fbpx
sabato, Aprile 20, 2024
Home Blog Page 3

La forma della vita nel mondo fisico e metafisico. Intervista a Daniele Natale

GIULIA BONGHI | L’inspiegabile Hassenso è uno spettacolo di danza contemporanea con musiche dal vivo; una produzione della compagnia emergente Organic – Laboratorio d’arte, fondata da Daniele e Francesco Pio Natale. Nato nel 2021, ha visto diversi palcoscenici tra Campania, Puglia e Molise, due atti raccontano il ciclo della vita – nascita, crescita e morte – prima nel mondo fisico e poi in una dimensione metafisica, in cui il corpo non esiste ed è messa in atto la forma.
L’ispirazione nasce dal ciclo scultoreo CREPE di Flavio Grasso. Il termine indica quelle mancanze o fenditure che si trovano all’interno di un corpo organico inizialmente integro. L’artista interagisce con la natura, il legno in particolare, attraverso l’applicazione di stucco blu. Va a colmare quei vuoti rispettando ed elevando la forma organica sia dal punto di vista simbolico che materiale. Lo scultore irpino cura la scenografia di questo allestimento, ideando una figura arborea e, in contrasto, tre figure plastiche geometriche tridimensionali.

Daniele Natale è il direttore creativo e coreografo. Ballerino classico e contemporaneo, si interroga sull’efficacia del mezzo espressivo attuale della danza, sperimentando con il linguaggio corporeo e cercando una nuova forma.
Nella prima parte di questa pièce i movimenti aderiscono perfettamente alla musica, sembrano comandati oltre che generati da essa. La conclusione rappresenta l’esaurimento del corpo e del mondo in cui ha vissuto. Nella seconda parte viene riportato in atto lo stesso ciclo di vita, ma in un mondo metafisico, in cui il corpo non esiste. Le figure sembrano distaccate dal reale e dalla musica intesa come spazio sonoro. I gesti sono più destrutturati, c’è la ricerca di qualcosa che non è la vita ma il sentire delle forme.
Brandelli di musica e di coreografia si ripetono, ma trovando una diversa evoluzione. La ricerca è sulla forma, dapprima vissuta attraverso un corpo; successivamente segue la domanda: e se quel corpo non ci fosse?

Abbiamo intervistato Daniele Natale.

Ph Clarissa Iapolla

L’idea dello spettacolo è nata dal ciclo scultoreo CREPE di Flavio Grasso. Cosa ha destato il vostro interesse?

La tematica che ci interessava era la ricerca di una forma organica e di una forma non organica. Nel suo ciclo di scultura vi è l’ausilio di elementi organici come il legno e di forme con colori artificiali. È questa contrapposizione che ha acceso il nostro interesse. Il suo ciclo di scultura viene poi riletto e riadattato nella chiave del balletto e in quella musicale.

La parte che va oltre la materia organica, quindi quella più metafisica, è stata uno sviluppo che è avvenuto all’interno dello spettacolo?

Esatto, è stata un’ispirazione, il ciclo è lo spunto iniziale.

Avete altre figure di riferimento nel vostro lavoro? Danzatori, musicisti, artisti contemporanei o di un passato più o meno remoto?

Per quanto riguarda la musica Pio ha preso spunto da Nino Rota, è partito da alcuni suoi spartiti che poi ha completamente stravolto. È comunque molto classicista e le sue composizioni sono abbastanza strutturate. Io a livello di tecnica mi ispiro molto alla danza classica. Tutto riletto in chiave contemporanea. Mi piace molto Alexander Ekman, come struttura gli spettacoli e le sue performance. Nel passato delle Performing Arts, penso a Yves Klein; anche perché, in questo caso, il monochrome blu che lui ha creato, e in generale l’utilizzo del blu, risuona con l’estetica di Flavio. Klein ha fatto anche performance danzate o, meglio, con un accenno di danza. Poi Marina Abramović e Joseph Beuys.
A parte Ekman, mi interessano molto i performer, trovo che le performance siano molto più di impatto emotivo. Chiaramente il balletto lo tengo in considerazione da un punto di vista estetico, mi interessa il piacere del bello all’occhio e all’udito, cerco di trovare un giusto compromesso tra l’estetica e il concettuale, non puoi prenderla solo da un lato. Se il lavoro risulta troppo ‘estetico’ allora si tende a una cosa prettamente pantomimica, come può essere il balletto classico; invece se insiste troppo sul lato concettuale ci si sbilancia su orizzonti di nicchia e sono poche le persone educate a queste cose, quindi cerchiamo un giusto equilibrio fra le due parti.

La ricerca, in ogni caso, di una forma bella è sempre presente, immagino.

Sì, diciamo di una forma estetica. Qualcosa di strutturato che faccia intendere che dietro allo spettacolo c’è un lavoro estetico, di ricerca del bello. È sempre presente una forte base di ricerca e di studio estetico.

Ph Clarissa Iapolla

In questo spettacolo c’è spazio per l’improvvisazione o è tutto codificato?

Ci sono alcuni momenti in cui i ballerini improvvisano. La musica ti porta comunque a schematizzare il movimento, a renderlo più quadrato. Si lascia spazio ai ballerini anche perché lo spettacolo parla di questi corpi che si formano e, non essendo tutti uguali, in alcuni momenti hanno loro attimi in cui stanno capendo e trovando sé stessi. Ad esempio, all’inizio del primo atto c’è un momento in cui le donne emergono, come per dire “Anch’io esisto, ti faccio vedere che so fare”.

Attimi estremamente personali, in cui ogni danzatore esprime sé stesso e il suo corpo. Si può dire che la ricerca collettiva della forma lasci spazio alla ricerca personale, proprio perché ognuno è diverso?

Esatto, questo accade all’interno di un connubio tra un mondo fisico e un mondo metafisico. In alcuni momenti è stata data più importanza alla musica. Ci teniamo a specificare che non si tratta di uno spettacolo di danza ma di danza e musica, perché spesso e volentieri la musica nella danza viene messa in secondo piano, spesso è registrata e per me è importante che invece la musica sia sempre dal vivo, perché come arte scenica deve avere il giusto spazio.

È corretto affermare che in questo spettacolo la musica si pone proprio come materia generatrice?

Dalla musica parte e finisce tutto. La composizione musicale non è semplicemente musica di sottofondo ma è la concretizzazione del pensiero dello spettacolo, il fulcro intorno al quale i danzatori creano e non si limitano a riprodurre la composizione coreografica. È un ciclo che inizia con la musica e muore con la musica. Ogni replica è la ripetizione di un ciclo, come se fosse uno spettacolo eterno.

Il titolo, L’inspiegabile Hassenso, emerge dalla volontà di portare alle estreme conseguenze l’approvazione del pubblico, basata sulla percezione organica di inizio, sviluppo e conclusione di uno spettacolo?

Ha un duplice significato: ciò che è organico “ha senso”, quindi è qualcosa di sensato di per sé che non necessita l’“assenso” del pubblico. Essendo uno spettacolo concettuale sia dal punto di vista della danza sia per la musica, il pubblico spesso e volentieri si trova ad applaudire qualcosa che non capisce. Il pubblico applaude perché magari finisce una scena o finisce la musica. Però non è giusto applaudire qualcosa che non hai compreso, per questo l’“inspiegabilità”: lo spettacolo pone davanti a un sovvertimento della struttura, facendo scaturire “l’inspiegabile assenso” dinanzi a un’opera non organica. La scena educa lo spettatore.

Credi che il pubblico odierno sia troppo o troppo poco critico nei confronti del mondo della danza?

Spesso abbiamo trovato nel pubblico molti conservatori, ma anche tra colleghi. Secondo me non si viene educati al cambiamento. Non dico che il nostro spettacolo sia una rivoluzione né il nuovo manifesto del secolo. Ho avuto l’impressione che – dato che non siamo una compagnia molto conosciuta – la gente sia un po’ prevenuta più che critica. Siamo consapevoli che ci siano ancora tanti errori ma la struttura dello spettacolo sta funzionando abbastanza bene e quindi vuol dire che questa cosa sta piacendo. Il problema è che spesso viene criticato prima ancora di essere visto. Forse i più critici sono coloro che lavorano proprio in quest’ambito. Il pubblico, una volta che ha visto il prodotto finale, se gli è piaciuto, l’hai persuaso. Invece il danzatore o il musicista sono più difficili da convincere.

Ph Clarissa Iapolla

Questo spettacolo è lontano da sperimentazioni tecno-digitali. Prevedi un avvicinamento a questo tipo di linguaggio nei lavori futuri?

A me piacciono molto le arti visive e l’utilizzo di proiezioni. Noi però ci rifacciamo molto all’arte classica, al classicismo riletto in chiave contemporanea, perché chiaramente le cose si evolvono. Non è detto che anche noi nel prossimo futuro non utilizzeremo anche questi linguaggi.

La ricerca di un corpo metafisico è un tentativo di superamento dei limiti della natura umana. Come leggi il transumanesimo odierno che sostiene l’uso delle scoperte scientifiche e tecnologiche per aumentare le capacità fisiche e cognitive dell’essere umano?

Concettualmente è avvicinabile, anche se è aleatorio spingersi molto oltre per poi rischiare di crollare. Quando si è nuovi come noi è difficile portare in giro un prodotto estremo. potrebbe rivelarsi l’ultimo spettacolo. Siamo più cauti, ma senza togliere nulla. Non ci poniamo limiti agli estremismi. Ad oggi c’è solo il concetto del metafisico, più che il prodotto. Il nostro spettacolo direi piuttosto che è molto barocco.

È fisiologico per un’artista o una compagnia agli inizi, confrontarsi prima con tutto quello che c’è stato prima, no?

Si parte sempre da una base classica. Anche nella danza: per essere un buon danzatore contemporaneo bisogna avere forti basi classiche, questo non vuol dire essere un ballerino classico. Bisogna essere consapevoli di ciò che c’è stato prima per poi puntare a qualcosa che va oltre ed essere proiettati verso il futuro.

Avete un iter creativo? Improvvisate assieme o arrivate con materiale pronto?

Gli spettacoli nascono da una tematica di fondo. Entrambi, io e Pio, ci appuntiamo delle intenzioni che sviluppiamo insieme e da questa base creiamo. All’inizio era un lavoro un po’ artificioso ma adesso abbiamo trovato un nostro metodo funzionale. La prima volta che è andato in scena, questo spettacolo era ancora una bozza preparatoria, oggi si è sviluppato molto ma non ha ancora raggiunto il punto più alto delle sue potenzialità. È un’evoluzione continua. Anche per questo abbiamo bisogno di critiche negative, se va tutto bene, muore la creatività.

Avete in cantiere nuovi progetti?

Il prossimo spettacolo lo dovremmo mettere in scena l’anno prossimo. Stiamo lavorando sui riti pagani. Per ora vediamo l’intera performance come il rito di due dèi in particolare, Apollo e Tersicore, il dio della musica e la dea protettrice della danza, come se fosse un’ovazione a queste divinità, per augurare un connubio a queste due arti sceniche. Siccome quello che facciamo noi è danza e musica insieme è come se fosse per noi un buon auspicio alla fusione di queste due arti. Forse facciamo un passo ancora più indietro, perché la musica sarà molto rituale. Tutto letto in chiave contemporanea.

L’INSPIEGABILE HASSENSO

Direzione artistica e coreografia Daniele Natale
Direzione musicale e musiche Francesco Pio Natale
Scenografie Flavio Grasso
Danzatori Chiara Cioci, Giorgio Lombardo, Elisa Nania, Paola Vita Re, Elina Vasques
Musicisti Benedetto Grasso, Giovanni Pizzulo             
               
              

Assassina: il mondo come scena di Scaldati/Maresco

RITA CIRRINCIONE | Sulla scia delle commemorazioni, degli incontri e degli spettacoli messi in scena in occasione del decennale della scomparsa di Franco Scaldati, è tornato alla Sala Strehler del Teatro Biondo di Palermo, Assassina, uno dei testi più importanti e rappresentativi del drammaturgo palermitano, in cui ritroviamo i temi fondanti della sua scrittura poetica, con la regia di Franco Maresco – insieme a Claudia Uzzo e con la collaborazione di Umberto Cantone estremo omaggio del regista a Scaldati e al suo al teatro-mondo fonte di ispirazione e matrice del suo fare cinema.

Franco Scaldati e Franco Maresco

Già nel 2015 Franco Maresco aveva dedicato all’amico drammaturgo-poeta, a cui era legato da un profondo sodalizio umano e artistico, un film-documentario – Gli uomini di questa città io non li conosco – in cui con sguardo postumo ridefiniva quella poetica della marginalità che in gran parte sentiva sua, in un’intima riflessione sulla propria identità artistica e su un’eredità da raccogliere. E se già allora il regista vedeva i luoghi, i volti e il linguaggio della Palermo cantata da Scaldati destinati all’estinzione, in una recente intervista rilasciata in occasione di questo lavoro ha rincarato la dose affermando con il suo proverbiale cinismo che in futuro forse sarà bene evitare di mettere in scena le sue opere: “Meno Scaldati si farà e meglio sarà”.
Al di là del paradosso, è innegabile che, per la peculiarità della lingua-dialetto e di un canone attoriale basato su una particolare fisicità del corpo dell’attore, entrambi non codificati ma affidati alla memoria corporea di chi li ha appresi e condivisi lavorando a stretto contatto con il drammaturgo – non a caso ha scelto due attori come Gino Carista e, soprattutto, Melino Imparato, storico attore e collaboratore di Scaldati ed erede della sua Compagnia – sarà sempre più difficile far rivivere l’opera del Poeta-Sarto per come l’abbiamo conosciuta.
Ma il recente fermento laboratoriale intorno alla drammaturgia scaldatiana e le nuove forme sceniche che ne sono derivate – pensiamo a Indovina Ventura, progetto avviato in seno a Dicembre Scaldati finalizzato a esplorare e sviluppare il potenziale drammaturgico e musicale di quest’opera in chiave contemporanea  – conferma che il mondo poetico di Franco Scaldati continuerà a vivere e a parlare della contemporaneità. E, nonostante il suo scetticismo, alla fine dell’intervista anche Maresco lo ammette.

Ph. Ivan Nocera

Perennemente velata da una cortina trasparente su cui a tratti compaiono nubi e forme rarefatte che scorrono, mutano e poi scompaiono – la parte più cinematografica di questa  messinscena di Assassina insieme agli intermezzi musicali originali di Salvatore Bonafede – la scena rappresenta un angusto interno sul cui misero arredo sembra essersi depositata la polvere di tante vite; al centro, sormontato da una specie di altarino decorato con fiori e lumini posto sotto i ritratti dei genitori defunti, troneggia un mobile radio anni ’50 che, accendendosi e spegnendosi a suo piacimento, trasmette brani dello stesso periodo.

Qui si svolge la povera e insignificante routine giornaliera di ‘Vecchina’ (un perfetto Melino Imparato en travesti) con i suoi improbabili vezzi femminili, le sue pratiche di devozione verso le immagini dei genitori morti e quelle legate al cibo, ai bisogni fisiologici e a una approssimativa cura della persona; una quotidianità raccontata spesso in forma di autonarrazione come a farsi compagnia in una casa dove vive in solitudine.

Ph. Ivan Nocera

La sola altra presenza, infatti, è quella fantasmatica di ‘Fanciulla’, una giovane vestita di bianco con una coroncina di fiori che le cinge la testa e una croce sul petto (Aurora Falcone) che, in una sorta di coro a una voce, puntella la narrazione con frammenti di discorsi che vanno a comporre o integrare la poetica scaldatiana.
Si aggiungono le presenze più o meno immaginarie del topo Beniamino, della gallina Santina e della mosca Lucina – questi sì, con un nome proprio – con le quali Vecchina inscena continui battibecchi, come quelli messi in atto con la propria ombra, una dispettosa malummira, quasi personaggio vero e proprio.

Quando Vecchina a fine giornata si mette a letto, fa il suo ingresso con la sua andatura clownesca ‘Omino’, uno strambo mendicante ubriacone – Gino Carista nei panni di un personaggio parodistico da avanspettacolo – che tra una vecchia canzonetta e un siparietto infarcito di sberleffi si muove negli stessi spazi che abbiamo visto abitati da Vecchina e popolati dalle stesse presenze.

Ph. Ivan Nocera

Nel momento in cui Omino decide di andare a dormire, i due scoprono di abitare la stessa casa l’uno all’insaputa dell’altra. Ha inizio un interminabile scontro per rivendicarne il possesso, prima con aggressioni fisiche e verbali e poi, nel tentativo di venire a capo dell’equivoco, con ragionamenti e ricostruzioni temporali che, in un crescendo sempre più delirante, sfociano in una grottesca sequenza di ipotesi e dubbi: «Può essere ca vippi assai e sugnu ‘mbriacu?»; «Forsi mi cunfunnìu e trasìu ‘nta nautra casa?»; «Può esseri ca murìu e sugnu un fantasma?»; «Può esseri ca addivintavu pazzu e chista è una visioni?» si chiede Omino.
E Vecchina: «Può esseri ca staiu sunnannu e appena mi sduvigghiu chistu ca ‘un c’è chiù?»; «Ma si stamu ‘nta stessa casa, com’è ca ‘un ni canuscemu?»; «Nun sacciu chiù cu sugnu, si sugnu fimmina o masculu!»; «Capaci ca semu a stessa persuna!».

La realtà che sconfina nel sogno, il mondo dei vivi che coesiste con quello dei morti e dei fantasmi, l’identità che si fa confusa e incerta, l’intreccio tra vita e teatro, il doppio, la pazzia, il mistero: come un ingranaggio preciso e incalzante, la ridda di interrogativi demolisce progressivamente ogni certezza e mette in moto un gioco drammaturgico che porta dritto al mondo-teatro scaldatiano, a una realtà mutevole e inafferrabile come le nuvole che scorrono sul velario, per arrivare al finale in cui i morti prendono il posto dei vivi e i vivi sono solo dei fantasmi.

«L’interu munnu è una scena. Recitanu, cretini!» chiude Fanciulla con un sorriso tra l’indulgente e il canzonatorio. È solo una recita, stupidi! Tutto il mondo è solo teatro.

ASSASSINA

di Franco Scaldati
adattamento e regia Franco Maresco e Claudia Uzzo
regista collaboratore Umberto Cantone
con Gino Carista, Aurora Falcone, Melino Imparato
scene e costumi Cesare Inzerillo e Nicola Sferruzza
musiche Salvatore Bonafede
video Francesco Guttuso per Lumpen Film
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale / Teatro Biondo Palermo
in collaborazione con Associazione Lumpen

Teatro Biondo, Palermo | 17 marzo 2024

“Parlo all’oggi con Leopardi, cercando di arrivare a tutti”. Intervista ad Andrea Macaluso sulla Batracomiomachia

Foto di Carlo Settembrini

MATTEO BRIGHENTI | Giocare con la guerra per raccontarne la tragica stupidità. La Batracomiomachia – La battaglia delle rane e dei topi è una parodia dell’Iliade, il primo esempio in assoluto, per quel che ne sappiamo. Andrea Macaluso ha preso questo storico testo, che gli antichi amavano così tanto da attribuirlo erroneamente allo stesso Omero, e l’ha trasformato in un potente videogioco “monologato”. «Anche nei videogame si gioca alla guerra, ci si diverte – spiega – a massacrare altri individui, a volte a far fuori eserciti o popolazioni intere. Nello specifico, ci siamo orientati – continua – sulle sonorità dei videogame 8bit, “l’antichità classica” dei videogame, tornati però oggi in gran voga, tanto che a essi si ispirano molti degli odierni videogame indie».
Dunque un linguaggio estremamente contemporaneo in pieno contrasto con l’arcaicità della parola di Giacomo Leopardi appena diciassettenne: è sua infatti la scintillante traduzione in endecasillabi usata in scena. «Il corto circuito che si crea – interviene Macaluso – mi sembra estremamente interessante e calzante. Amo considerarlo uno spettacolo “pop”, nel senso alto – precisa – di una proposta che affronta una materia tanto affascinante quanto complessa, cercando però di arrivare a tutte e a tutti, sia agli adulti che ai ragazzi (a partire da un’età di almeno dodici anni)».
Comincia da qui e dalla bella accoglienza da parte del pubblico giovane e giovanissimo a Firenze in occasione di Materia Prima – il Festival di teatro contemporaneo ideato e curato da Murmuris – la mia intervista sulle ragioni, i motivi e la contemporaneità della Batracomiomachia con l’attore, regista e drammaturgo fiorentino, che fra il 2008 e il 2016 ha collaborato con Gabriele Lavia per sette spettacoli, per poi fondare quello spazio di libertà e di ricerca culturale che è Il Lavoratorio.

Foto di Gabriele Fossi / Materia Prima Festival 2024

Andrea, quando ho visto lo spettacolo la sala del Teatro Cantiere Florida era piena di ragazze e ragazzi delle scuole secondarie di primo e secondo grado. Qual è, secondo te, l’origine della loro attenzione e partecipazione alla tua Batracomiomachia? Come riesce a parlare all’oggi?

Credo che sia molto semplice. Lo spettacolo si muove in territori che ragazze e ragazzi conoscono molto bene: quello dell’epica (che hanno studiato recentemente a scuola) e quello dei videogame (in cui sono estremamente competenti). Questo fa sì che possano essere coinvolti a più livelli dallo spettacolo, leggerne tutti i riferimenti, sentirsi insomma pienamente “in gioco”.  Ecco perché dopo lo spettacolo sono perfettamente in grado di fare osservazioni estremamente precise e puntuali, di mettere in evidenza alcuni aspetti anche tecnici della costruzione della performance che a volte a un pubblico adulto potrebbero sfuggire, e di porre domande molto pertinenti sia sul senso del testo che sulle modalità con cui esso è stato portato in scena. La Batracomiomachia parla all’oggi potentemente, come solo i classici sanno fare.

Come sei entrato in contatto con questo testo?

È una passione adolescenziale, nata sui banchi del liceo classico. All’improvviso, durante le lezioni di letteratura greca, accanto ai grandi classici che si studiano approfonditamente, ci venne fatto accenno a uno strano e misterioso poemetto di attribuzione “pseudo-omerica”; il titolo era già tutto un programma. Quando poi cominciai a leggerlo, ne rimasi affascinato. E per molti anni rimase uno di quei testi a cui tornare periodicamente con interesse e curiosità, coltivando il sogno nel cassetto di poterne un giorno azzardare una versione scenica.

Quando hai capito che era venuto il momento di portarlo a teatro?

Qualche anno fa mi viene chiesto di fare un ciclo di letture dedicate ai classici greci nell’ambito di un festival archeologico che si svolge nella Valle dei templi di Agrigento. E per cinque anni, tutte le estati, ho il piacere di leggere al pubblico testi di letteratura greca antica, di vario genere: epica, filosofia, lirica, teatro. Com’è ovvio, alcuni testi “funzionano” più di altri nella lettura ad alta voce. La Batracomiomachia li vince tutti: il pubblico è conquistato, anzi direi letteralmente rapito dalla potenza ironica di quei versi. Decido, quindi, di riproporre la lettura più volte, anche in contesti diversi: in Sardegna, in Toscana, anche accompagnato musicalmente dal vivo. Da lì a pensare di farne un vero e propria versione scenica, il passo è stato breve. Nel 2021 ci viene offerta l’opportunità dal Teatrino dei Fondi di produrre lo spettacolo. Non ce lo siamo fatti dire due volte…

Foto di Gabriele Fossi / Materia Prima Festival 2024

Come sei intervenuto drammaturgicamente?

Nessun intervento. O meglio… un grande lavoro, prima di analisi e poi di memoria. Ma nessun taglio o modifica. Volevo accettare la sfida di portare sulla scena ogni singolo verso, di non tralasciare nemmeno una parola. E pur essendo versi ottocenteschi, peraltro caratterizzati dal gusto arcaizzante che Leopardi aveva, dunque particolarmente ostici e lontani da noi, trovare una possibilità di renderli contemporanei sulla scena. Mi sono solo limitato a non includere il proemio e l’invocazione alla musa, che introduce in senso letterario l’opera, perché lo spettacolo deve subito partire con gli eventi, in medias res. Però, in certo senso mi dispiace… sono versi bellissimi, in cui c’è già in nuce l’ironico contrasto tra l’enfasi epica e la ridicolaggine dei protagonisti. Ecco gli ultimi due: «Antica lite io canto, opre lontane / La Battaglia de’ topi e de le rane».

Che qualità ha, per un attore, la parola di Leopardi?

È una grande risorsa. Siamo di fronte a un genio assoluto, che a soli diciassette anni traduce splendidamente gli esametri greci dell’originale in endecasillabi italiani. Quando si ha a che fare con il testo di un grande poeta, in scena si è facilitati: il ritmo del verso, la qualità estremamente ricercata delle parole, la costante ironia, sono grandi aiuti al lavoro attoriale. Nel caso di quest’opera, è come se il testo stesso ti sostenesse e, allo stesso tempo, è come se fosse un pozzo senza fondo, una miniera di possibilità che rende ogni volta ricco di sorprese il lavoro delle prove e della performance scenica.

In scena, la Batracomiomachia non è rappresentata ma evocata attraverso le parole, o meglio, attraverso l’alterazione sonora dal vivo delle parole. Tutti i personaggi, infatti, dicono la loro con la loro propria voce. Da dove nasce l’idea del sound design? L’hai immaginato live fin da subito?

C’è stato un lungo lavoro di studio del testo per capire quale potesse essere la via giusta per portare sulla scena quest’opera. Un lavoro di mesi, in cui insieme al musicista Nicola Pedroni, abbiamo attraversato mille ipotesi, alcune solo immaginandole, altre sperimentandole. Una volta sgombrato il campo da ogni possibile tentativo di rappresentazione, siamo approdati al concetto di “evocazione”, appunto. Evocazione di luoghi, di situazioni, ma soprattutto di personaggi. Volevo che tutti i personaggi dicessero la loro, nel senso che il testo fosse tutto vissuto di volta in volta dal loro punto di vista. È stato dunque necessario trovare la voce di ciascun protagonista della vicenda, mettendo a punto una modalità di alterazione sonora live, data dal lavoro congiunto dell’attore e del sound design.

Che lavoro hai fatto quindi con il sound designer Marco Mantovani?

Una gran parte del lavoro è stata svolta individualmente; un’altra grande parte insieme. È stato svolta una lunga e complessa ricerca, poi campionatura e rielaborazione dei suoni a partire dal mondo dei videogame 8bit. Dopodiché è stata messa a punto con lunghe prove, prima in sala e poi in teatro, la modalità di distorsione live delle voci e l’equalizzazione dei suoni. È stato difficile contemperare l’udibilità e la comprensibilità di ogni parola di un testo così impegnativo con la deformazione estrema della voce: questo è un punto di equilibrio che deve essere perfettamente mantenuto in tutto lo spettacolo, dall’inizio alla fine. In questo senso, ma non solo, estremamente prezioso è stato anche il contributo della “prima spettatrice” Silvia Paoli.

Che effetto ti fa, da attore, sapere che qualcuno sta modificando la tua voce? Cosa produce sul tuo modo di dire il testo?

È allo stesso tempo molto destabilizzante ma anche in un certo qual modo rassicurante. In scena io sono da solo ma è come se fossimo in due: io affido la mia voce al microfono, ma quello che esce fuori è completamente diverso, perché frutto del lavoro del sound design. Una specie di sdoppiamento, di schizofrenia, se vogliamo, con cui, però, dopo un primo iniziale momento di smarrimento, ho imparato a giocare. E anche a divertirmi molto.

Per concludere, chi sono, per te, i topi e le rane di cui si parla? E per gli dèi, che guardano distanti e distaccati la carneficina, a chi ti sei ispirato?

Come in ogni grande testo, i personaggi sono archetipi. Incarnano, cioè, categorie eterne dell’essere umano. In questo caso i topi e le rane potrebbero essere qualcosa di molto lontano da noi, cioè i greci e i troiani dell’Iliade. Ma potrebbero essere anche qualcosa di molto vicino: due dei popoli coinvolti in una delle guerre che oggi si consumano davanti a noi. Sulla “superpotenza” straniera degli dèi, che se ne sta tranquilla a osservare ma pretende di decidere le sorti della guerra tramite l’invio di “truppe alleate” non mi pronuncio: il parallelo con la contemporaneità è fin troppo scontato.

Foto di Gabriele Fossi / Materia Prima Festival 2024

BATRACOMIOMACHIA
La battaglia delle rane e dei topi
con Andrea Macaluso
live sound design Marco Mantovani
musiche Nicola Pedroni
drammaturgia e regia Andrea Macaluso
tratto da “La Batracomiomachia” – traduzione di Giacomo Leopardi
direzione tecnica Angelo Italiano
prima spettatrice Silvia Paoli
produzione Teatrino dei Fondi
in collaborazione con Il Lavoratorio

Teatro Cantiere Florida, Firenze | 4 marzo 2024

Richard III in stazione: i versi originali di Shakespeare risuonano nel Cielo sotto Milano

EUGENIO MIRONE | Ci sono luoghi a Milano, ma sarebbe meglio dire sotto Milano, un po’ magici. Luoghi frequentati ogni giorno da migliaia di persone, lavoratori, studenti, cittadini e pendolari che, per spostarsi in città, prendono “i mezzi”. Tra i più famosi del capoluogo lombardo bisogna menzionare il celebre “passante”, vero e proprio cuore del servizio suburbano di Milano, che collega le linee di Nord-Ovest con quelle provenienti da Sud-Est.
Dodici anni fa l’idea: utilizzare spazi sotterranei, principalmente di gestione RFI (Rete Ferroviaria Italiana), come sedi di cultura e vita sociale. Nel 2012 nacque così l’associazione Artepassante per venire incontro all’esigenza di alcune realtà culturali di trovare una casa per la propria creatività. Nell’operazione vennero coinvolte sette stazioni del passante ferroviario, oggi spazi gestiti da altrettante associazioni che orbitano intorno ad Artepassante: Villapizzone, Lancetti, Garibaldi, Repubblica, Porta Venezia, Dateo e Porta Vittoria.
Negli anni la vita artistica sotterranea nella città si è consolidata; l’ultima iniziativa da parte del Comune è nata nel 2022, si chiama Sound Underground e permette a qualsiasi band di portare la propria musica in alcune stazioni della metropolitana, a testimonianza di come sia viva l’intenzione di portare la cultura nei luoghi dove non ce la si aspetterebbe.

Dal 2015, nella stazione di Porta Vittoria, vive e opera l’associazione culturale Dual Band che, in collaborazione con Artepassante, ha costruito e gestisce Il Cielo sotto Milano, il “primo teatro in un metrò”. Varcate le ampie vetrate, un bellissimo pianoforte a coda accoglie gli spettatori e i passanti nel “foyer” da dove, superato un ampio tendaggio rosso, si accede alla “sala teatrale”. Qui prendono forma le creazioni dell’associazione fondata nel 1997 dai compagni di vita Anna Zapparoli e Mario Borciani.
La Dual Band è una sorta di affare di famiglia: lei, di madre inglese e papà italiano, è cantante e attrice diplomata al Piccolo; lui, nato da famiglia di musicisti, è diventato, a sua volta, compositore e direttore musicale. La passione per il teatro e per la musica è stata poi trasmessa a entrambi i figli Benedetta e Beniamino, anch’essi membri stabili dell’associazione, che però accoglie anche altri collaboratori al suo interno. Così, nel 2015 viene colta la sfida di trasformare il luogo di passaggio per eccellenza in uno spazio vivo dove far accadere l’incontro teatrale: «Abbiamo creato un luogo per tutti, la cui vocazione è quella del servizio: di essere utile al proprio quartiere e a chi ci abita».
Il desiderio di fare un teatro popolare e divulgativo è testimoniato da un lavoro quasi decennale che rispecchia la natura poliedrica dei Dual. Dal 2016, fra un treno e l’altro, si sono susseguiti corsi di musica e teatro, laboratori e numerose stagioni teatrali composte da teatro in musica, in prosa, in inglese, concerti-racconto e un importante rapporto con molte scuole milanesi e lombarde.

Richard III nasce all’interno di Theatre in a Nutshell, rassegna in cui vengono proposti grandi classici del teatro inglese, tra cui alcune delle opere di Shakespeare, in lingua originale; peculiarità della compagnia è, infatti, quella di essere interamente formata da attori bilingue. Sul palco cinque attori: Benedetta Borciani, Beniamino Borciani, Nicholas Redding, Anna Zapparoli e Lucrezia Piazzolla (che ha sostituito, in tempi record, l’infortunata Valentina Scuderi) danno vita all’infinita mole di personaggi che popolano la tragedia di re Riccardo.

Dramma storico in cinque atti composto verosimilmente tra il 1590 e il 1592, il Riccardo III narra la cruenta storia dell’ultimo dei sovrani Plantageneti la cui morte pone fine alla Guerra delle Due Rose. Seconda solo all’Amleto per numero di versi, la tragedia condivide con quest’ultimo il grande numero di personaggi e di vicende, tale da rendere la trama “un casino” come dichiarato da Al Pacino nel suo celebre film-documentario Looking for Richard.
Eppure, la complessa impalcatura shakespeariana riesce a stare in piedi, merito soprattutto della grandezza del personaggio di Riccardo III, manipolatore del proprio destino e di quello altrui, capace con le sue lucide e spietate macchinazioni di mettere ordine nel caos in cui è sprofondata la corona d’Inghilterra. Venuto a conoscenza del piano per ottenere lo scettro, lo spettatore assiste alla progressiva caduta di ogni personaggio coinvolto negli intrighi di potere, fino all’ultima tragica morte, quella di re Riccardo sul campo di Bosworth, e all’insediamento della dinastia dei Tudor.

Per affrontare il testo sostanzioso in maniera agile Anna Zapparoli dichiara di affidarsi a una regia d’ispirazione brechtiana. A essa possono essere accostati un paio di elementi, come la divisione della trama in tredici quadri scenici introdotti da un titolo, e l’inserimento di alcune filastrocche cantate da re Riccardo (Beniamino Borciani), che riassumono in rima alcuni eventi della vicenda.
Sul palco pochi oggetti, essenziali: un ramo rinsecchito con germogli di rose bianche e rosse, un podio e un telo appeso alla parete di fondo. Il ritmo è veloce e scandito dall’alternanza sulla scena dei quasi cinquanta personaggi (qui ridotti a 28) interpretati dai cinque attori. I combattimenti, tra le sequenze più delicate da realizzare in teatro, non risultano eccessivamente artificiosi; è il caso, soprattutto, del finale drammatico, che raggiunge un alto grado di tragicità grazie a un utilizzo sapiente degli elementi di scena: in mezzo a uno spazio buio illuminato da lampi di luce intermittenti, re Riccardo combatte contro delle ombre nere proiettate sul telo color rosso sangue, fino a esser trafitto poco dopo aver pronunciato la sua celebre battuta finale: «A horse! A horse! My kingdom for a horse!»
Anche i costumi di Susan Marshall si aggiungono come nota positiva del lavoro. In particolare, risulta molto efficace la scelta di rendere la deformità di Riccardo con uno stivale-zoccolo, che ricorda fin dall’inizio, per allusione profetica, la tragica fine del re. Lascia qualche perplessità, invece, il vestito da battaglia di Riccardo: un gilet militare abbinato con un passamontagna mimetico, che poco ha a che fare con la linea allusivamente storica seguita fin da principio.

Avere la possibilità di presentare i versi di Shakespeare in lingua originale è sempre un valore aggiunto, a maggior ragione se essi si integrano in un disegno drammaturgico che permette di far vivere in scena un testo in modo funzionale. È il caso del Richard III, un lavoro pienamente in linea con il tipo di teatro frugale proposto dall’associazione.
Oltre i tornelli di Porta Vittoria si respira un’aria familiare, non è scontato per un luogo di passaggio come una stazione. Il merito è del teatro, ma soprattutto delle persone, come i Dual e i loro associati, che scelgono con impegno questa forma come scusa per passare un po’ di tempo insieme, peccato non aver avuto modo di assaporare il classico minestrone di fine spettacolo!

RICHARD III

regia di Anna Zapparoli
costumi di Susan Marshall
musiche di Mario Borciani
assistente alla regia Matteo Conti
con Benedetta Borciani, Beniamino Borciani, Nicholas Redding, Lucrezia Piazzolla e Anna Zapparoli

Il Cielo sotto Milano | 16 marzo 2024

Programmare restando artista: Ivonne Capece, alla direzione artistica del Teatro Fontana – Milano

RENZO FRANCABANDERA | Sarà senza dubbio una delle più giovani direttrici artistiche in Italia, alla guida di un teatro così grande come il Teatro Fontana di Milano e inserito in un circuito di carattere nazionale come quello di Elsinor, Ivonne Capece, annunciata al nuovo ruolo in una conferenza stampa di poche settimane fa.
Dopo gli anni impegnati nella costruzione del progetto bolognese (S)blocco5, insieme alla visul artist Micol Vighi, da cui è nata anche una scuola di teatro, e nel Festival Lucy, rassegna di teatro e arti performative technologically oriented, ecco ora l’opportunità per l’artista di prendere la direzione artistica di una realtà che negli ultimi anni, grazie anche alla precedente direzione di Rossella Lepore, era molto cresciuta per pubblico e programmazione, diventando davvero un punto di riferimento per la prosa d’autore (classica e contemporanea) in dialogo con stimoli registici particolari.
Impossibile elencare chi è passato di qui in questi ultimi anni, ma sicuramente, esclusi i grandi teatri di rilevanza nazionale del capoluogo meneghino, inconfrontabili per risorse e spazi, il Fontana è stato nell’ultimo decennio uno dei luoghi di maggior sperimentazione sulla prosa nella città.
Certamente l’avvicendamento porta una ventata di novità importante, proponendo, come succede anche negli stabili, un’artista alla direzione artistica, considerando che Capece è regista e performer lei stessa.
I milanesi, che hanno già potuto vedere alcune sue recenti regie nella programmazione del Fontana della passata stagione, il 20 e 21 aprile potranno assistere alla performance omaggio alla visioni del genio di Derek Jarman e al suo capolavoro cinematografico Blue, film sulle ultime fasi della sua malattia.
La creazione, che prende il nome dell’artista e che vede la stessa Capece in scena insieme a Giulio Santolini, è stata anche finalista a Biennale College Teatro 2021 a Venezia, e si avvale, grazie alle cuffie wireless con cui si fruisce lo spettacolo, di un’ntensa parte sonora realizzata da Simone Arganini: è una riflessione sull’uomo, vittima e carnefice del suo stesso stare sulla terra, ma anche uno spettacolo sulla malattia, sull’HIV, sulle epidemie lecite e illecite, sull’omosessualità, sulla lotta per i diritti civili e sugli atti creativi come forme di resistenza.

Sul come intende interpretare il nuovo ruolo, ma anche sulla sua personalità artistica e umana, abbiamo intervistato Ivonne Capece.

Nel panorama italiano sei una delle poche persone alla direzione artistica di un teatro di questo calibro anagraficamente under 40, e fra le pochissime donne. Questo significa qualcosa per te? È un tema su cui riflettere o è un tema su cui si parla troppo e si fa poco?

Sicuramente hai ragione nel dire che la scelta di Elsinor ha qualcosa di atipico in Italia. In questi giorni sto chiacchierando con tanti artisti, anche importanti e già affermati, della mia generazione e tutti mi dicono, con molto entusiasmo, una cosa che trovo significativa: è molto incoraggiante condividere le idee con una direttrice artistica nuova, della stessa età, con cui è possibile avere un dialogo alla pari – cioè tra persone della stessa generazione – cercando di costruire insieme un percorso possibile.
Più in generale, non vorrei mettere l’accento né sul mio essere donna né sulla mia età. Voglio porre l’attenzione sulle capacità che una persona può possedere o che ha creato nella sua carriera. La giovinezza come il sesso sono forse semplicemente un privilegio, perché ti permettono di vedere le cose da prospettive diverse. Penso che il nostro sia un tempo di opportunità, perché come tutti i momenti di forte crisi è anche un momento di rottura.

Mi piacerebbe lavorare su questa rottura e prendermi cura del teatro che mi ha accolto e voluto, da tutti i punti di vista: artistico, distributivo e produttivo. Il teatro attualmente non è un sistema inclusivo. Pensa alla logica stringente delle selezioni per le accademie di recitazione, le uniche tra tutte le categorie di arti e studi ad accogliere un numero ridicolo di allievi; né le università a numero chiuso, né le accademie di Belle Arti hanno numeri così bassi di iscritti: poche classi da 15/20 persone con pochissime scuole distribuite sul territorio nazionale.
Già questo ci fa capire che “fare teatro” non è considerato in Italia una possibilità tra le altre, ma un “privilegio”. Chi riesce a studiare recitazione in modo professionale è un privilegiato, più di chi vuole studiare in modo professionale matematica o fisica. Una logica che ha dell’incredibile. L’esclusività del teatro, prima che sul sesso e sull’età, si manifesta in modo alquanto singolare già sul piano della formazione.

Ti aspettavi questa chiamata dal gruppo di lavoro di Elsinor? Che caratteristiche di affinità ti legano a questa squadra e cosa pensi che il management di Elsinor abbia visto in te?

Elsinor ha creduto nel mio lavoro fin dall’inizio, il nostro percorso si intreccia da diversi anni. Come molte compagnie portai uno dei miei lavori al Teatro Fontana, una Monaca di Monza di Giovanni Testori che all’epoca era stata messa in scena in quarant’anni soltanto due volte. Quel Testori, che io scoprivo per la prima volta attraverso il fascino di una figura letteraria, e che tanto rilevante era stato nelle fasi iniziali del loro percorso (il più antico dei teatri Elsinor è intitolato non a caso a Testori, che lì andava a lavorare con i suoi allievi attori).
Ho iniziato facendo esattamente ciò che tanti artisti in questo momento stanno facendo con me: inviare una mail con un video di presentazione di una mia regia. Con ammirazione posso dire che Elsinor, nella figura della direttrice uscente, Rossella Lepore, ha mostrato un’accoglienza e un ascolto della mia sensibilità artistica che non ho ritrovato in persone e luoghi a me più vicini, e che avrebbero potuto conoscermi di più, dimostrando un’apertura verso “una sconosciuta” che in questo settore è rara. Non per amicizia o parentela o affinità ideologiche o politiche ci siamo incontrati, ma perché lei mi ha aperto la porta dell’ascolto senza chiedermi in cosa credevo, chi amavo o chi votavo. Questo è un grande gesto politico. Scegliere per merito.
Sono molto felice di questo incarico, che è di grande responsabilità, ma anche di grande bellezza, e spero che Elsinor abbia visto in me una manager capace di accompagnare il Teatro Fontana nel futuro.
ph Luca Del Pia

Sei una direttrice, ma anche una regista, un’interprete. Questa cosa negli anni per molti teatri anche nazionali è stata ragione di conclamati conflitti di interesse e alcune derive patologiche del sistema di produzione. Si può fare direzione artistica mantenendo le mani pulite o invece è proprio lo sporcarsi le mani la cifra del lavoro che va fatto?

È una domanda che mi sto ponendo. L’essere artista non dovrebbe diventare un ostacolo a un buon lavoro di programmazione, dovrebbe garantire una sensibilità superiore che aiuti a entrare in sintonia con gli artisti che vengono scelti. In questo momento, quando parlo con gli artisti, mi accorgo che loro sentono la mia vicinanza, sentono di appartenere al mio stesso mondo, e io comprendo le loro istanze, le loro preoccupazioni quando si pongono davanti alle possibilità di realizzazione di un progetto o quando bussano speranzosi a una porta: le stesse alle quali ho bussato e busso anch’io. Sento che questo anello tra programmazione/produzione e artisti sia essenziale, e mi accorgo che gli artisti stessi si aspettano da me che io sia capace di comprenderli.
Dal punto di vista pratico, Elsinor è un centro di produzione che ogni anno dà supporto economico e progettuale a tantissimi artisti, solo quest’anno riesco a contare almeno nove progetti produttivi che vedono il supporto di Elsinor, da Come gli uccelli a La Ferocia, che hanno riscosso un’attenzione di critica e pubblico notevoli, o artisti che fanno parte della tradizione di Elsinor, come Michele Sinisi, fino a progetti sperimentali o legati a artisti più giovani, come Caterina Filograno, Giovanni Ortoleva, la Compagnia Biancofango. Questo ascolto di voci multiple proseguirà anche nei prossimi anni, e naturalmente tra questi ci sarò anch’io: perché non dovrei, se sono un’artista come loro?
La tua vera domanda è sul potere e sul controllo: è possibile staccare l’essere umano dal suo ego? Una riflessione molto più profonda che affonda le sue radici nella vita di tutti noi, nella politica e non solo nel teatro. L’accesso alle risorse non dovrebbe trasformarsi in un monopolio assoluto di quelle stesse risorse. Il problema non è essere direttori e artisti. Il problema è credere di essere i soli artisti, insieme a pochi altri, su cui valga la pena di investire.

Se dovessi distillare le cose che ti fanno scegliere un progetto, uno spettacolo da proporre agli spettatori, quali indicheresti come quelle di maggior rilevanza?

Il teatro che porta lontano dal ragionamento è un teatro che non mi interessa. La mancanza di cura nelle parole e nelle immagini è una forma di superficialità che non mi piace. L’omologazione ai dettami delle arti televisive o filmiche è un appiattimento banale delle possibilità di comunicazione. Ci si può far capire anche senza ridurre tutto alla semplicità linguistica ed etica di una fiction. Amo il teatro che ti pone di fronte alle cose, sia quando accade attraverso la leggerezza, sia quando accade in un modo che disturba.
ph Luca Del Pia
Nella vita è bene uscire da un’esperienza dopo che ci si è stati dentro o molto bene o molto male. Il piacere intenso così come il dolore intenso sono curativi. Concludere un’esperienza senza che dentro si sia mosso nulla, neppure una critica, è come non averla fatta. Questo vorrei non accadesse mai nel teatro che progetterò. Preferirò sempre uno spettacolo che cerca delle cose riuscendoci male a uno spettacolo che funziona perché non ha cercato nulla. La ricerca di qualcosa che raggiunge anche l’efficacia del funzionamento, è naturalmente l’augurio che faccio a tutti gli spettacoli che sceglierò.

La tua vita precedente ti ha vista molto impegnata in un’altra geografia, quella emiliana, a cui peraltro sei molto legata. Dovrai tagliare il cordone ombelicale con (S)blocco5 o pensi sia possibile che sopravviva come esperienza. E se sì, come?

(S)blocco5, in effetti, non è un luogo e non è una compagnia – anche se nel tempo è diventato l’uno e l’altra insieme: è un contenitore in cui ho messo la mia visione poetica in questi anni. Una visione in cui la formazione e la ricerca hanno avuto un’importanza determinante. Oggi (S)blocco5 è un centro di formazione prezioso, non solo per la comunità di giovani bolognesi che si avvicinano alle arti performative, ma per me stessa, che posso tornare lì per raccogliermi nelle mie riflessioni nel silenzio della mia casa e dei luoghi che più profondamente conosco, quelli che mi hanno vista nascere come artista. Sicuramente qualcosa nella sua struttura dovrà essere modificato, perché possa procedere il suo cammino anche senza la mia presenza costante, ma farò del mio meglio perché continui a esistere, e crescere insieme a me.
Qualche giorno fa un’allieva mi ha detto: «Sono tanto orgogliosa di te, ma sono disperata all’idea che questo luogo potrebbe non esistere più», io ho sorriso e le ho detto che questa cosa non accadrà mai. (S)blocco5 è ormai un grande punto di riferimento per i ragazzi che a Bologna vogliono avvicinarsi al mondo del teatro e sviluppare degli strumenti preparatori ad affrontare i percorsi accademici più strutturati; tantissimi ragazzi che oggi fanno teatro hanno iniziato a (S)blocco5, e questa presenza è una speranza di inizio che è radicata nella coscienza della città e che estirpare sarebbe un danno enorme. Quello che vorrei è realizzare un ponte, un dialogo sempre più fitto e costante tra Milano e Bologna, che possa diventare il dialogo tra due realtà affascinanti e profondamente diverse.

Quali sono le cose della tua persona che, senza inutile celia e falsa modestia, ti hanno portato a essere dove sei oggi?

Grande resistenza fisica ed emotiva: nello studio, nel lavoro, nei rapporti interpersonali. Non è un mestiere che lascia spazio alle fragilità, non è un mestiere che lascia il tempo alla paura e al dolore. Se vuoi affrontarlo, devi chiuderli fuori dalla stanza. Non devi temere le ferite, perché arrivano da tutte le parti. Non devi temere la fatica e non devi perdere tempo. Cosa mi ha portato a essere dove sono? Una forza di volontà enorme. Non mi interessano le porte chiuse: sono come l’acqua, filtro attraverso le fessure.

Milano. Era un tuo sogno o non ci pensavi? E ora, come ti sembra vista da dentro?

Non ho mai pensato a Milano, anche se gran parte della mia famiglia d’origine vive in questa città. Ma non avevo neppure mai pensato a Bologna quando mi ci sono fermata per farne la base del mio futuro, mentre tutti gli amici che ci vivevano e ne decantavano le doti se ne sono andati. Io non avevo mai pensato di restare a Bologna e invece è diventata la mia terra, una parte fondamentale della mia identità artistica. Non avevo mai pensato a Milano finché Elsinor non mi ha proposto la direzione del Fontana, amo i luoghi piccoli e sul mare. Però l’esistenza del Fontana fa diventare possibile quella di Milano, così come l’esistenza di Sblocco5 ha reso indispensabile l’esistenza di Bologna.
É una cosa molto emozionante pensare che non sono i luoghi, ma i sogni a rendere quei luoghi indispensabili ai nostri occhi, a donargli o negargli la bellezza, a concedergli il nostro desiderio. Detto così sembra iperbolico, però è la verità: amo Milano perché è il luogo in cui il Teatro Fontana esiste.

Finiamo sull’artista Capece, figlia d’arte peraltro. Hai legato il tuo nome e la tua esperienza in scena all’utilizzo della tecnologia. Eppure, il tuo stile di direzione e recitazione ha qualcosa di profondamente espressionista. È possibile un espressionismo digitale? Non è una contraddizione proprio nell’epoca in cui l’intelligenza artificiale prefigura il transumano?

Proprio a Milano tempo fa vidi una mostra molto famosa di Bill Viola, che come saprai si chiamava Rinascimento Elettronico: è una delle cose più rinascimentali che abbia mai visto in vita mia. La tua definizione “espressionismo digitale” è davvero suggestiva, d’altronde non avrebbe potuto essere altrimenti, essendo un artista visivo anche tu. Mio padre è un pittore professionista, sono cresciuta tra le tele, i musei e i colori a olio, e questo incide nelle suggestioni estetiche dei miei lavori, che hanno sempre qualcosa di pittorico prima di tutto, nel senso del “non reale”, del figurato.
Per questo anche la mia direzione degli attori (e quando sono in scena io, anche la mia recitazione) non punta mai al realismo, alla verosimiglianza dei sentimenti: gli attori sono sempre “figure” del reale, espressioni di un occhio interno che non è mai affascinato dalla riproduzione verosimile del mondo.
Hai ragione a definire espressionisti i miei lavori, perché cercano sempre di dare immagine a moti che sono all’interno di me con l’intento di trasmettere uno stato interno, più che un contesto. Io sono molto affascinata da quello che tu definisci il transumano, che non è negazione dell’essere umano, ma estensione dell’essere umano a ciò che non lo è: uno strano trionfo dell’umanesimo che prende la direzione contraria, che non ha più bisogno dell’uomo per esprimersi.
Imprimere nella meccanica della materia inerte la struttura del ragionamento umano, perché diventi capace di ragionare autonomamente secondo i nostri schemi emotivi. Non c’è niente di più espressionista del digitale, dell’organizzazione concettuale della pura luce (lo schermo non è altro che luce organizzata) al fine di evocare evidentemente un mondo emotivo interno alla mente, con possibilità di narrazione espressiva infinita. Arriverà, forse un giorno, anche un espressionismo del transumano: la capacità artistica di esprimere il nostro mondo interno senza bisogno di noi. Un’opera d’arte potrebbe non avere bisogno della mano di chi la crea?

Fare Coreografia #2: Anne Teresa De Keersmaeker, la calligrafia dell’incarnazione

GIANNA VALENTI | Costruire uno spazio coreograficamente abitabile, tracciare il pensiero attraverso la sua geometrizzazione, fare ricerca coreografica per dar vita ad architetture mobili, disegnare motivi geometrici come griglie progettuali, inseguire la visione di un corpo in cui l’umano si fonde con l’astrazione, dedicarsi alla pratica del disegno come forma di scrittura del mondo e scegliere il segno calligrafico per passare dal proprio pensiero alla scrittura della danza. Anne Teresa De Keersmaeker disegna e ha disegnato, sulla bidimensionalità di un foglio bianco, mappature di segni grafici e geometriche per trasferire il proprio pensiero in un codice di partenza per la sua pratica coreografica, un codice in cui il pensiero dell’astrazione trattiene in sé le potenzialità dell’incontro con l’umano.
La calligrafia dell’incarnazione è una delle definizioni di De Keersmaeker per il suo fare coreografia, il punto di partenza per un percorso di pratiche in cui il codice del corpo come «archivio inesauribili di memoria» entra in contatto con «un altro codice più astratto, musicale, geometrico, topologico. Il potenziale codificato prodotto da questo tipo di cortocircuito — racconta la coreografa — è illimitato». *

Anne Teresa De Keersmaeker, disegno/score

I suoi tracciati calligrafici sono tools, strumenti di lavoro, codificazioni formali di forme pensiero, codici organizzativi che contengono potenzialmente gli accadimenti di uno spazio-tempo futuro, tracce di un desiderio macro-strutturale per la costruzione di «uno spazio geometricamente abitabile» che si manifesterà nei flussi dei corpi in uno spazio reale. Flussi che agiscono la sua fascinazione per gli spostamenti locomotori che la coreografa considera il fondamento stesso dell’azione di danzare — «walking is my dancing», «camminare organizza il mio spazio, ma camminare organizza anche il mio tempo». *
Per avvicinarci alla sua calligrafia dell’incarnazione e alla centralità della musica in questo processo, guardiamo il lavoro Work/Travail/Arbeid, nove ore condensate in nove minuti commentati dalla coreografa stessa. Work/Travail/Arbeid è stato presentato al MoMA di New York come riscrittura di Vortex Temporum su musica di Gérard Grisey nell’aprile 2017, quando il lavoro originale di un’ora venne esteso a nove ore come evento site specific per il museo (Vortex Temporum è un lavoro del 2013).

Rosas, Vortex Temporum, PH Herman Sorgeloos

De Keersmaeker si considera una formalista, perché tutte le sue danze sono organizzate spazialmente seguendo un principio geometrico che organizza i movimenti e, di fronte alla platea del Collège de France, afferma ripetutamente che il suo fare coreografia è incarnare un’astrazione e che astrarre è sottrarre, decodificare, ridurre, andare alla radice delle cose e rintracciarne l’essenza. *
Il disegno, nella forma da lei praticata, è la traccia visibile di quell’essenza, è lo spazio dell’astrazione che contiene la promessa di un’abitabilità dell’umano e di traiettorie di corpi come architetture mobili. Disegnare forme geometriche, talvolta semplici e altre volte complesse, su foglio bianco o direttamente con nastro adesivo e gessetti sul fondo orizzontale della scena, è la pratica che fonda la sua ricerca coreografica. La sua predilezione va alla sezione aurea e alla sequenza di Fibonacci, con una fascinazione ossessiva e reiterata per l’uso della spirale, la forma che preferisce, perché è un cerchio che si apre e che si chiude continuamente e che permette di tornare ogni volta allo stesso punto, ma in un altro modo, così che la traiettoria diventa più importante dello stare in un punto. (Interview | Portrait of Anne Teresa De Keersmaeker, 2018 – sul restaging del repertorio Rosas)
Un interesse premoderno lega i suoi disegni alla geometria sacra e alla scienza delle grandi cattedrali gotiche, ma il suo è un modello organizzativo spaziale che da grande osservatrice della natura ritrova negli «stormi di migliaia di uccelli che riescono a gestire collettivamente la formazione di figure mobili nel cielo, stupefacenti per la loro bellezza». Un modello di architetture in movimento a metà strada tra «la perfezione di una cattedrale e l’intelligenza mobile e impersonale di un network neuronale». *

Rosas, Rain, PH Anne Van Aerschot

Drumming (1998) e Rain (2001) sono due lavori creati sulla sezione aurea e sulla sequenza di Fibonacci che costruiscono gli spostamenti sulla scena e la coreografia con i rettangoli della sezione aurea, la loro sovrapposizione e le spirali iscritte. Per osservare il disegno sul piano orizzontale della scena ecco Rain-revival-1, Rain-revival-2, Rain-revival-3 e Drumming-revival-1, Drumming-revival-2, Drumming-revival-4 — da notare che sulla scena di Drumming rimane solo una striscia visibile del disegno originale che ha creato la macro struttura spaziale del lavoro.
È interessante osservare la leggibilità delle strutture spaziali di queste coreografie, perfettamente visibili a volo d’uccello, come altri lavori di De Keersmaeker che sono stati resi disponibili per una lettura dall’alto. Così è per Work/Travail/Arbeid che ho citato all’inizio e così è per Violin Phase, uno dei quattro movimenti del suo primo lavoro storico del 1982 Fase. Qui lo vediamo pensato per una visione dall’alto al Museum of Modern Art di New York: Performance 13 MoMA (danzata e commentata della coreografa) presentata per la mostra del 2011 On Line: Drawing Through the Twentieth Century, dove il corpo che danza si muove per tracciare con precisione millimetrica nella sabbia un disegno a mandala, facendo coincidere pensiero astratto, struttura spaziale e materiali coreografici. «Quando lavori con la geometria e i modelli geometrici — dice in apertura De Keersmaeker — quello che fai in realtà è una sorta di misurazione della terra» (lo score spiegato dalla coreografa stessa).

Rosas, Festival d’Avignone 2011, Cesena, PH Anne Van Aerschot

In un’intervista con Julie Enckell Julliard, la coreografa condivide memorie famigliari legate alla sua pratica del disegno, quando ricorda il nonno, un ingegnere agricolo che si è occupato per lavoro della suddivisione delle terre tra i contadini nelle pianure del Belgio, producendo diversi strumenti e anche mappe di quei terreni: «Questi disegni su come erano state mappate le terre sono davvero belli. Quando stavo lavorando nel 2012 a A Choreographer’s Scores [un progetto in cui la coreografa condivide con testi, disegni e video il processo coreografico per alcuni dei suoi lavori, spiegandone le strutture matematiche, geometriche e sintattiche], ho fatto trasloco e mi sono imbattuta di nuovo in quei disegni… erano molto articolati e dettagliati, ma anche metà scientifici e metà artistici». **
È una condivisione di memoria interessante che situa la pratica del disegno di De Keersmaeker in una premodernità di cui ci parla anche Susan Leigh Foster, quando racconta che l’uso del termine coreografia, come pratica di annotazione di danze a inizio Settecento, è legato alla disciplina della corografia, una sottodisciplina della geografia che si occupa della mappatura di una determinata superficie della Terra, producendone una descrizione geometrica che indica contestualmente la presenza degli abitanti e delle relazioni umane osservabili. ***

È così che anche storicamente la coreografia ci offre un modello di avvicinamento tra astrazione e umano che sta al centro della riflessione coreografica di De Keersmaeker, alla sua calligrafia dell’incarnazione o all’incarnazione dell’astrazione.
Per rintracciare la vicinanza tra codici di umanità e di astrazione nel suo lavoro, la coreografa ci indica Cesena, una produzione pensata per il Festival di Avignone nel 2011, che si muove dal buio prima dell’alba sino alle prime luci, con canti polifonici del Quattrocento e un disegno continuo del piano orizzontale della scena per marcare il passaggio del tempo. Ecco, per lasciarci, il lavoro in alcuni frammenti disponibili e la coreografa che ci spiega il lavoro in alcuni passaggi:
Cesena/Rosas & graindelavoix
A Choreographer’s Score – Cesena Excerpt
Cesena Extract (il canto dei danzatori)

«Nella mia ossessione di fare del corpo che danza un luogo di incontro tra l’astrazione e il  mondo fisico, la musica mi viene sempre in aiuto.»   Anna Teresa De Keersmaeker

 

Note

  • * Anne Teresa De Keersmaeker, Chorégraphier Bach: incarner une abstraction, Collège de France, 10 aprile 2019.
  • ** Julie Enckell Julliard, Visualizing Voids and Measuring the Earth: The Raison d’Être of Drawing in the Choreographic Work of Anne Teresa De Keersmaeker, in, Spacescapes Dance & Drawing, Sarah Burkhalter & Laurence Scvhmidlin eds. Documents by JRP.
  • *** Susan Leigh Foster, Choreographing Empathy. Kinesthesia in Performance. Routledge, 2011.

PAC LAB | La prima ResiDance in Sicilia. Intervista a Fabrizio Favale, Giulio Petrucci e Jari Boldrini

Giulio Petrucci Jari Boldrini prova aperta Nubla

SOFIA BORDIERI* | Sabato 16 marzo si è tenuta a Viagrande Studios a Viagrande (Catania) la prova aperta della prima residenza promossa da Iterculture grazie al Network Anticorpi XL svolta nell’ambito di ResiDance. Fondata, tra gli altri, da Dario D’Agata e Valerio Verzin, direttori artistici del Festival Teatri Riflessi di Zafferana Etnea, Iterculture, da gennaio, è la prima associazione siciliana a far parte del noto circuito nazionale. Viagrande Studios (partner dell’associazione) ha fornito gli spazi per il primissimo studio condotto da Giulio Petrucci e Jari Boldrini (C.G.J. Collettivo Giulio e Jari).

Petrucci e Boldrini hanno lavorato per una settimana sul nuovo progetto Nubla che nasce in collaborazione con Fabrizio Favale. Il nuovo lavoro sarà un’opera satellite di Danze Americane (ne abbiamo parlato qui), il solo in cui Favale si rapporta con le tecniche e i codici di movimento della danza Moderna e Post-moderna Americana di Limón, Cunningham e Brown, ovvero con quegli insegnamenti da lui appresi negli Stati Uniti negli anni Novanta.
Durante la restituzione i due danzatori Giulio e Jari hanno mostrato una pratica-sperimentazione basata sull’improvvisazione, accompagnata da un tappeto sonoro di Simone Grande, utile per comprendere, proprio durante l’azione, alcuni concetti cinetici.

Abbiamo incontrato, attraverso una videochiamata Zoom, Favale, Petrucci e Boldrini per approfondire il contesto della loro collaborazione e la genesi di questo processo creativo.

Un momento della prova aperta a Viagrande Studios

Fabrizio Favale, come è nata l’idea di creare un nuovo lavoro legato a Danze Americane e come hai scelto gli autori a cui affidare questa ricerca?

Tutto è partito appunto da Danze Americane, dove ho codificato delle sequenze costruite a partire dalle tre tecniche o modalità di movimento che successivamente in scena scompongo, decostruisco e ricostruisco, sperimentando liberamente. Presto ho avvertito l’esigenza di passare questo materiale sperimentale ad altri corpi, altre intelligenze. Per me è stato abbastanza spontaneo pensare a Jari e Giulio, perché, oltre a essere dei danzatori interpreti, sono anche degli autori creativi.
Con Nubla l’intento è quello di creare una condizione di evoluzione di questi materiali sperimentali. Jari e Giulio stanno facendo già da diversi anni un lavoro autoriale che a me interessa molto, perché lo trovo molto libero, sperimentale e legato a dei criteri che in qualche modo si identificano nell’astrazione similarmente a come ha fatto la danza americana Post-moderna. Non è facile trovare autori in Europa che vanno in quella dimensione di astrazione e loro lo fanno in maniera molto puntuale e fresca. La proposta, quindi, è avvenuta in modo naturale: speravo tanto che loro la accettassero, non era scontato per me.

Danze Americane di Fabrizio Favale ph. First Rose

Giulio Petrucci e Jari Boldrini, dopo il periodo passato con Favale, avete visionato e studiato dei materiali video di archivio? Avete sviluppato un discorso sul tema del reenactement?

GP: Il lavoro di Fabrizio si è basato sulle tecniche, più che su vere e proprie opere di repertorio. Io e Jari abbiamo visto diverse cose, abbiamo ascoltato anche delle interviste di questi autori per capire cosa avessero da dire riguardo il movimento, l’approccio spaziale e il giudizio di una tecnica che hanno creato. Da lì siamo andati a vedere degli esempi a titolo informativo, senza essere canonicamente interessati a riadattare un movimento o una modalità di costruzione di una coreografia. Abbiamo osservato per captare quelle cose che emergono in modo più trasparente e che suggestionano l’occhio. Fabrizio ci ha passato degli strumenti di sperimentazione che hanno nutrito il corpo portato a esplorare principi del dettaglio, della qualità, della cura. In questo step iniziale ci siamo concentrati sulla dinamica dei corpi insieme, cioè su come si connettono tra loro, su come possono costruire un dialogo senza dover sottolineare un principio di dualità. Un video interessante per noi, in tal senso, è stato Set and Reset di Trisha Brown.

JB: L’immaginario che suscitano queste coreografe e coreografi è illimitato. Vorrei menzionare anche Watermotor, sempre di Brown; importanti anche delle interviste che abbiamo visto su Raiplay di Cage e Cunningham inerenti al rapporto suono-spazio-corpo e alcuni video di archivio visti su Eclap (European Collected Library of Artistic Performance), dove ci sono una serie di documenti audiovisivi molto interessanti su alcune classi.

Vi sono arrivati commenti molto vari dal pubblico, riguardanti diversi aspetti, da quelli più tecnici a quelli più concettuali. Dopo l’incontro avete avuto modo di chiedervi che tipo di relazione vorreste scaturire nel pubblico?

JB: Il nostro discorso di interesse, almeno iniziale, è quello di avere una sorta di esercizio che mettiamo in atto. Quello che facciamo adesso è una sperimentazione scevra da una drammaturgia, un significato ben preciso o una connotazione. Per ora ci piace lasciare questa apertura. Quindi, la risposta è che quello che vogliamo comunicare parte unicamente dal corpo, dallo spazio.

GP: Le suggestioni che si spostano su piani emozionali sono molto interessanti, anche perché noi non andiamo a toccare quell’argomento. Lasciamo che la ricezione sia qualcosa che fluisca all’interno di un flusso di pensieri, scaturita da decisioni molto chiare che facciamo. Chiaramente non abbiamo alcuna intenzione di manifestare una forma di emotività o di espressionismo, però è bello che accada, che si tocchino le corde altrui. Non andiamo a seguirle. Però, anche da queste sensazioni in arrivo ci rendiamo conto di cosa può essere funzionale.
Sono emerse questioni per noi molto interessanti come la riflessione inerente allo spazio, che per noi è ancora un dilemma, sicuramente lavoreremo massivamente su questo e anche sulla musica. Abbiamo usato un brano di Simone Grande, non composto per Nubla, ma che ha quelle caratteristiche che a noi interessano per esplorare un territorio di questo genere, che sicuramente riprende anche il lavoro di Danze Americane, dove i brani fungono da tappeti sonori che non vengono seguiti. C’è un lavoro di astrazione, coabitazione del suono e del movimento che crea già un dialogo tra loro, ma che non li costringe a rimanere sullo stesso binario.

Dunque, Fabrizio Favale ha assegnato materiali di base ai due danzatori concedendo loro libertà creativa e interpretativa, in un viaggio di ricerca sviluppato comunque attraverso un assiduo dialogo a tre. Le domande che più sono emerse hanno riguardato la curiosità di capire chi sono stati i grandi maestri, di esperirne le dinamiche, ma soprattutto di comprendere il dialogo che si instaura tra due corpi anche quando non viene indotto.
Petrucci e Boldrini sono stati selezionati dal Network anticorpi XL anche per il programma Prove D’Autore, grazie al quale lavoreranno con i danzatori e le danzatrici della MMCDC di Michele Merola. Con loro avranno l’opportunità di sperimentare e osservare dall’esterno quei principi che ricercano dall’interno, in quanto danzatori. Nubla si svilupperà nei prossimi mesi tra Firenze e Bologna, per poi passare alla seconda tappa di ResiDance a settembre a Sansepolcro.

NUBLA

ideazione Fabrizio Favale
una collaborazione Fabrizio Favale & C.G.J. Collettivo Giulio e Jari
danzatori Jari Boldrini e Giulio Petrucci
muscihe originali Simone Grande
co-produzione Fondazione Teatro Comunale di Vicenza, Festival Danza in Rete, Festival MILANoLTRE, KLm – Kinkaleri / Le Supplici / mk
con il contributo di MIC / Regione Emilia-Romagna / Comune di Bologna
con il sostegno di h(abita)t – Rete di Spazi per la Danza
Il progetto è stato realizzato con il contributo di ResiDanceXL – luoghi e progetti di residenza per creazioni coreografiche, azione del Network Anticorpi XL

Viagrande Studios, Viagrande (CT) | 16 marzo 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Kamikaze di Aldrovandi / Lorenzi: non si sfugge al sistema?

ENRICO PASTORE | Pochi chilometri dividono Fiume da Trieste eppure, per raggiungerla, bisogna attraversare più confini, lasciare l’Italia, passare per la Slovenia ed entrare infine in Croazia. Nonostante le barriere politiche, il Carso Giuliano/Triestino e quello Istriano condividono secoli di cultura comune. Non solo lo si desume dall’architettura austroungarica e mitteleuropea ma lo si sperimenta ancora oggi quando nelle campagne istriane è più facile comprendersi con il dialetto veneziano che con l’inglese o l’italiano. Fiume, oggi Rijeka, è da molti secoli un crocevia di popoli e di lingue. Una città e una regione, l’Istria, che rievoca nel nostro Paese storie gravate dalla retorica nazionale, dall’irredentismo all’impresa dannunziana e la Seconda guerra mondiale, per non parlare dell’esodo degli italiani e le foibe.
Tuttora è difficile lacerare il velo delle narrazioni ufficiali per guardare gli eventi storici sulla base dei fatti e dei documenti, analizzando gli eventi senza farsi imbrigliare da visioni e racconti pregiudiziali e facendosi meravigliare dagli elementi che uniscono popoli e culture piuttosto che dare importanza ai fattori divisivi. Non poteva, dunque, esservi luogo migliore per ospitare Kamikaze. Assocerò sempre la tua faccia alle cose che esplodono, l’ambizioso progetto teatrale nato dalla collaborazione di Emanuele Aldrovandi e Marco Lorenzi, coprodotto dal Teatro Nazionale Croato Ivan de Zajc di Fiume (Hrvatsko narodno kazalište Ivana pl. Zajca u Rijeci) e dal Teatro Biondo di Palermo.

Marco Lorenzi

Lo spettacolo ha debuttato il 17 marzo scorso al Teatro Nazionale Croato e nasce dalla volontà di gettare ponti tra queste culture così affini e così diverse. La compagnia vede, infatti, la compresenza di attori italiani e croati, tra cui un attore di origine serba, specchio della comunità multinazionale della città; il testo di Aldrovandi è un riuscito melange di italiano, croato e inglese; due teatri, lo Zajc e il Biondo, benché appartenenti a realtà produttive diversissime e lontane, sono stati tra i pionieri nell’esplorare le ricche potenzialità nella collaborazione culturale tra i rispettivi Paesi. Tutti questi elementi costituiscono la spina dorsale dello spettacolo e il suo valore politico intrinseco.
Kamikaze è un testo che origina da un nucleo incandescente di domande scomode tra cui è impossibile districarsi con facilità. Come di fronte a una novella idra, ogni volta che appare una soluzione, ecco sorgere nuove questioni ben più tossiche di un serpente, il cui veleno ci stordisce e ci fa credere all’impossibilità di una soluzione. Aldrovandi dichiara che se lo stimolo alla scrittura è stato l’attentato al Bataclan del 2015, durante la stesura, scena dopo scena, si sono affollate le immagini, i personaggi, le situazioni, le interrogazioni.
Se, dunque, l’autore è partito dal domandarsi perché dei giovani decidano di uccidere altri giovani, subito sono affiorate le contraddizioni politiche, culturali e soprattutto economiche alla base di un conflitto che solo in superficie ha radici religiose.
Come giudichiamo l’altro? Siamo in grado di metterci nei suoi panni? Siamo liberi di assumere punti di vista inusuali e inauditi? E, soprattutto, possiamo liberarci dall’obbligo alle scelte binarie: noi o loro? Tutte queste questioni sfuggono dal confine del terrorismo di matrice islamica e si ripropongono con urgenza rispetto ai numerosi conflitti che infiammano il nostro presente, dove continuamente ci viene chiesto di prendere partito e ci viene presentato un nuovo nemico con cui pare impossibile dialogare.

Kamikaze di Emanuele Aldrovandi regia di Marco Lorenzi Ph@ŽELJKO JERNEIĆ

La storia della giovane regista mussulmana che intende girare un film senza scendere ad alcun compromesso produttivo, un lungometraggio costituito da una sceneggiatura frammentaria, senza un personaggio principale e che ha per oggetto vari aspetti del difficile rapporto tra Occidente e mondo islamico, apre ulteriormente a questioni non apparentemente imparentate come, per esempio, la libertà di espressione artistica al di là delle logiche di mercato e di propaganda culturale. La produttrice ricorda alla regista che si oppone a un happy ending, «io metto i soldi, io scelgo il finale». Non solo la protagonista ma tutti noi siamo subissati da domande urgenti a cui sembra non esistere altra soluzione se non adeguarsi o far saltare in aria il sistema, sperando in un reset. L’ironia e la leggerezza sono il farmaco che impedisce allo spettatore di soccombere di fronte all’ingombrante e orribile immagine di questo nostro deforme presente e dall’ipocrisia che esibiamo, volenti o nolenti, come cittadini di questo opulento Occidente capitalista.
Marco Lorenzi e il dramaturg Lorenzo De Iacovo si sono trovati di fronte a un testo spinoso, difficile da manipolare, seduttivo per le possibilità che offre, ma da maneggiare con più cura della nitroglicerina perché il rischio di cadere nei cliché e nella retorica è altissimo. Anziché semplificare, si è deciso di moltiplicare i piani di finzione: la vicenda della cineasta, che all’inizio vediamo pochi momenti prima del suo estremo gesto distruttivo, viene narrata attraverso rapidi flashback che formano la cornice ai quattro quadri del progettato film. Queste scene, che nella realtà della finzione non vengono realizzate, non solo sono rappresentate ma vengono girate dagli stessi attori, montate in diretta, e proiettate in tempo reale sullo schermo, in una mise en abime in cui la realtà viene moltiplicata dai vari linguaggi.

Il regista Marco Lorenzi e il dramaturg Lorenzo de Iacovo ph. Ivor Hreljanović

Il video apre inoltre a spazi esistenti solo in effige. Per esempio, nel secondo quadro, nel ristorante dove politici di schieramenti antitetici si trovano d’accordo nell’essere in fondo alleati, nonostante l’apparenza, l’uscita di scena della cameriera ci conduce in una cucina inesistente nel retropalco. Qui il suo corpo diventerà la pietanza speciale per i politici, donna cannibalizzata dal potere maschile, luogo simbolico dove verrà consumato il sacrificio di questa novella Ifigenia lavoratrice da parte di altri lavoratori (ancora una volta tutti maschi) per il benessere della politica.
Il teatro, inoltre, contagia il cinema, che non è più arte immodificabile, sempre riproducibile, uguale a ogni proiezione, ma compartecipa della fugacità della scena, ricostruendosi differente a ogni rappresentazione. Ulteriore elemento di complessità è il melange linguistico tra italiano, croato e inglese che alimenta la fiamma dell’incomprensione tra i personaggi.
La regia di Lorenzi adotta, quindi, una modalità compositiva complessa, un montaggio delle attrazioni capace di rendere fisicamente concrete le questioni scottanti sollevate dalla drammaturgia di Aldrovandi. Gli attori non sono manichini che danno voce a un testo ma sono i creatori di un linguaggio multiforme, interpreti di una partitura registica capace di muoversi su diversi piani e di utilizzare molteplici linguaggi artistici.
Sarebbe improprio parlare di semplice multimedialità, perché in questo caso il teatro contagia e ibrida gli altri idiomi. Non si procede per accostamento ma per moltiplicazione. Ne è testimonianza il lungo training degli attori per acquisire le competenze necessarie per girare in prima persona i video, gestendo le inquadrature, il cambio delle ottiche, e i movimenti di macchina, che hanno reso necessaria una vera e propria coreografia tra gli attori impegnati nelle scene e quelli impegnati nelle riprese; così come l’adattamento dei film-maker al linguaggio teatrale, per esempio nel tener conto dell’illuminazione fissa, non solo per l’autofocus ma nei cambi di inquadratura. Le grammatiche dei diversi linguaggi hanno sconfinato dai propri ambiti, contagiandosi vicendevolmente.

Kamikaze di Emanuele Aldrovandi regia di Marco Lorenzi Ph@Kamikaze di Emanuele Aldrovandi regia di Marco Lorenzi Ph@ŽELJKO JERNEIĆ

La scena degli jihadisti che cercano di girare il video della decapitazione di un prigioniero americano è un esempio di tale propagazione. Dapprima viene proiettato un video simile a quelli tristemente noti: un prigioniero inerme in tutta arancio, in ginocchio e terrorizzato, due terroristi dietro di lui in passamontagna nero, fucile mitragliatore, tenuta da soldati, bandiera nera dello stato islamico sul fondale.
La dichiarazione del prigioniero americano viene interrotta dopo pochi istanti e veniamo catapultati in scena, dove il regista del video esprime la sua insoddisfazione per la qualità dell’opera. Manca, secondo lui, di incisività: è troppo consueta, poco funzionale al nuovo marketing del terrorismo. Il regista e uno dei terroristi discutono animatamente. Decidono, quindi, di girare la scena all’aperto. Subito vengono dispiegati due diversi fondali paralleli con immagini di deserto. Regista, terroristi e prigioniero si dispongono con alle spalle i due diversi fondali, in modo che la proiezione possa giocare sul montaggio di campo e controcampo.

Tim Roth ne Le Iene di Tarantino

A questo punto, la moltiplicazione dei piani di finzione è massima: la scena rappresentata è presente solo nella sceneggiatura della cineasta, ma nella storia non viene realizzata, come la storia di copertura di Mr. Orange/Tim Roth ne Le Iene di Tarantino; il video dei terroristi all’inizio, in un primo tempo, si pone come doppio illusorio ma immediatamente ci precipita nella finzione della scena; la riproduzione fittizia dello spazio aperto nel deserto, inoltre, sdoppia la realtà scenica tra proiezione e recitazione; la troupe in scena, a sua volta, si scinde tra coloro che prendono parte direttamente alla vicenda e quelli che, semplici operatori dell’immaginato film, girano per la proiezione sullo schermo; vi è, inoltre, la regia in diretta che effettua il montaggio; da ultimo vi è il dialogo metateatrale (e metafilmico) in cui il prigioniero americano fa presente agli jihadisti come sia inefficace quel video, perché mancano dei microfoni.
In questo contesto “multifiction” affiora la drammatica complessità della realtà del terrorismo che, pur volendo combattere l’Occidente, ne assume le modalità di comunicazione, e quindi risulta evidente come alle spalle di una rivolta contro il sistema vi sia il sistema stesso che contamina ogni atto di ribellione. Inoltre, appare chiaramente la reale questione che lo spettacolo ci pone: il sistema vuol farci credere di essere invincibile? Veramente, come diceva la Tatcher negli anni ’80, non esiste alternativa?

Kamikaze di Emanuele Aldrovandi regia di Marco Lorenzi Ph@Kamikaze di Emanuele Aldrovandi regia di Marco Lorenzi Ph@ŽELJKO JERNEIĆ

Questo è un esempio. Avrei potuto scegliere la bellissima scena della metropolitana dove due fidanzati di diverse culture e religioni si rendono conto di come il loro rapporto sia ingabbiato in una serie interminabile di cliché. Raccontare Kamikaze è impresa ardua, proprio per la varietà e molteplicità dei piani di lettura e delle questioni che solleva. Non resta che vederlo quando approderà in Italia, al Teatro Biondo di Palermo, dal 5 al 14 aprile prossimi, sperando che non restino le uniche date italiane.
Per concludere non resta che segnalare la calorosa accoglienza del pubblico fiumano a questo lavoro complesso, capace, però, di trattare temi spinosi con grande leggerezza e ironia. In Italia si ha paura della complessità e costantemente si sottovaluta l’intelligenza del pubblico. Quando l’opera è forte, toccante, la drammaturgia solida, la recitazione impeccabile, anche la risposta dello spettatore sarà altrettanto potente.

KAMIKAZE
Assocerò sempre la tua faccia alle cose che esplodono

di Emanuele Aldrovandi
regia Marco Lorenzi
scene e costumi Gregorio Zurla
luci Robert Pavlič
creazione video Edoardo Palma / Emanuele G. Forte
cast italiano e croato Aleksandar Cvjetković, Elena Brumini, Vittorio Camarota, Aurora Cimino, Eletta Del Castillo, Serena Ferraiuolo, Stefano Iagulli, Mario Jovev, Mirko Soldano
assistente alla regia e dramaturg Lorenzo De Iacovo
produzione Teatro Nazionale Croato Ivan de Zajc di Fiume (Hrvatsko narodno kazalište Ivana pl. Zajca u Rijeci) / Teatro Biondo Palermo

Teatro Nazionale Croato | 17 marzo 2024

Tutti quanti abbiamo un’anima? Su Micromega al Pacta Teatri

MARIA FRANCESCA SACCO* | Quale sia il senso dell’esistenza, il suo scopo, se esista un dio, un’anima, quale sia l’essenza della vita. È possibile rispondere in maniera universale a interrogativi così relativi? Voltaire se lo chiede e lo chiede al suo pubblico di intellettuali dei salotti francesi attraverso il racconto filosofico Micromega, scritto nel 1753.
Proprio Micromega viene portato in scena al Pacta Teatri, in prima assoluta, con la regia di Annig Raimondi, direttrice artistica del teatro e organizzatrice di un bel progetto: Donne Teatro Diritti, giunto ormai alla X edizione, in cui esperienze teatrali (e non solo) si concentrano sui diritti delle donne e, in generale, di chi è diverso o più debole. La drammaturgia, di grande efficacia, è invece di Maddalena Mazzocut-Mis, docente di estetica dell’Università degli Studi di Milano che, riadattando il testo del filosofo francese, ha dato voce ai dubbi e alle contraddizioni di una società che mai cambia.
Questo coraggioso e ben riuscito lavoro inizia attraverso il gioco magnetico e psichedelico delle luci di Fulvio Michelazzi e dei tendaggi che suggeriscono immediatamente al pubblico un’atmosfera altra. Si è catapultati nella vastità dell’universo fuori dal pianeta Terra, in un futuro indistinto, in una dimensione ignota.

Foto di Emma Terenzio

In scena appaiono due personaggi di due diversi pianeti: un abitante di Sirio, Micromega, «nome perfettamente adatto a tutte le persone grandi», 36 chilometri di acuto ingegno; e un filosofo proveniente da Saturno, lillipuziano in confronto al compare, nonostante i due chilometri di altezza. Il loro incontro avviene perché Micromega è stato bandito dal suo pianeta per aver scritto un’opera scientifica giudicata eretica, sospetta, temeraria.
Entrambi vogliono ampliare il proprio sapere ed educare spirito e cuore. Il mezzo per eccellenza in grado di implementare la conoscenza è il viaggio. Non a caso l’elemento a caratterizzare la scena è una sorta di zattera-navicella spaziale che ospita i personaggi, rinviandoci subito all’immaginario dell’esplorazione. I due, dunque, accompagnati da una sorta di Alexa, rappresentante di una tecnologia brava a intromettersi nelle vite, ma incapace di dare risposte, decidono di partire alla volta della Terra e, incuriositi da quei minuscoli abitanti, cercano di capire se essi abbiano un’anima o no.
Di personaggi alla continua ricerca di qualcosa, viaggiatori ed esploratori, ne è piena la letteratura: I viaggi di Gulliver di Swift sembrano in particolar modo venire alla mente osservando questo gigante protagonista, così come l’esagerazione e l’iperbole fantasiosa appaiono un comune denominatore per questi testi.
I due attori in scena, Alessandro Pazzi e Stefano Tirantello, ben caratterizzano i bizzarri protagonisti: il saturniano (Pazzi), capelli lunghi e ampia fronte, si muove con atteggiamento disinvolto e un’ironia pungente, conversando con il pubblico come in un talk show. L’altro, Micromega, (Tirantello), più riservato, pensoso e serio, sta in disparte, bramoso di conoscenza. La sua concentrazione e curiosità sembrano quelle di un bambino che ha sempre qualcosa da scoprire, così come la sua assenza di filtri, che lo rende spesso fuori luogo (ad esempio, quando canta una canzone un po’ volgare) e fa sì che l’abitante di Saturno cerchi di tenerlo a bada, scusandosi con il pubblico per l’atteggiamento del collega. La grande abilità dei due attori sta proprio nel ricreare e mantenere la dualità tipica della coppia comica, clownesca, da Commedia dell’arte: divertente, ma non macchiettistica. Si spalleggiano e completano, mantenendo ognuno i propri tratti distintivi, e restituendo al pubblico personaggi dalle caratteristiche ben tratteggiate, con i quali finiamo per simpatizzare.

Foto di Emma Terenzio

I due, poi, usano gli oggetti di scena in maniera non ortodossa, a voler sostenere il gioco della fantasia. Così, un mocio diventa un cannocchiale attraverso il quale i due osservano le azioni sulla Terra, rappresentata da un mappamondo. Si interessano a noi minuscoli terrestri, rendendosi presto conto, con delusione, che tutto ciò che siamo buoni a fare è la guerra, senza neppure saperne il perché.
L’ironia del filosofo francese è mantenuta per tutto lo spettacolo e traspare dalle battute, dai gesti dagli attori, dall’uso ludico degli oggetti. L’intento della regia è ben percepibile: divertire e a mostrare come un testo del Settecento risulti attuale, esaltando la dimensione e riflessione filosofica.
Micromega, infatti, prima di congedarsi, decide di lasciare un libro su cui dice di aver scritto quale sia l’essenza della vita. Un regalo prezioso che tutti vorrebbero ricevere e che il saturniano apre, desideroso di offrirlo al pubblico.

Foto di Emma Terenzio

Viaggiare, conoscere, fare esperienze, studiare? Le ipotesi affollano i pensieri di un pubblico attento e partecipe, si sente persino un “Ecco!” carico di speranza, provenire dalla sala.
Quando il saturniano inizia a sfogliare le pagine, una a una, la platea si rende conto che, anche stavolta, nessuno potrà rispondere, al posto suo, all’atavico quesito sul perché siamo al mondo: il libro è bianco. Vuoto?
L’”Ecco” di prima si colora di delusione, ma, del resto, dare un significato alla vita appartiene alla responsabilità individuale. Ognuno di noi può decidere se lasciare il libro in bianco o riempirlo con le note della propria esistenza.

MICROMEGA
dal racconto di Voltaire
di Maddalena Mazzacut-Mis
con Alessandro Pazzi, Stefano Tirantello
regia Annig Raimondi
scenografia Isolde Michelazzi
disegno luci Fulvio Michelazzi (AILD)
coproduzione PACTA dei Teatri/ Pontos- Teatro

Pacta Salone, Milano | 15 marzo 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Il potente Mephisto di Andrea Baracco e la banalità dell’asservimento al potere

Ph Manuela Giusto

RENZO FRANCABANDERA | Mephisto è il titolo di un romanzo di Klaus Mann. Fu pubblicato la prima volta nel 1936 dalla Querido Verlag di Amsterdam, nazione dove l’autore si era rifugiato in fuga dalla Germania nazista.
Parliamo di una storia triste e che non finisce bene. E con questo alludiamo sia alla vicenda del libro che alla biografia dello scrittore. Già di suo non è mai facile essere figli di un premio Nobel con un conclamato successo. Questo porta di solito, nella vita dei figli, tantissimi complessi e anche velleità che quasi mai sono accompagnate da talento pari a quello del genitore che si vuole emulare. Se poi ci si trova a essere figli di uno scrittore ebreo in Europa ai tempi del nazismo, la faccenda assume un ulteriore grado di complessità. Se, infine, l’orientamento di genere si condensa in una natura omosessuale, già adesso in più di metà del mondo questa cosa sarebbe problematica: figuriamoci un secolo fa, quando in Germania si faceva presto a bollare esistenze e vicende umane come degenerate.

Ph Manuela Giusto

D’altronde, nonostante il talento del giovane Klaus, che fin dall’inizio degli anni ’20 pubblicava libri di racconti ed esercitava una scrittura critica su diversi giornali tedeschi prima dell’avvento di Hitler, la sua omosessualità lo porterà presto al conflitto anche con l’incombente figura paterna che, pur condividendo la stessa natura, l’aveva celata dietro scelte di convenienza sociale, cosa che evidentemente il figlio non aveva alcuna intenzione di fare.
Proprio nel 1936 Klaus emigrò negli USA, stabilendosi a Princeton, nel New Jersey, e poi a New York. Partecipò, poi, negli anni della Seconda guerra mondiale, arruolandosi nell’esercito USA, alla resistenza, e divenne cittadino statunitense nel 1943.
Ma, come anticipavamo, questa storia non finisce bene: Klaus Mann morì suicida, per overdose di barbiturici, a Cannes nel 1949. Proprio nel 1936, anno della sua fuga negli USA, pubblicò Mephisto, il romanzo che ci interessa ai fini di questa riflessione, perché oggetto di numerosi riadattamenti, fra cui uno filmico celebre del 1981 diretto da István Szabó, e oggi anche in Italia quello teatrale, per la regia di Andrea Baracco, di cui intendiamo appunto parlare. Peraltro, anche le vicende legate al romanzo, riadattato per la scena dallo stesso Baracco insieme a Maria Teresa Berardelli, non furono meno rocambolesche e sfortunate della vita di chi lo aveva scritto.
Il protagonista è Hendrik Höfgen, un attore, ma in realtà è il ritratto letterario caustico e satirico della vicenda umana e professionale dell’amico, e poi cognato, Gustaf Gründgens, che fu marito della sorella di Klaus Mann, Erika, fra il 1926 e il ’29. Non è certo una scelta facile scrivere un libro prendendo di mira il talentuoso, ma vanitoso e opportunista (ex) cognato: costui, quando Adolf Hitler salí al potere, si convinse, in cambio di nomine e carriera in importanti teatri tedeschi, ad adattarsi al nuovo regime, diventando anche uno degli artisti preferiti di Hermann Göring, praticamente il maggior corresponsabile, con Hitler, dell’indirizzo politico criminale del nazismo.
L’ambizioso artista, così come il protagonista della vicenda romanzata, abiurerà gli ideali giovanili, rassegnandosi, in cambio di potere e visibilità, alla eliminazione di tutte le sue amicizie prossime, da quelle amicali a quelle (omo)sessuali. Ma il romanzo, forse, sarebbe stato dimenticato se non fosse che il figlio adottivo di Gründgrens, a guerra finita, intentò causa per proibirne la ristampa, dopo la prima edizione tedesca nel 1956. Dopo una battaglia legale durata sette anni, la Corte Costituzionale tedesca bandì l’opera, con il voto di tre giudici contro tre. Praticamente in Germania si è dovuto aspettare il 1981 (anno di uscita del film) per avere la ripubblicazione del romanzo a cura di un altro editore, su cui non ricadeva la sentenza precedente, e contro il quale non fu intentata alcuna nuova causa.

Venendo, quindi, all’allestimento scenico di Andrea Baracco, uno degli artisti che compone la direzione artistica di MAT, Movimenti Artistici Trasversali, sodalizio toscano erede dell’antico progetto del Teatro Del Carretto, il regista gioca dentro una macchina scenica che sviluppa teatri nel teatro come in un gioco di matrioske, frutto di un interessante lavoro scenico a opera di Marta Crisolini Malatesta e Francesca Tunno, che lavorano bene anche sui costumi, e del bellissimo disegno luci di Orlando Bolognesi. Dietro il primo sipario ce n’è un altro, che ha la platea rivolta verso la scena, in stile Cinema Cielo, e questo diventa il teatro verso il quale si rivolgono gli attori quando raccontano il loro recitare per professione. Noi spettatori li vediamo come se fossimo nascosti dietro una tenda a fondo palco.

Ph Manuela Giusto

Bolognesi, oltre ad assecondare questi molteplici campi, dispone quasi in proscenio una serie di piantane con fari a vista e poi altri tagli luminosi trasversali capaci di creare una molteplice serie di ambientazioni emotive, che vanno dal calore iniziale della vita allegra e combriccolosa del giovane teatrante, con amicizie comuniste e amori trans, al suo evolvere fino al tradimento di questi rapporti umani, e al suo abbraccio con il potere (indimenticabile la risoluzione video che Baracco sceglie – avvalendosi della proficua collaborazione di Luca Brinchi e Daniele Spanò, per questo momento dello spettacolo, quando fa finire l’attore che interpreta il protagonista, un profondo e perturbante Woody Neri, peraltro di nero vestito, fra le mani plaudenti di un gerarca nazista proiettato gigante a fondale).
Non è l’unica proiezione e nemmeno la più dura da vedere, considerando che di lì a poco verrà raccontato dell’incontro del teatrante, comunque sfiorato dagli scandali sulle sue amicizie omosessuali, niente meno che con Hitler. Il suo sembiante, proiettato e leggermente mosso con qualche artificio da intelligenza artificiale, ha qualcosa di dolorosamente inquietante, che non può lasciare indifferenti e rende quanto mai attuale, pur nella storicizzazione iconica, tanto la vicenda di Mann, quanto del suo romanzo trasposto per la scena.
L’esito teatrale è affidato, oltre che all’interpretazione di Neri, anche a una vorticosa coralità, di cui si fanno assai validi interpreti gli altri attori in scena, Ian Gualdani, Anahì Traversi e Giuliana Vigogna. Lo spettacolo, che ha debuttato di recente a Viareggio al Teatro Jenco, e che ora prosegue con una serie di repliche di circuitazione e rodaggio, è un lavoro di pregio, assai potente sia dal punto di vista scenografico che registico-interpretativo, affidato a una compagine giovane, ma robusta, capace di intonare in modo accurato la satira sociale sottostante il testo. Soprattutto, riesce ad attualizzare quel modo opportunista, ambiguo, spietato che si dà nei cambi di potere, quando esiste sempre quella parte della società che, abiurando i valori in cui è nata, abbraccia per sete di potere o di gloria le ragioni dei regimi, spesso fino a conseguenze disumane.
È un tema questo di stretta attualità, che vorremmo sempre considerare come riservato alle nazioni in cui il concetto di democrazia è più lasco, ma che in realtà riguarda anche le nazioni con una storicità della democrazia parlamentare più consolidata. Mai come in questo momento, messe sotto scacco dalla comunicazione social, sembrano fragilissime e pronte a trasformarsi in simil-dittature, violente e autoriferite, con esiti imprevedibili.
Questo Mephisto, quindi, brucia, è veramente caustico: è ben diretto, scenicamente risolto e ben interpretato.
Da programmare.

MEPHISTO
Romanzo di una carriera

di Klaus Mann
adattamento Andrea Baracco e Maria Teresa Berardelli
regia Andrea Baracco
interpreti Ian Gualdani, Woody Neri, Anahì Traversi, Giuliana Vigogna
voce dell’autore e voce di Amleto Lino Musella
ideazione Scene e Costumi Marta Crisolini Malatesta, Francesca Tunno
suoni e musiche Giacomo Vezzani
video Luca Brinchi e Daniele Spanò
disegno luci Orlando Bolognesi
produzione MAT

13 marzo 2024 | Teatro Jenco, Viareggio