuro sappia di avere radici lontane. Questa versione, addirittura, è la 1.2, dal momento che l’estate scorsa ha debuttato a Chiusi a Orizzonti Festival (coproduttore con Scenario Pubblico/Compagnia Zappalà Danza) con altri due danzatori: Maud de la Purification e Antoine Roux-Briffaud.
La sfocatura dei corpi era il titolo del Romeo e Giulietta del 2006. La danza, infatti, è inframezzata dall’audio di Harry a Pezzi, film del 1997 in cui Woody Allen ricompone il puzzle privato e lavorativo di uno scrittore in crisi attraverso i suoi racconti. Uno di questi è L’attore in cui Mel, interpretato da Robin Williams, è fuori fuoco. Non l’obiettivo, ma lui, in persona. Il viso, la felpa, tutto. Nessuno lo riesce più a vedere nitidamente.
È la condizione di chi si trova di fronte all’uomo, la donna dei sogni, sembra voler far danzare Zappalà su musiche di John Cage, Prokofiev, Pink Floyd e testi come Cara Maestra di Tenco. Paura e desiderio che questi Romeo e Giulietta in maglietta, calzoncini e scarpe da ginnastica affrontano e superano imparando a cercare l’altro dentro di sé, imparando dall’altro ad andare insieme, a trovare il medesimo tempo per guardare nella stessa direzione. Un abbraccio che va e ritorna a ondate, come le promesse. L’amore qui non è niente di più, ma anche niente di meno.
Arrivare ad affidarsi, abbandonarsi, fino a perdersi completamente, ha una lunga strada dietro di sé che Romeo e Giulietta 1.1 non (si) nega, anzi esalta, per rendere la conquista ancor più vertiginosa. Il fumo denso di cui parlavamo all’inizio avvolge il palco del Teatro Cantiere Florida di Firenze, intimo e possente, meraviglioso nella sua nudità di mattoni rossi, corde, fari, uscite di sicurezza. Montecasino è in piedi, di spalle, il capo chino su una luce che la nebbia, diradandosi, pare voglia inghiottire. In alto una seconda luce lo irradia di un raggio quasi lunare. Sembra di spiare non visti, invisibili, Le notti bianche di Dostoevskij nel bianco e nero di Visconti.

Foto di Serena Nicoletti
Foto di Serena Nicoletti

Il battito di un cuore si confonde con le monete che tintinnano nel registratore di cassa di Money dei Pink Floyd ed entra Zampardi spingendosi su una biciclettina rosa. Non è un vero e proprio incontro, ancora, perché lui gira su di sé, preso nelle sue spire (ha una maschera da sub), lei pedala per tutto il rettangolo bianco del palcoscenico. Siamo forse nell’infanzia di Romeo e Giulietta: a quell’età i ragazzi sono chiusi nei loro mondi impenetrabili, le ragazze invece sono più aperte, già con la voglia di scoprire la realtà che le circonda.
La luce riflessa su di lei con la maschera subacquea è la stella cadente su cui Romeo esprime il desiderio di rivederla. Breathe di nuovo dei Pink Floyd e poi una cover di Love me tender di Elvis Presley li conducono alla festa in maschera, ai mille colori di briosi passi di sala. Ma sono ancora dentro le convenzioni, i ruoli, ballano stretti alle diffidenze.
Lo spazio, adesso, è completamente acceso: vedere significa anche riconoscersi. Romeo è un Montecchi, Giulietta è una Capuleti, le loro famiglie sono divise da un odio inestinguibile. Infatti, sbattono le mani come falene al Sole di un avvenire contro vento. È Shakespeare, pur senza giuramenti al balcone o sinistre spade sguainate, lo è nel non arrendersi alla sventura, nel continuare a correre, roteare e sperare di trovare il pieno dove le braccia stringono l’aria attraversata con attesa da lui, di lei, e viceversa. Togliersi le scarpe, spogliarsi dei giorni vissuti divisi segna la fine di dubbi, incertezze, della fretta di tornare a nascondersi per paura di scoprirsi troppo, di sentirsi fragili e, paradosso degli anni verdi, diminuiti da ciò che si prova.
Sono indistinguibili e irrefrenabili una volta liberato l’istinto: si afferrano, avvinghiano, avviluppano privi di gravità, guidati soltanto dalla foga animalesca del loro entusiasmo. L’assolo delicato di lei, quello vigoroso di lui. L’importanza del lavoro diretto da Roberto Zappalà è nella dolcezza del tratto, un pastello fatto con i colori della terra, con cose vere che puoi toccare. Una partitura arcobaleno che Gaetano Montecasino e Valeria Zampardi interpretano con una misura umana, concreta, quasi quotidiana, sfiorando il magico, etereo, infinito di Maud de la Purification e Antoine Roux-Briffaud.
Su di loro, comunque, pesa il ballo intrecciato del caso e della malasorte. Vanno allora sul fondo, laggiù, contro una luce bassa, l’unica rimasta accesa ormai. Flebili come fiammelle al vento si cambiano con un completo color della polvere, della prossima sepoltura. Suonano gli ottoni, la prepotenza del mistero, il richiamo della fine. Spossati, non si reggono in piedi, si cadono addosso dopo un’ultima presa di gioia.
La storia di Mel in Harry a Pezzi termina con Robin Williams che va da un dottore, il quale prescrive alla moglie e ai figli un paio di occhiali per metterlo a fuoco. Romeo e Giulietta 1.1, nell’intenzione ultima di Roberto Zappalà, vuole essere un atto d’amore verso la vita. Soprattutto oggi che riteniamo di non avere più tempo per niente, nemmeno per il tempo.
Volate in cielo le anime e sottoterra la morte di Giulietta e del suo Romeo, Gaetano Montecasino e Valeria Zampardi tendono le mani dal buio che si porta via anche loro. Sta a noi stringerle, raccoglierne il testimone, e farlo durare, e togliere spazio a ciò che è odio, assoluto, cieco, immemore delle sue stesse ragioni, se mai possono esistere. Ma prima dobbiamo mettere gli occhiali 1.1: dobbiamo rinnamorarci dell’amore.

ROMEO E GIULIETTA 1.1
La sfocatura dei corpi

coreografia e regia Roberto Zappalà
musica John Cage, Sergei Prokofiev, Pink Floyd
interpreti Gaetano Montecasino, Valeria Zampardi
testi a cura di Nello Calabrò
luci e costumi Roberto Zappalà
direzione tecnica Sammy Torrisi
management Maria Inguscio
produzione Scenario Pubblico/Compagnia Zappalà Danza – Centro di Produzione della Danza
in coproduzione con Orizzonti Festival. Fondazione
in collaborazione con Le Mouvement Mons Festival (Belgio)
con il sostegno di MiBACT, Regione Siciliana Ass.to del Turismo, Sport e Spettacolo
Visto mercoledì 16 novembre 2016, Teatro Cantiere Florida, Firenze.

Ammalati d’adolescenza, adolescenza ammalata: la scena scopre l’età di mezzo

RENZO FRANCABANDERA | Ci sono quelli ormai alle porte dei 40 anni che hanno voglia di coprire i primi capelli bianchi con un’intensa attività di cocktailing. O quelli che hanno appena finito la terza media che di colpo si proiettano in problematiche esistenziali degne del miglior Ibsen. L’età di mezzo è sempre stata un incubo che il teatro ha saltato a piè pari: non è un caso che le proposte per questa età siano scarse, poco attraenti e svagate, anche perché è un’età in cui il gusto cambia, i destinatari passano ore chini sui dispositivi elettronici, divorando video a valanga, in un continuo beep di messaggi whatsapp che nascono dall’iscrizione a gruppi a tema inverosimili.
Dunque il gap di comprensione verso la generazione che fra meno di 5 anni andrà a determinare le sorti elettorali del paese, come pure di quella dei lavoratori di mezzo, che continuano il gioco liquido della precarietà fino ai 40 anni, è assoluto. Non ne sappiamo nulla.
Eppure qualcosa si muove, in Italia. Dritti con i piedi nel piatto arrivano sulla questione, ad esempio, Daniele Turconi e Matteo De Blasio con “Mondo Cane”, uno spettacolo prodotto da Frigoproduzioni che sarà ad inizio dicembre in scena al Sala Fontana a Milano insieme a Socialmente, che nasce all’interno dello stesso gruppo di lavoro e interpretato da Claudia Marsicano e Francesco Alberici.

Mondo Cane è un lavoro di una crudeltà esemplare, che racconta un personaggio, fra ironia e realtà, incapace di aderire ad alcun precetto politico, sociale emotivo che non sia una piccola dimensione edonistica larga poco più della sfera intima. In una scena con un dj che mette musica dal vivo (De Blasio), fra neon rosa shocking come i vestiti del protagonista, incontriamo il tardo adolescente all’esame di maturità e lo accompagniamo, fra università, amori finiti, stage fasulli e precarietà assoluta verso il progressivo svanire di tutti i suoi obiettivi di lungo termine.

Nulla arriva ad interessarlo profondamente se non il raggiungimento di equilibri di breve periodo, ad un carattere che ha la pretesa del finto autobiografismo, indossato da due post adolescenti con una interessante formazione anche internazionale di arti sceniche in senso lato. La costruzione dal punti di vista ritmico ha la pregevole crudeltà di mettere in crisi lo spettatore, così che nei momenti di cesura emotiva, quelli in cui tipicamente dovrebbe arrivare l’applauso, egli si trovi di fronte alle situazioni più tragiche e fallimentari del protagonista, costringendo chi è scomodo in poltrona ad un dilemma quasi esistenziale che spiazza il rapporto con la creazione artistica.

daniele-turconi-on-stage-teatro-mondo-cane-00480162-001-640x357Tanto più questa risulta convincente e tanto più lo spettatore è nello spettacolo, tanto meno ha voglia di applaudire, perché attorcigliato in un vortice di tracolli esistenziali, tanto che persino l’happy end si perde in una telefonata surreale, per aprire uno squarcio di realismo spiazzante, che di colpo porta in scena un’altra generazione, un altro progetto, una vita capace di guardare avanti in maniera generosa. Una nonna non convenzionale e madre degli ultimi. E il paragone fra quelle inconsistenze umane che negli anni 80 si abbandonarono all’eroina e i giovani adolescenti che nell’oggi social si narcotizzano di futuri impossibili è presto servita. L’ululato del protagonista, in un finto verismo scenico molto ben calibrato e ammalato, è l’ultimo verso di un essere che non trova modo di dar voce alla belva interiore, incastrata com’è in dialoghi con voci off sempre molto assertive e senza incertezze, figlie di una generazione ideologicamente non vacillante ma che ha generato con le sue certezze un presente sfaldato e inverosimile fino a 20 anni fa. Le certezze dei blocchi contrapposti sono lontane secoli e il nuovo ordine mondiale ha il sapore della disperante povertà. Come Esilio di Mariano Dammacco, questo lavoro ci proietta in un futuro che è già presente, con cui rifiutiamo di dialogare perché il fallimento è sempre meglio tenerlo lontano, almeno fino a quando non ci si aggrappa alle spalle e ci dice che a fallire siamo noi. E a quel punto ci vediamo in un buco nero con il vuoto attorno. Uno spettacolo di esemplare crudeltà, che fa sentire lo spettatore scomodo fin dalle prime battute, che ricorda La terra dei figli, l’ultima creazione del graphic novelist Gipi, per una prospettiva purtroppo non ottimistica ma da cui non riusciamo a staccare gli occhi.

Pretesa per certi versi analoga è drammaturgicamente perseguita, con una parola scenica colorita e senza mediazioni, da “Tropicana” una storia familiare per quattro personaggi scritta dalla trentenne Irene Lamponi, scuola veneta. La vicenda è presto detta: Lucia (la madre, interpretata da Elena Callegari) è stata lasciata da suo marito, del cui ritorno resta in attesa. Del suo andar via non riesce a darsi ragione proprio nell’età più esposta di Nina (la figlia, la stessa Lamponi), che vive in un mondo in cui iniziano ad affacciarsi i sentimenti fra imbranataggini e diffidenze. Contraltari di queste figure sono Meda (la vicina di casa e amica di Lucia, Cristina Cavalli) e Leo (il fidanzato di Nina, Marco Rizzo), la prima chiusa in un turpiloquio costante che corrisponde ad un’anestesia emotiva verso il mondo, il secondo invece appassionato e caldo, che cerca di portare sentimento in questo consesso tutto femminile e scomposto. La costruzione drammaturgica proprio perché fatta di contrappesi non in equilibrio è interessante (anche se non perfetta) e viene affidata alla regia di Andrea Collavino, che deve cercare il modo, invece, di creare una struttura a- là-Calder, dove tutto risulti in armonia rispetto alla direzione prescelta.

imgresize-1-phpA far da contraltare all’universo emotivamente dissestato della famiglia-non famiglia un fondale scenico da cameretta dei bambini, azzurro e con le nuvolette d’ovatta, il mobilio da stanzetta, insomma un mondo che vorrebbe uscire dall’infanzia ma dove tutti, adulti compresi, si comportano come bambini. 

Insomma una serie di pensieri interessanti e tutti un po’ in contrasto, dove però l’amalgama scenica non arriva a bersaglio. La regia infatti, a nostro parere, trova una modalità realmente efficace per porgere allo spettatore i dubbi e i conflitti che il testo vuole sviluppare (non senza qualche ingenuità e piattezza, come si diceva, specie nella figura di Meda). Alcuni incompiuti drammaturgici infatti, risultano poi in una composta dal sapore incerto: figure inchiodate in un recitato di ambiente sit com, che finisce per incastrarle in una gruccia caratteriale da cui non riescono a scuotersi, lasciando la sensazione di poca profondità, ed il personaggio che va in maggior sofferenza è proprio quello della ragazza adolescente, a testimonianza di come il racconto di questa età sia un coltello assai tagliente e senza manico, che bisogna impugnare dal verso giusto e con molto molta accortezza.

 

MONDO CANE

di Matteo De Blasio e Daniele Turconi
con Daniele Turconi
alla console Matteo De Blasio
Frigoproduzioni

 

TROPICANA

testo Irene Lamponi
creazione drammaturgica realizzata con il sostegno di “CRISI – Teatro Valle Occupato” 
con Cristina Cavalli, Elena Callegari, Irene Lamponi, Marco Rizzo 
regia Andrea Collavino 
produzione Fondazione Luzzati Teatro della Tosse Onlus

Hinterland, stagione 1: viaggio in lingua originale fra senso di vuoto e senso di giustizia

IVANA SALVEMINI | Non sono i delitti, non sono le immagini crude, forse sono i colori, i blu; o forse è il piano, ritmico, martellante che fa salire l’angoscia, il senso di attesa, la sospensione. Saranno tutte queste cose insieme, ma Hinterland, stagione 1, 4 episodi da un’ora e mezza l’uno, rapisce.

La prima cosa che vi inchioderà al divano sarà il panorama delle care e vecchie scogliere frastagliate del Galles e la corsa dell’ispettore capo Tom Mathias (MATHAIAS: si, si pronuncia così, non cercate doppiatori, per fortuna non ce ne sono: solo sottotitoli), disperata, ritmica anch’essa, di un uomo che corre per fuggire, da qualcosa o da qualcuno, da se stesso, dal suo lavoro o dalla sua vita, non si sa, ma corre. Solo. Senza cuffie, senza orologi segnatempo, segna battiti al minuto. Nulla. Corre. Il mare accanto a lui, il vuoto di un precipizio accanto a lui. I silenzi in questo capolavoro sono tanti, immensi, pieni, urlanti.

hinterland-mathias_richard-harrington-c-fiction-factory_s4c_all3media_tinopolis-1Lo sguardo di Mathias vi si insinuerà, non solo perché uomo di bell’aspetto (molto di bell’aspetto). In quello sguardo, in quelle scogliere ci senti Emily Bronte, abita la tragedia, quella vera, quella tosta, da Eschilo a Shakespeare. Sono solo sensazioni, sono attese sospese. Il paesaggio è protagonista, non solo per la sua bellezza davvero mozzafiato, ma per quei vuoti e quei silenzi che separano sparuti villaggi, di poche decine di persone, talvolta, vicinissimi ma distanti, dove la semplicità della vita legata alla terra, non risparmia segreti profondi e terribili, crudi quanto inutili e stupidi.

La verità la vedi nelle rughe della gente, in quei silenzi, negli sguardi verso la collina o verso il mare, nelle mani: secche, tagliate, rotte dal lavoro, dalla terra, dal mare, dal vento.

La lingua gaelica[1], rude nella pronuncia, emerge nei nomi dei paesini, dei villaggi, ma più per marcare che quel territorio è diverso, separato dagli altri, è un mondo a parte. Quel mondo dove forse Tom ha cercato una fuga dal dolore profondo che lo opprime, che gli toglie il respiro e il sonno, che urla nei suoi sguardi e nelle sue parole essenziali. Ecco, tutto qui è essenziale, non c’è il superfluo, la terra non concede il superfluo e neanche la vita. Il dolore ti ha fatto scegliere l’essenziale, quel che serve non è una casa ma un tetto, Tom vive in una casa prefabbricata. Un caravan. L’unico luogo dove ha scelto di vivere è la scogliera, davanti: il vuoto, il mare, il precipizio, il silenzio. Nessuno intorno. Nessuna suppellettile, solo un letto per dormire, quasi un giaciglio. Una scelta. Una fuga impossibile e vana dal dolore o da una colpa.

hint00Tom è un uomo giusto e come gli uomini giusti spesso cozza con l’autorità. Importante è la giustizia, essenziale, anche qui, imprescindibile.

Un’ultima nota è d’obbligo per la colonna sonora, notevole accompagnamento dell’opera, costituita dalle musiche originali di John Hardy, disponibile su iTunes.

Quel che c’è da dire è che i britannici sanno costruire con maestria la drammaturgia seriale, ed una di queste costruzioni, originale Netflix, è River, da non lasciarsi sfuggire e che ha molto a che fare con la serie di cui stiamo parlando, un legame che va ben oltre i delitti da risolvere, ma che riguarda l’indagine sul personaggio: qui, in Hinterland, un grandissimo Richard Harrington, lì un titanico Stellan Skarsgard. Sarà forse lo spirito della vecchia cara Europa che ci portiamo dentro, senza neanche accorgercene, che tanto dista dai crime, rispettabilissimi, americani, nei quali l’azione prevale sul non detto, sul non visto, sui macigni che possono albergare il cuore di un personaggio, e che rende tutto il resto, un contorno, uno sfondo.

Il tentativo di sopravvivere ai propri fantasmi, di sopravvivere malgrado tutto al dolore, alla perdita, accomunano i due personaggi, in River il fantasma, lato sensu, è presente sotto forma delle visioni che perseguitano il detective, in Hinterland, invece i fantasmi sono solo sussurrati, sono le lacrime che solcano il viso di Tom e il suo bisogno di solitudine e la negazione di una vita altra dal lavoro.

Il dolore, la colpa, la responsabilità, il castigo: topoi della tragedia greca che si affacciano nella serialità televisiva.

https://www.youtube.com/watch?v=3oaFB_9N5Lk

 

Netflix, Hinterland, stagione 1, 4 episodi

le stagioni sono ancora in corso, l’ultima è del 2016, ma non ancora presente sulla piattaforma italiana

[1] (n.d.a. gli episodi sono stati girati due volte, nelle due lingue: gaelico ed inglese)

Next 2016: catalogo critico della scena lombarda

ELENA SCOLARI | Numeri numeri numeri! 27 trailer di 20 minuti per altrettanti spettacoli e compagnie lombarde in 2 giorni per un totale di 540 minuti. 9 ore di teatro. E’ uno sporco lavoro ma qualcuno lo deve pur fare… PAC ha assistito a questa maratona teatrale che farebbe invidia a Chicco Mentana.

Che cos’è Next? E’ un progetto di Regione Lombardia con la collaborazione della salvifica Fondazione Cariplo che consente a un numero definito di compagnie professionali selezionate da una commissione di presentare agli operatori del settore (nella moda si direbbe “i buyer”) un promo di 20 minuti degli spettacoli che debutteranno nella stagione. Queste compagnie otterranno poi un finanziamento.

next
L’edizione 2016 di Next Laboratorio delle idee è la prima dopo la riforma operata dalla regione, tale riforma ha ridimensionato sensibilmente l’entità dei contributi e ha inopinatamente espunto dalla vetrina il settore del teatro ragazzi, che fino al 2015 presentava le produzioni per pubblico giovane insieme alle compagnie “adulte”, scelta che aveva finalmente dato una dignità paritaria alla categoria, offrendo la possibilità di mostrarsi anche ad operatori solitamente non troppo attenti agli spettacoli per i piccoli, con qualche gradita sorpresa. Con questa nuova formula gli spettacoli per ragazzi nell’ambito di Next saranno solo 5, selezionati unicamente su carta e visibili, nella loro forma definitiva e completa, al festival Segnali organizzato dal Teatro del Buratto e da Elsinor e che si terrà a maggio 2017. Ci pare un’anomalia e un passo indietro per un settore che invece offre proposte di qualità, spesso con maggior cura dello spettatore di quanto non avvenga nel teatro tout court.

Detto questo diamo un sintetico diario di bordo di quanto visto nelle due giornate presso i teatri Franco Parenti e Elfo Puccini, una trasvolata sulla prosa e la danza che vedremo nei prossimi mesi in Lombardia.
Per completezza segnaliamo che ci siamo presi qualche breve pausa d’aria nella visione, pertanto non ce ne vogliano i non citati.
La danza occupa circa il 25% delle produzioni presentate: Teatro delle Moire con Mash mostra una bozza ancora acerba e piuttosto banale di due giovani donne di nazionalità diverse che si incontrano influenzandosi a vicenda; Claps con TRE | 14 (tre | qUattordici) invece porta un’idea già più compiuta e che fa trasparire una regia e una visione d’insieme decisamente più organiche e armoniose; Csc Anymore propone L’arcobaleno di Bianca, elegante lavoro sui colori con un bell’utilizzo di oggetti trasformabili; di Artedanzae20 abbiamo visto Vicolo dello specchio, un confuso esperimento un po’ performance, un po’ teatro, un po’ danza, poco intelligibile, una galleria di personaggi di cui non si intravede il costrutto; Teatro Grande di Brescia presenta Plutone, il promo è consistito in tre danzatrici che girano in tondo per tutti i 20 minuti, variando il diametro della circonferenza. Ora, qui ci permettiamo di affermare che, con tutto l’amore per il concettuale, non ne possiamo più di spettacoli che non si capiscono, di intellettualismi incomprensibili ai più e di titoli pieni di trattini, numeri, parentesi, hashtag, maiuscole e minuscole distribuite a pioggia. eC/chE-cA(Spi)#ta 4.0

Nel campo della prosa ci limitiamo a dare conto di quanto ci ha più colpito, nel bene e nel male. Considerando sempre l’impressione parziale che si può avere da un breve trailer di lavori a volte già vicini al debutto a volte ancora in incubazione.
Corrado D’Elia per l’omonima compagnia si prova con Moby Dick, abbiamo visto una semplice lettura con note a margine dell’interprete ma possiamo dire di aver intravisto una gamma di sfumature già interessanti e di sicura sintonia con un testo assai complesso. MTM Manifatture Teatrali Milanesi (ex Teatro Litta + Quelli di Grock) presenta Il più bel giorno della mia vita, purtroppo, ad oggi, ci è parso uno spettacolo superficiale, di stile cabarettistico non nella sua più alta espressione, ammiccante e facilone. Eccentrici Dadarò sperimenta la messinscena di un testo particolare di Eric Assous, una scelta non scontata e la cui qualità sembra essere in un’intrinseca inconcludenza ben recitata (con Rossella Rapisarda e Antonio Rosti).

Tra i classici ben diretti e senza sorprese citiamo Il misantropo di Elsinor, bel cast che promette una realizzazione solida e pulita (Stefano Braschi, Monica Conti, Roberto Trifirò gli interpreti principali) e le tanto amate Liasons dangereuses di Choderlos de Laclos che vive nell’allestimento del CTB di Brescia, in cui Elena Bucci/Marchesa di Merteuil vibra di giusta e sprezzante perfidia pur nella staticità epistolare.
Ci ha convinto l’Erodiàs di Testori nell’allestimento di Teatro i con la sempre bravissima Federica Fracassi, barbuta, ne vediamo solo la testa, tenuta in grembo da un manichino in abito settecentesco privo di capo. Una soluzione bella e con un ironico impatto drammatico. (Regia di Renzo Martinelli).

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Tra i classici non convincenti invece sta il Giulio Cesare di Teatro degli Incamminati per la regia di Alberto Oliva, impegno visibile ma gran gusto per il grand guignol privo di raffinatezza e sfumature.

Ricordiamo poi alcuni spettacoli da testi originali, interessanti per vari aspetti: Un alt(r)o Everest di Atir Teatro Ringhiera, un’appassionante storia di montagna di Mattia Fabbris e Jacopo Bicocchi, interpreti sicuri e che raccontano con ritmo e montaggio molto curato un’amicizia profonda e sventurata. Bedda Maki comprodotto da La bilancia/Teatro Martinitt, finalmente una commedia ben scritta e tradizionale nel senso professionale del termine, che affronta con una schiettezza encomiabile la falsa modernità di tante mode insulse che si scontra con il tema delle radici, geografiche e anagrafiche, ingiustamente percepite come démodé.
Teatro OutOff si imbarca in un progetto che è potenzialmente molto interessante e prova di nuovo la volontà di una certa generazione (diciamo i 40enni per semplificare) di indagare gli anni di piombo in Italia, con L’editore di Nanni Balestrini si racconta il ritrovamento del corpo di Giangiacomo Feltrinelli e molto di quello che è accaduto intorno a questo fatto. C’è però bisogno di fare pulizia dei luoghi comuni e di suggerire una riflessione distaccata e che faccia tesoro dei decenni trascorsi da allora.
Collaborators di Teatro Filodrammatici affronta un testo di John Hodge, brillantemente tradotto e diretto da Bruno Fornasari. Mosca, fine anni ’30, allo scrittore Michail Bulgakov, perseguitato e sospettato dalla polizia russa, viene proposto di scrivere una commedia su Stalin, bel ritmo, buone battute. Rimandiamo alla versione completa per scoprire se venderà la sua arte. L’Eclisse di Joyce Carol Oates di Teatro dell’Elfo è un testo serio e ironico al contempo, sulla fragilità della decadenza senile, molto ben interpretato da Ida Marinelli e Elena Ghiaurov per la regia di Francesco Frongia, un argomento difficile affrontato con divertita serietà.
Chiudiamo col solito stupore fanciullesco che ci rapisce grazie  alle marionette operistiche dei Colla, quest’anno l’opera è il poco frequentato Giustino di Handel.

Il panorama lombardo è variato, non si intravedono line tematiche particolari, un’annata mista, forse segno di una contemporaneità complessa e del tentativo di misurarsi con argomenti differenti, per districarsi in un periodo che dobbiamo provare tutti a leggere cambiando tanti angoli di prospettiva.

 

Family Affair, ovvero i nuovi ritratti di famiglia di Zimmerfrei

VALENTINA SORTE | In quanti modi si può ricercare la comodità in una poltrona scomoda? Innumerevoli, e Munari ne sa qualcosa. E in quanti modi si può cercare di raccontare la nuova morfologia della famiglia contemporanea? Altrettanti, e anche il collettivo Zimmerfrei grazie a Family Affair ne sa qualcosa. Il primo condensa la sua ricerca in 14 fotogrammi, il secondo ritrae l’ecosistema famiglia in una performance multimediale di 70 minuti, immortalandone le infinite declinazioni.

fa-milano_sergio-e-adeleSi tratta di un originale progetto di teatro documentario e partecipativo che punta a riflettere sulla trasformazione morfologica, antropologica e fenomenologica della famiglia contemporanea, attraverso un format che si ripete identico in ognuna delle sue otto tappe ma che giunge ogni volta a risultati diversi.

Nato nel 2015, il progetto è stato commissionato e coprodotto da Open Latitudes, un network europeo che mira a promuovere la contaminazione tra generi e l’uso di nuovi linguaggi nel campo delle performing arts e a sostenere lavori di rilevanza sociale che coinvolgano performer non professionisti, attraverso modalità di creazione residenziale e partecipativa.

E in Family Affair ci sono tutte queste prerogative. Innanzitutto nel DNA di Zimmerfrei c’è una forte ibridazione di linguaggi di default, data dall’ecletticità e dalla trasversalità dei percorsi dei suoi componenti: Massimo Carozzi, Anna de Manincor e Anna Rispoli. Rispettivamente sound designer e compositore, film maker, artista visiva e performer, regista e artista. I loro lavori spaziano con disinvoltura dalle arti visive alle installazioni sonore e ambientali, dalla performance alla fotografia, dai film documentari alle video-ricognizioni degli spazi urbani. La tappa milanese, presentata all’interno di Danae Festival, non smentisce affatto questa vocazione. In secondo luogo, in ogni città coinvolta nel progetto, ZimmerFrei e la struttura ospitante organizzano un laboratorio di creazione di circa tre settimane, aperto a un numero variabile di famiglie residenti. Infine, la famiglia contemporanea è sicuramente un campo di indagine di alta rilevanza sociale. A Lille il focus sono stati i figli, a Valenciennes i padri single, a Budapest la maternità e il maternage, a Varsavia le famiglie degli intermittenti dello spettacolo, a Torres Novas l’eredità, a Milano la fratellanza/sorellanza. A Losanna saranno le famiglie childfree e a Gand, in Belgio, gli spazi abitativi.

Veniamo però a Family Affair|Milano. Qui il lavoro sulla Fratellanza/Sorellanza ha coinvolto in tutto cinque nuclei familiari ed è stato declinato in tutte le sue possibili sfaccettature. Da un paradigma più strettamente biologico e codificato che nelle sue estensioni comprende anche la famiglia acquisita, a un paradigma più rizomatico e intersoggettivo, a volte privo di una vera e propria tassonomia come nel caso della famiglia d’elezione. Ce n’è per tutti i gusti: famiglie allargate, famiglie informali, famiglie d’elezione, famiglie ricomposte, famiglie mosaico, famiglie temporanee, costellazioni familiari, cespugli relazionali.

La visionarietà di Zimmerfrei sta proprio nell’aver capito che la trasformazione morfologica della famiglia richiede un’equivalente trasformazione delle modalità narrative. Invece che scegliere l’autoritratto biografico, il collettivo opta per dei videoritratti in cui le storie raccontate vengono consegnate ad un altro componente della famiglia o ad un altro partecipante, costruendo così un patrimonio collettivo di esperienze.

Quest’operazione di dissociazione e sovrapposizione tra chi narra e chi è narrato da una parte, e tra voce e immagine dall’altra è funzionale alla forma partecipativa del progetto ed interessante come scelta registica da parte di Anna de Manincor. L’io narrato vive sia come immagine in un video proiettato in formato maxi sullo fondo della scena mentre è ritratto a occhi chiusi nel proprio ambiente domestico, sia come presenza reale ma muta, al centro del palcoscenico. L’io narrante è affidato invece ad un’altra persona, lì accanto. In cuffia la coppia ascolta la registrazione audio originale, in cui ovviamente io narrato e io narrante coincidono nella stessa persona. A turno, l’uno ripete ed enuncia le vicende biografiche dell’altro, in sincrono alla voce originale o in leggera differita.

danae-festival-2016-zimmerfrei-family-affair-milano-480x320Per chi è coinvolto direttamente nella performance è sicuramente un’esperienza di reciprocità attraverso un’azione di scomposizione e ricomposizione. Chi assiste da fuori percepisce una grande coralità. Soprattutto se si considera che per gran parte del lavoro tutti i partecipanti, bambini compresi, abitano in maniera spontanea e informale lo spazio performativo. Familiare appunto.

Lo spettacolo è strutturato in moduli piuttosto riconoscibili e prevede, oltre alle parti più biografiche, dei momenti più neutri in cui vengono citate le proprie fonti: dalle indagini Istat ed Eurostat su composizione e tendenze della popolazione italiana ed europea, allo studio dell’antropologo Marshall Sahlins su gradi e forme della parentela.

Quelli più riusciti sono i momenti corali. I videoritratti in primis, ma anche la lettura polifonica di alcune brevi risposte (a delle domande che possiamo solo intuire), condotta sempre secondo questa sorta di ipallage, per cui chi legge non è mai autore di ciò che pronuncia ma, insieme agli altri, crea un’orchestra di voci e di vissuto.

Dal punto di vista della contaminazione non si può dimenticare la sequenza in cui la performance passa da un uso incrociato ma sequenziale di diversi strumenti e linguaggi a un uso quasi ipermediale di questi. Sfruttando la particolare struttura del Teatro LaCucina, Zimmerfrei moltiplica infatti gli spazi performativi e crea una narrazione parallela e sincrona a quella principale. Quasi fossero degli ipertesti.

Altri momenti convincono meno come scrittura drammaturgica, anche se suggestivi nella loro realizzazione. Penso ad esempio all’uso delle tende canadesi verso la parte conclusiva. Ma due settimane sono veramente poche per un progetto così denso. L’esperimento è comunque molto interessante e di grande qualità, e la forma partecipativa scelta per lavorare sul tema chiede anche a chi lo riceve una lezione di reciprocità che va ben oltre la semplice fruizione dello spettacolo, e che varrebbe forse la pena includere come ulteriore riflessione di questo complesso lavoro.

 

Family Affair| Milano

concept ZimmerFrei

regia Anna de Manincor

drammaturgia Anna Rispoli, Anna de Manincor

suono Massimo Carozzi

assistente Gianluca Mattei

video Anna de Manincor, Gianluca Mattei

con Francesca Bonelli, Sergio Candreva, Mercedes Casali, Cristina Castigliola, Andrea Cavallari, Anita Cavallari, Cristina Cotterchio, Adele Gropplero, Evangelia Kopidou, Donato Manniello, Giorgia Maretta, Anita Mennuni, Francesco Mennuni, Sveva Mennuni, Vincenzo Mennuni, Michela Oleotti, Tino Palestra, Fausto Pisoni, Claudia Toniolo, Emma Vallana, Eva Vallana

coproduzione Network Open Latitudes (Latitudes Contemporaines, Vooruit, L’Arsenic, Body/Mind, Teatro delle Moire/Danae Festival, Sin Arts Culture, le phénix, MIR Festival, Materiais Diversos), ZimmerFrei
con il supporto di Culture Programme UE
in collaborazione con Olinda

Visto il 06/11/2016 a Teatro LaCucina nel quadro di Danae Festival