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Hamm-Lett: se Amleto divora Gertrude e Ofelia

MILENA COZZOLINO | Aprile 2016, La Piccola Compagnia della Magnolia presenta a Napoli, in una Galleria Toledo semi deserta, forse complice la partita di campionato della squadra della città, Hamm-let/Studio sulla voracità. È una serata di primavera e c’è la partita. Ma uno sparuto numero di spettatori decide comunque di entrare in teatro e spendere là un’ora, o poco più, del proprio tempo.

hamm-let_19I presupposti sono buoni. Le critiche e i commenti sui social entusiastici. Così ci si predispone all’ennesimo viaggio teatrale. Seduti in platea, si parte. L’atmosfera è accogliente, gli attori sono là, ad attendere il pubblico. Quando tutti si sono accomodati, la macchina teatrale si avvia.
Sullo sfondo una tenda a losanghe bianche fa da sipario scenografico, su cui si proietta un gioco di ombre che, a seconda delle angolazioni da cui lo si osserva, appaiono alte e imperiose o allargate e maestose, ma che, pur nella loro sostanza fantasmatica, sembrano più vivide dei corpi veri, più parlanti e più influenti, così come lo sono spesso i fantasmi nei testi scespiriani.

Dalle fenditure dello sfondo escono anche tre iene, maschere dell’inconscio dei tre personaggi estratti dal dramma: la regina Gertrude, Amleto e Ofelia, che nel loro reciproco rapportarsi si sbranano vicendevolmente. Questo è il presupposto drammaturgico immediatamente svelato. Così parte il racconto di una tragedia ormai fin troppo risaputa e oggetto delle più disparate sperimentazioni teatrali (e non solo). Amleto è il dramma scespiriano per eccellenza e dopo ogni revisione sperimentale le parole del Bardo restano ancora così universali da offrirsi a qualsivoglia studio, oltre ogni cannibalica usurpazione. Il bagaglio che ci portiamo dietro è carico di Amleto ed Ex Amleto. Il dramma è pesante, ma Shakespeare resiste. E anzi, ogni volta il suo mistero ne esce rafforzato.

L’immagine degli attori mascherati da animali ci introduce, con un espediente teatrale non certo nuovo, nel mood di uno scavo psicologico ed onirico. Amleto non è una tragedia tout court è piuttosto un play come dicono gli inglesi, un gioco tearale, e in quanto tale schiude possibilità numerose. La riformulazione qui non è parodica, La Piccola Compagnia della Magnolia scivola verso la tragedia. Anzi, alza i toni, squaderna la tragedia, ci va a fondo scendendo nelle viscere intestine di quel mondo interiore sottaciuto, lasciato trapelare come mistero o tabù nell’opera del Bardo, e lo fa grazie ad una recitazione esasperata, che trova una chiave convincente sul piano attoriale, e nella quale si sente l’eco di un pianto tutto interiore che trabocca di confusione, di limiti che si travalicano, di quel desiderio anomico e amorale, che è reale solo nei sogni. La follia è nell’aria.

La voracità di Amleto e degli altri personaggi è dunque quella di un desiderio illimitato che tutto inghiotte, è il sangue che scorre come passione liquida che sa di sesso incestuoso. Davide Giglio, nei panni del principe di Danimarca, si aggira sulla scena con movenze e costume orientali, da samurai, potremmo dire. Il punto è che il segno resta uno tra i tanti non concertato: le musiche che non creano ambientazione, non rimbalzano nemmeno semanticamente. Da La partita di pallone di Rita Pavone all’indirizzo di Gertrude che lascia perplessi ad Almeno tu nell’universo di Mia Martini sul finale, in cui Amleto si riconosce in una sessualità ambigua, che appare forse addiritttura disascalica. Bella, invece, esteticamente ed espressiva da un punto di vista narrativo, l’immagine di Ofelia (Federica Carra) che annega il suo dolore in un mare di bottiglie d’acqua.

Insomma, Giorgia Cerruti ci invita a fare un viaggio preparato con cura, ma non ci dà le coordinate per giungere a destinazione. In questo modo potrebbe anche volerci costringere ad arrivare da soli, ma chi scrive, ad esempio, non ce la fa. Si perde prima, in un labirinto di segni che traboccano, in un profluvio barocco, che non è il barocco dell’epoca di Shakespeare, ma quello di cui parla Lukacs individuandone, dietro la maschera, il teschio dell’avanguardia. Un’avanguardia che ha fatto il suo tempo, così come la post-avanguardia. Noi siamo oltre ogni decostruzione. Oltre Lukacs e oltre Derrida. Lo spirito del nostro tempo, che affonda le radici nella crisi dell’oggi – una crisi economica e di idee in maniera correlata – imporrebbe uno spirito di ricostruzione che chiama in causa la capacità epica, e quindi di andare oltre l’accatastamento di segni su segni da passare al setaccio.
I nostri poeti dovrebbero cercare per noi altre storie possibili, magari prendendoci per mano e conducendoci a vedere altri scenari possibili. Potremmo forse tornare così ad avere i teatri pieni, come all’epoca di Shakespeare. Anche nelle belle sere di primavera. E quando c’è la partita, che, come dice Roland Barthes, è l’unica erede, nella società contemporanea, del potere aggregativo della tragedia greca.

Hamm-Let \ Studio sulla Voracità
regia Giorgia Cerruti
con Davide Giglio, Giorgia Cerruti, Federica Carra
produzione Piccola Compagnia della Magnolia
con il sostegno di Sistema Teatro Torino e Provincia
in collaborazione con Théâtre Durance / Scène Conventionnée
(Paca – France) e Corte Ospitale di Rubiera (Mo)

L’Edipo Re di Archivio Zeta: l’eroica ricerca del vero

RENZO FRANCABANDERA | I segni scenici sono pochi ma nella sostanza inequivoci: una pedana di legno chiaro con un trivio, una Y con i due rami corti rivolti verso la platea, a ricordare le vicende della vita del protagonista (sospesa in apparenza nel nero scenico, suggestionata, ci viene poi spiegato, da alcuni fotogrammi di ispirazione cinematografica), l’intelaiatura di una porta stretta sempre di legno chiaro sul fondo dl lato lungo della pedana. Un trono vacante all’inizio. Abiti lunghi e neri o rossi. Il resto è luce e buio.

E’ un progetto molto ampio di ragionamento sullo spazio del tragico quello che Archivio Zeta (Enrica Sangiovanni ed Enrico Guidotti) sta portando avanti da anni, dapprima nell’universo suggestivo ma più isolato della zona della Futa con la loro piccola decennale residenza fino al 2014 e ancor più vivamente da quasi de anni a Bologna, dove la compagnia teatrale si è trasferita di recente. Una serie di progetti in parallelo, che indagano teatro e spazi, ideologia e impegno, mito, tragedia e contemporaneità.

Edipo Re è forse, nella sua evoluzione dal 2011, quando l’idea è nata ed ha avuto i primi allestimenti all’aperto, ad oggi, che lo spettacolo ha iniziato a girare nelle sale italiane in una versione indoor (noi lo abbiamo visto al Sala Fontana di Milano, sala emanazione di Elsinor, che ha avvicinato Archivio Zeta per una progettualità più ampia), la prima creazione pensata e affinata per una circolazione in spazi più convenzionali, scontando la vocazione della compagnia ad allestimenti di natura più ambientale, quasi colossale, pur attraverso mezzi non sofisticati.

La scena si apre con lo scranno vuoto ed un roteare di luci nel buio, quasi alla ricerca di qualcosa. Qui la sfinge, qui la profezia, qui Edipo incredulo, e sua madre. Guidotti è un Edipo guascone e quasi irriverente, ma che pian piano svilupperà una sorta di titanica tensione all’assoluto pur mantenendo intatta la sua fragilità. Enrica Sangiovanni interpreta tutti gli altri personaggi, dalla madre/moglie all’indovino, fino ai pastori che avrebbero salvato la vita al protagonista.

imageDal punto di vista sia sintattico che simbolico lo spettacolo si avvale innanzitutto di una pregevolissima traduzione del testo, curata da Federico Condello. A questo tappeto di parole, nel tempo, è stata sottratta la trama che delineava la figura di un Creonte quasi irriverente, per focalizzare maggiormente l’attenzione su Edipo, le sue debolezze e le sue contraddizioni, ma soprattutto il suo rapporto con il destino, oltre il bene e il male, il giusto e ingiusto, per andare incontro ad una prometeica ed eroica verità. Il finale, contrapposto a quell’iniziale ricerca nel buio, è un bagliore accecante che promana da due occhi che sovrastano tutto.

La ricerca del vero, del giusto, prima ancora che negli altri in noi stessi, avvicina l’evoluzione di questo allestimento all’indagine sulla colpa e il coraggio che Archivio Zeta sta, per altro verso, sviluppando con la Scuola di pace di Montesole, vicino Marzabotto: una riflessione iniziata due anni fa sul testo di Parise L’uomo e le cose e portata avanti in questa prima parte d’anno con La zona grigia, narrazione performativa ispirata ai testi dell’ultimo Primo Levi.

Cosa emerge in maniera chiara sull’operato di questa compagnia, guardando in retrospettiva ai lavori dell’ultimo quinquennio fino all’Edipo Re? Al di là della grande attenzione per il simbolo e lo spazio, per gli elementi scenici e il loro intreccio semantico senza sbavature, la caratteristica di maggior pregio del linguaggio di Guidotti e Sangiovanni risiede nella capacità di rendere coincidenti le loro scelte sul logos scenico sia allo sguardo il critico che a quello del pubblico. È un’enorme ricchezza che lo spettatore sia condotto in un universo molto complesso ma in cui la sua fruizione non sia sensibilmente distante nel percepito rispetto a quella dello spettatore esperto. E come se l’esercizio principale di Archivio Zeta risiedesse nell’individuare segni semplici per definire concetti complessi, una vera e propria arte che parte sempre dal testo per arrivare alla tridimensionalità scenica. In questo allestimento, poi, proprio a proposito di tridimensionalità scenica, si fa effettivamente prezioso il lavoro di Antonio Rinaldi alle luci, una vera e propria presenza, o assenza a seconda del caso.

Le figure riescono quindi ad emergere in una caravaggesca e finita teatralità, che però arriva ad avvicinare il vero del tragico e ad abbagliare lo spettatore.


Edipo Re
traduzione Federico Condello – Università di Bologna
diretto e interpretato da Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti
musica Patrizio Barontini
luci Antonio Rinaldi
suono Tempo Reale
sartoria Made in Tina
assistenza di scena Andrea Sangiovanni
coordinamento organizzativo Luisa Costa
cura Rossella Menna
 

De revolutionibus: povertà e poesia della miseria umana

ESTER FORMATO | Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi dirigono ed interpretano  “De revolutionibus – sulla miseria del genere umano” , spettacolo basato su due Operette Morali di Giacomo Leopardi, il Copernico ed il dialogo Galantuomo Mondo. I due testi che leggendoli possono sembrare a sé stanti, sono invece qui messi accanto all’altro tramite un gioco scenico ed  una teatralizzazione della prosa filosofica che la rende vivido linguaggio da impiegare abilmente sulla scena. I due artisti siciliani scelgono di restituirci la filologica lettura delle operette incorniciandole entro un misero teatrino di legno il cui minuscolo palcoscenico è formato da due piccoli carretti sopra i quali vi sono due scritte, “Operetta infelice e per questo morale” e Operetta immorale e per questo infelice”, come sottotitoli dei due Dialoghi.
Sorge nella nuda sala dello Start/Interno 5 questo piccolo assito ambulante con una sorta di tenda esagonale azzurra e forata nel centro e degli oggetti di scena (trono del Sole, sgabello…) che mantengono per certi aspetti una dimensione minuta o in ogni caso minimale (la pentola il cui fondo ha uno spicchio bianco che segna l’Ora Prima e poi Ultima). 

de-revolutionibusLa recita delle due operette inizia dopo il tocco che i due attori fanno per potersi assegnare le parti, cosicché il Sole è Carullo mentre Copernico con un cannocchiale sopra al capo è la Minasi e poi di nuovo tirando a sorte, Minasi diventa il Mondo (o la signorina Civiltà) prendendo il “trono” del Sole, e Carullo il Galantuomo. Giocando con l’interscambiabilità dei ruoli si palesa così la natura artigianale del far teatro, fra rivoluzione e miseria, parole chiavi che sintetizzano il senso di entrambi i testi leopardiani e che noi rileggiamo sulla base dell’ eredità morale che il poeta recanatese con la stesura de “La Ginestra” lasciò ai posteri; quella resistenza solidale fra uomini intesa come rispettosa tenacia dinanzi all’oggettiva infelicità umana ed al progresso che la Civiltà arreca con sé, ma che in realtà non fa altro che modificare in negativo la relazione con la Natura ed i propri simili. Se, dunque, la Rivoluzione terrestre determina la consapevolezza degli umani di essere, appunto, miseri e nulli dinanzi all’universo (concetto che in modo molto lapidario Pirandello espresse con il suo celebre “Maledetto Copernico!”), la stessa miseria umana scaturisce anche da quelle “Magnifiche sorti e progressive” qui incarnate in una corrotta e disincantata donnina, la Civiltà (il mondo), cinta della gonna che è lo stesso telo pendente sull’assito.
Nell’analizzare “De revolutionibus” scopriamo che due livelli di lavorazione s’intersecano; il primo si riscontra nella capacità, attraverso una mimica gestuale che in maniera pulita si declina al farsesco e grazie ad un filtro espressivo immediato, non privo di dialettalismi, di incanalare la prosa di Leopardi su un palcoscenico. È chiaro che Carullo e Minasi hanno fatto emergere tutte le loro potenzialità interpretative costruendo  una poetica teatrale che fa del meccanismo stesso della finzione la relativa costruzione scenica, non scevra di ironici richiami alla loro storia artistica. 

Un teatro povero, dunque, con il quale il duo siciliano ci rimanda la propria volontà di “resistere” su di una scena minuta e fragile che nel proprio essere tale si riscopre, invece, replica dopo replica “resiliente”, in grado di ricostruirsi di volta in volta per un pubblico, qui ironicamente schernito come sorta di massa omologata o platea qualunquista: l’umanità nostra contemporanea, insomma, non così dissimile da quella alla quale guardava il poeta.
Quando Leopardi scrive l’Operetta morale “Mondo e Galantuomo” egli volge il suo severo sguardo alla cultura umanista sua coeva, intorbidita da un acritico pensiero post-illuministico che parteggia per un progresso che lo stesso recanatese intravede come passaggio negativo, oppure ancora piena di un retaggio di ottuso conservatorismo; nell’uno o nell’altro caso si fa strada la pratica di una superficiale corsa alla fama che sacrifica l’onestà del pensiero libero a favore delle tendenze culturali imperanti. Esattamente è ciò che Carullo e Minasi sembrano volerci dire sulle sorti del teatro d’oggi. Essi, che di piccoli carrettini di legno ne fanno assito precario da smontare a recita conclusa, raccontano mediante un’unica narrazione dei due testi,  la loro storia, tra tante di quelle di piccole realtà teatrali che cercano di tener testa ad un macrosistema vorace, entropico ed informe, basato su parametri “aziendali”.
Carullo e Minasi, affidandosi alla loro pratica teatrale ne esemplificano immediatezza e tenacia, volgendola – senza dare adito a ripiegamenti ideologici, ma facendosi bastare la sola ironia leopardiana – in un dolce atto di condivisione con chi siede in platea.

De Revolutionibus – sulla miseria del genere umano

da
 Il Copernico e Galantuomo e Mondo
di Giacomo Leopardi

diretto e interpretato da
Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi

disegno luci
Roberto Bonaventura

scene e costumi
Cinzia Muscolino

scenotecnica
Piero Botto

assistenza alla regia
Veronica Zito

ringraziamenti
Giovanna La Maestra, Angelo Tripodo, Simone Carullo

produzione
Carullo-Minasi, I Teatri del Sacro

È il gabbiano a essere morto o lo siamo noi? Il Cechov di Ostermeier

GIULIA MURONI | Una giovane donna, Katharina Ziemke, munita di rullo e tempera diluita nell’acqua, tratteggia un disegno sul fondale scenico. Compie gesti ampi, coreografici, per abbozzare dei segni che, scivolando, formano dei rivoli che digradano. È un muoversi ipnotico: il rullo si solleva e, accarezzando un semicerchio nell’aria, marca delle forme scure che, non appena compiute, si sfaldano in irrefrenabili strascichi. Un susseguirsi di immagini ineffabili fa da sfondo alla vicenda cechoviana narrata da Ostermeier.

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Nello spettacolo coprodotto dal Teatro Stabile di Torino insieme al Theatre Vidy Lausanne e all’Odéon Théâtre de l’Europe, Thomas Ostermeier si avvale de “Il gabbiano” di Cechov per comporre un quadro denso e ambizioso. I personaggi sono presenti all’ingresso del pubblico, ai lati di una scena fredda e squadernata. Capeggia sullo sfondo una scritta «Tutta la mia opera è intrisa del viaggio a Sachalin. Chi è stato all’inferno vede il mondo e gli uomini con uno sguardo diverso». Cechov in qualità di medico andò a Sachalin, in Siberia e non poté non tornarne profondamente stravolto. Sparita la scritta, l’attore esce dalla trama cechoviana per raccontare la vicenda di un medico siriano residente a Parigi, dei debiti contratti per farvi giungere la famiglia, del mestiere di tassista nel tentativo di colmarli.

Lo sguardo, reso forse ormai grave dalla vista di dolori laceranti e concreti, si fa impietoso di fronte alla commedia umana magistralmente raccontata da Cechov. Ostermeier taglia e cuce dal testo, ma lo scheletro c’è: la celebre attrice Irina, il suo amante Trigorin e Konstantin, il figlio con velleità drammaturgiche. Konstantin, a sua volta in una relazione con un’attrice, Nina, si rivela invischiato in una dinamica conflittuale con la madre: le proprie chiassose aspirazioni in contrasto con la biografia, i traguardi e la visione del teatro della madre. Sorgono per bocca di Kostja degli interrogativi sulla natura del teatro, della sua contemporaneità, sul senso dei codici per raccontarlo. Affiora qui l’ironia sprezzante e acuta di Ostermeier che usa il metateatro per colpire se stesso, severo su una sperimentazione cui non si  sottrae, tagliente sui cliché del rappresentare contemporaneo e di un reiterato significare scenico.

LA MOUETTE Mise en scène: Thomas Ostermeier Traduction et adaptation: Olivier Cadiot, Thomas Ostermeier Musique: Nils Ostendorf Scénographie: Jan Pappelbaum Dramaturgie: Peter Kleinert Costumes: Nina Wetzel Lumière: Marie-Christine Soma Peinture: Katharina Ziemke Assistanat mise en scène: Elisa Leroy, Christèle Ortu Construction du décor: Atelier du Théâtre de Vidy Avec: Bénédicte Cerutti Valérie Dréville Cédric Eeckhout Jean-Pierre Gos François Loriquet Sébastien Pouderoux de la Comédie-Française Mélodie Richard Matthieu Sampeur Et Marine Dillard (peinture) Copyright by Arno Declair Birkenstr. 13 b, 10559 Berlin Telefon +49 (0) 30 695 287 62 mobil +49 (0)172 400 85 84 arno@iworld.de Konto 600065 208 Blz 20010020 Postbank Hamburg IBAN/BIC : DE70 2001 0020 0600 0652 08 / PBNKDEFF Veröffentlichung honorarpflichtig! Mehrwertsteuerpflichtig 7% USt-ID Nr. DE 273950403 St.Nr. 34/257/00024 FA Berlin Mitte/Tiergarten

Il repertorio (troppo) umano dei sentimenti è presente in modo cospicuo: le ambizioni frustrate, le passioni tristi, i risentimenti e le meschinità, le rivendicazioni, la codardia, l’ansia di non farcela. E poi non farcela davvero, scegliere la morte.

Soltanto all’inizio viene bucata la bolla entro cui osserviamo i personaggi. Per il resto dello spettacolo vi sono immersi e li vediamo armeggiare, vestiti come ai giorni nostri, intervallati da melodie suonate da loro stessi. Si tratta di brani famosi (Bowie, Dylan, Morrison) che, insieme alle citazioni pop riprese da più media, straniano dalla narrazione e rendono lo spettacolo soltanto apparentemente mansueto, poiché l’invettiva contro i cliché del teatro si traduce in una riproposizione polemica e interrogante degli stessi. La cifra del ribaltamento consente di vedere come in un acquario i personaggi affaccendarsi nelle loro piccolezze, inciampare e ricadere nei medesimi errori avvolti in un’atmosfera che, mutando perennemente, resta sempre la stessa. Ostermeier firma uno spettacolo profondo, provocatorio e intenso che, prestandosi a letture stratificate, non dimentica l’immediatezza. Indocile, interroga e s’interroga sull’essenza del teatro, dei sentimenti e della vita.

 

IL GABBIANO 
di Anton Cechov
traduzione Olivier Cadiot
adattamento Thomas Ostermeier
drammaturgia Peter Kleinert
con Bénédicte Cerutti, Valérie Dréville, Cédric Eeckhout, Jean-Pierre Gos,
François Loriquet, Sébastien Pouderoux – de la Comédie-Française -,
Mélodie Richard, Matthieu Sampeur
regia Thomas  Ostermeier
scene Jan Pappelbaum
costumi Nina Wetzel
luci Marie-Christine Soma
musiche Nils Ostendorf
pitture Katharina Ziemke
Théâtre Vidy-Lausanne
in coproduzione con Odéon – Théâtre de l’Europe, Théâtre National de Strasbourg, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, La Filature – Scène nationale à Mulhouse, TAP – Théâtre Auditorium de Poitiers Théâtre de Caen

visto alle Fonderie Limone, Moncalieri (To)
Teatro Stabile di Torino, stagione 2015/2016

Arancia meccanica: la violenza come inno alla gioia

GIULIA TELLI | L’Arancia meccanica tratta dal romanzo di Anthony Burgess e portata in scena da Gabriele Russo al Teatro Carcano di Milano, con un cast di sette attori, è una di quelle rare operazioni di contaminazione artistica riuscita.

Citando il titolo originale dell’opera, A Clockwork Orange, il regista riesce nella non semplice impresa di restituire sulla scena – inscatolata ma al tempo stesso smaterializzata in suggestioni visive di forte impatto, grazie alla sensibilità artistica dello scenografo Roberto Crea – un perfetto ingranaggio, pronto a far esplodere sullo spettatore tutto il marcio galleggiante di un mondo psichedelico, ambientato in una realtà distopica.

Il linguaggio scenico e il corpo dell’attore si mescolano con l’arte visiva e concettuale dell’installazione artistica. Le quinte stesse, parallelepipedi in legno lavorati con un materiale che ne restituisce una superficie grumosa a tratti simile a un paesaggio lunare, sembrano opere d’arte a sé stanti. L’omaggio a Kubrick serpeggia in tutto lo spettacolo, e non solo in riferimento al film in questione, ma anche a 2001: Odissea nello spazio, di cui ripropone, in varianti diverse, alcuni elementi chiave, come il famoso monolite nero, “porta” per un altro mondo: spinto dalla musica, Alex, il protagonista ben interpretato da Daniele Russo, accede a uno spazio immaginario, un’altra dimensione, il suo subconscio, dove sembra si svolga in realtà l’intera azione dello spettacolo. Già dal suo inizio, le quinte nere richiamano il parallelepipedo per forma e colore, così come i cubi entro cui si esplica la violenza dei tre drughi che comunicano tra loro attraverso uno slang inventato (il nadsat, mix di inglese colloquiale e russo): quello in cui i tre si presentano in una delle prime scene – “chiuso” da un telo di plastica trasparente, che Alex lecca come se fosse un cono gelato – come all’interno di una vetrina, immobili, in una beffarda posa sorridente, e quello in cui si consuma il pestaggio dell’intellettuale e lo stupro della moglie. Il quadro-scena consiste in una sorta di scatola bianca che avanza a rallentatore in proscenio, omaggio alle tipiche carrellate veloci e lente della macchina da presa di Kubrick, illuminata da luci cangianti che virano dal blu al viola, al verde acido alterando la percezione dello spazio.

Il regista dà vita a veri e propri tableaux vivant di matrice pop – la cultura d’immagine per eccellenza, di icone – che si spostano su binari all’interno della scena, come in flusso continuo di coscienza. Ma i parallelepipedi non solo possono contenere gli attori, ma anche far loro da “appoggio”. Per tutto lo spettacolo Alex e le forze istituzionali si sdraiano su rettangoli metallici, parlano in piedi su grossi quadrati, da cui salgono e scendono. Spazi contenitori, quindi, indicatori metatestuali, una “porta” per un’altra dimensione, quella interiore del protagonista in cui si consuma lo spettacolo della violenza o la violenza come spettacolo. Matrioske spaziali ed emozionali che richiamano diverse dimensioni, in cui realtà e incubo interagiscono senza soluzione di continuità.

Compiere atti di “ultraviolenza” procura loro una sorta di estasi mistica. La stessa estasi, allucinogena però, che deriva dall’assunzione di latte corretto mescalina. I paradisi artificiali son ben resi nella trasposizione scenica di Crea da sacche-mammelle pendenti dal soffitto – che ricordano l’opera dell’artista brasiliano Ernesto Neto “Leviathon Thot” – alle quali i tre drughi si attaccano per bere latte+.

Così come la violenza trasfigura e deforma il reale, anche la musica classica – arancia-meccanica-modena4.jpgco-protagonista nello spettacolo, anche qui, come in 2001 – viene sapientemente elaborata e distorta dal “metodo Morgan”. Colori e costumi travalicano il loro senso tradizionale (forse proprio per riaffermarlo?): la lotta tra l’istinto e la ragione, tra l’impulso individuale e quello collettivo, tra il bene e il male, tra il buio e la luce, tra lo yin e lo yang si esplica nel sapiente uso di un forte contrasto tra bianco e nero (tipico dell’optical art), che si carica di valenze simboliche. E così l’illuminazione bianca espressionista immobilizza i personaggi, “incastrati” tra le pareti nere dell’incubo lucido di Alex; il latte bianco, in antitesi al suo tradizionale simbolo di purezza, richiama invece in tal contesto il concetto di “malsano”, di “inganno”, è degenerato perché “migliorato” da droghe e quindi stimola violenza.

I drughi indossano eleganti smoking neri e bianchi, “sporcati” però da pellicce che rimandano alla ferocia degli animali primitivi, selvaggi. La violenza permea qualsiasi cosa. Giovani marionette grottesche si muovono schiacciate dalla società, la quale, invece di salvare coscienze, innalza un muro – che sulla scena di Russo si materializza nella scatola nera delle pareti e dell’inconscio di Alex – trafitto però dal forte contrasto del giallo di alcuni costumi, quasi a voler simboleggiare un urlo di aiuto o di forte presenza, una nota di “colore” positiva e di speranza, che ben si distanzia dal pessimismo cosmico kubrickiano, invitando a un risveglio delle coscienze del nostro tempo e alla non-violenza.

ARANCIA MECCANICA

di Anthony Burgess

Con Daniele Russo, Sebastiano Gavasso, Alessio Piazza, Alfredo Angelici, Martina Galletta, Paola Sambo, Bruno Tramice

Musiche Morgan

Scene Roberto Crea
Costumi Chiara Aversano

Regia Gabriele Russo

Produzione Fondazione Teatro di Napoli -Teatro Bellini di Napoli

Akropolis: Zarathustra e l’ancestrale

MARIA DOLORES PESCE | Il corpo dell’uomo emerge dalla oscurità del mito come dalle doglie di un parto e pretende un suo posto in un mondo che va definendosi nel contatto e nella reciproca relazione, una relazione ancora aspra e priva di parole segnata dai ritmi rituali di una musica incombente che tutto avvolge e penetra.

È la nuova tappa del percorso di ricerca di Teatro Akropolis e dei due suoi drammaturghi, Clemente Tafuri e David Beronio, intorno alle radici del mito e della tragedia, intesa come esperienza fondante dell’uomo occidentale, una esperienza però non solo culturale e intellettuale ma anche molto concreta che incide fisicamente e filosoficamente incistando il nostro stesso corpo.

unnamed-1.jpgNel segno dell’esperienza nicciana, dunque, la drammaturgia procede in scena per contrasti (luce – buio, suono – silenzio, abbraccio – respingimento) così da recuperare il senso profondo del nostro essere nel mondo, il primo fondamento sia delle esistenze personali che della Storia e della cultura nelle loro infinite e contrastanti manifestazioni.

Alla fine emerge anche la parola che è un atto di conciliazione e che dunque guida alla definizione di un mondo fatto di identità, identità che sono singolarità esistenziali ed, insieme, relazioni nel tempo.

“La bellezza del superuomo venne a me come un’ombra. Ah, fratelli! Che mai possono importarmi ancora – gli dei”, scrive Nietzsche in un aforisma del suo Zarathustra quasi ad accompagnare il procedere della ricerca di Tafuri e Beronio di cui il titolo stesso del festival “Testimonianze ricerca azioni” è icastico sunto.

Il confronto con la dis-misura dell’uomo rituale e mitico della tradizione dionisiaca diventa così anche occasione di studio e sperimentazione del corpo attoriale in cui quasi si disseccano le forme della recitazione alla ricerca di una sorta di fonte primigenia del movimento e del suono.

La regia degli stessi drammaturghi sovraintende alla scena nella quale i bravi Luca Donatiello, Francesca Melis, Alessandro Romi e Felice Siciliano quasi ne sperimentano gli esiti, trasformandosi man mano da strumenti a protagonisti di conoscenza.

Un spettacolo non facile dagli esiti che man mano si perfezionano e che il pubblico mostra di apprezzare. Al Teatro Akropolis di Genova Sestri Ponente il 14 aprile, con replica il 22, nell’ambito del festival in corso.

Al termine della rappresentazione, e a proposito di radici prime della percezione estetica, il collettivo BDS Crew ha presentato un suo bellissimo murales, proprio di fronte all’ingresso del teatro, ispirato a pitture rupestri recentemente scoperte e che costituiscono la più antica esperienza di arte visiva finora conosciuta. Sono i graffiti della grotta di Chauvet, nel sud della Francia, purtroppo non accessibili al pubblico la cui presenza potrebbe danneggiarli. La loro interpretazione ne conserva ed evoca il senso di stupore riportandolo quasi a quello spaesamento che oggi ci insidia, consentendoci tra l’altro una sorta di accesso indiretto a quelle stesse grotte. Un dono che va oltre i confini del festival e che va a merito della compagnia Teatro Akropolis.

“Enduring freedom”, il Butoh dell’abisso di Imre Thormann

Imre Thormann - ph Julian Vega Lavado
Ph Julian Vega Lavado

MATTEO BRIGHENTI | È un corpo asciugato nella sua esistenza nuda che invoca una ribellione della carne per essere reinventato. Un corpo danzato all’origine, al di là delle convenzioni quotidiane. Tensione, fremito, fermento. Imre Thormann, uno dei più prestigiosi maestri Butoh del mondo, è il rigore, la fatica e la gioia di una libertà permanente. E proprio Enduring freedom si chiama l’ultima creazione del danzatore di Berna classe 1966, studioso di arti marziali come Aikido, Kung Fu, Tai Chi e Taekwon Do, dopo una carriera senza successo in una punk band, e allievo in Giappone del fondatore del Butoh, Kazuo Ohno, e poi di Michizou Noguchi.

L’altrove di un movimento perpetuo ci ha scossi a tal punto da entrare in comunione con quanto accadeva a un palmo dai nostri occhi, dimenticando le sirene delle ambulanze o le urla dei bambini nel giardino di Villa Rossi Martini, a Genova, sede dell’evento in prima nazionale per la VII edizione del festival Testimonianze ricerca azioni promosso da Teatro Akropolis. Occhi rimasti in ascolto di «scoprire la profondità delle cose che accadono e possono ancora accadere», come scrivono i direttori artistici Clemente Tafuri e David Beronio a proposito dell’identità della manifestazione sul volume che ne segue intenzioni ed esiti, Teatro Akropolis – Testimonianze ricerca azioni (AkropolisLibri).

Un rettangolo di neon su un pavimento di marmo a scacchi bianchi e azzurri è lo spazio in cui entra, con fare normale, Imre Thormann. È vestito come tutti i giorni, come resterà anche dopo lo spettacolo, a cena: gessato blu scuro a coste strette, vicine al pari di noi spettatori seduti sui quattro lati, scarponcini neri, camicia bianca, cappello nero a tesa larga. Sembra un sicario, un killer o una spia, non venuta dal freddo come il protagonista del romanzo di Le Carré, ma dal Sol levante. Va a sedersi in un angolo, su una sedia tale e quale alla nostra, e dopo un respiro di silenzio si spoglia con calma solennità. Una volta in piedi, Thormann si scioglie nella pienezza di una danza che le parole possono cercare di restituire a patto di farsi organi, ossa e muscoli di forze ancestrali, quasi divine, di non rappresentare la realtà, ma creare nuova realtà. L’uomo ridotto a niente può tutto.

Enduring freedom è un viaggio di liberazione interiore ed esteriore. Il Butoh, infatti, richiede l’esternazione del proprio, più autentico modo di sentire e, lontano dal formalizzarsi in una tecnica, si fonda su una relazione profonda tra corpo e natura. Lo stesso termine è formato dagli ideogrammi “bu” e “toh”. “Bu” si riferisce agli arti superiori e indica il contatto con il cielo, l’apollineo, mentre “toh” rimanda agli arti inferiori, al calpestio dei piedi e al legame con la terra, il dionisiaco. Il danzatore è spinto quindi a guardarsi dentro, ad ascoltarsi e poi a esprimersi attraverso il movimento e i suoi principi base – la spirale, l’onda, la gravità, l’emozione –, abbandonando concetti come ‘bellezza’ o ‘armonia’ per andare incontro a un approccio fluido all’azione fisica, svincolata così da forme predefinite.

Imre Thormann - ph Giusi Lorelli
Ph Giusi Lorelli

Incurvato, scarnito, contratto, le gambe magre, il ventre piatto, la testa pelata, Imre Thormann si riscopre primo uomo sulla Terra in continua metamorfosi, Adamo che esce dal Giardino dell’Eden, e avanza e abbraccia e ride e gira e si contorce in tutto quello che è. Riesce a farsi piccolissimo e grandissimo, sembra non avere mai fine. Si butta in terra di schianto, si trascina ancorato alle ginocchia, si accascia, si muove non solo fuori, ma anche, soprattutto, dal suo di dentro. Il sudore gli cola dalla testa alle guance e al collo, sono le lacrime dello sforzo e del controllo assoluto del gesto. I colpi per terra diventano l’unica musica presente nella stanza. I colpi e il suo respiro. Le mani in alto, la bocca tirata come una maschera giapponese, poi i piedi in alto, e continua a rotolare, a saltare, a sbattere sul pavimento, che non reagisce (non può), ma neanche il corpo si spezza. È un reggersi cadendo, uno scivolare aggrappandosi, un uso dinamico del vuoto. Siamo storditi, tramortiti, annichiliti, un ragazzo piange lacrime irrefrenabili, eppure non possiamo fare a meno di guardare, perché quell’abisso in cui Imre Thormann è sceso ri-guarda noi, voragine di falene attratte dal lume dell’egoismo che prescinde la compassione, baratro di uomini sul tavolo di marmo del dottor Mengele dello sfruttamento economico o sotto le macerie della democrazia esportata con le bombe dell’operazione Enduring freedom, avviata dopo l’11 settembre 2001 dall’allora presidente USA George W. Bush contro i Talebani in Afghanistan (l’omonimia con lo spettacolo non è un caso).

La testa del danzatore ora è una colata di sudore che invade il corpo, rosso per le botte prese. Rotola verso la sua sedia nell’angolo, ritrovandosi in posizione fetale. Quando si rialza e va a rivestirsi ci coglie un sussulto di vita, torniamo a respirare come un unico, grande polmone che ha trattenuto il fiato fino a quel momento: Thormann è ancora vivo, anzi, è di nuovo vivo. Allora anche noi possiamo sopravvivere, anche noi abbiamo la forza di resistere e rinascere.
Ciò che prima ci sembrava impossibile l’abbiamo visto succedere con i nostri occhi. Gli applausi, tanti, accoglienti e grati, dicono che abbiamo capito e non lo dimenticheremo: il cambiamento è scritto nel nostro corpo. Un braccio, una gamba possono bastare, per dire e fare tutto.

 

ENDURING FREEDOM

di e con Imre Thormann
Festival Testimonianze ricerca azioni VII edizione
Villa Rossi Martini – Genova
16 aprile 2017

Il 2020 secondo Muricena. Human farm

ESTER FORMATO | “Human farm 2020” riprende il titolo dell’orwelliano “Animal Farm” ed alla lontana il contenuto di 1984, declinandolo in un trash televisivo i cui registri interpretativi vengono utilizzati dai tre attori presenti in scena. Massimo Maraviglia ne scrive il testo e Rosa Masciopinto dirige lo spettacolo a cura di Muricena Teatro, giovane realtà partenopea che promuove testi inediti e la valorizzazione di spazi attraverso l’attività artistico-teatrale.
La “realtà” che si cerca di rappresentare sul palcoscenico del Piccolo Bellini di Napoli è quella di due uomini ed una donna vestiti in blu intorno ad uno schermo che trasmette una serie d’’immagini, unico arredo scenico e solo oggetto che possiede il timer affinché non si perda del tutto la cognizione del tempo.
Dopo aver “collegato” con una maschera d’ossigeno allo schermo Gennaro (Antimo Casertano) che su di una sedia a rotelle fa un’inquietante incetta di quelle immagini che scorrono confuse, ci colpisce l’artificiosità del gesto con il quale Teresa (Marianita Carfora) esibisce se stessa. Intuiamo difatti che la quarta parete funge da “telecamera” o quantomeno da vero e proprio schermo globale; una strana vetrina attraverso la quale tutti possono vedere queste tre creature umane confinate in uno spazio claustrofobico dal quale non possono uscire. E difatti quando ad intervalli manca la corrente elettrica, lo schermo, sotto al quale sono incise le lettere HF, si spegne, si bloccano tutte le presunte porte che vanno ad elettricità, ed impazza un’isteria generale fra i tre. Si ha come l’impressione che essi siano umani cibernetici la cui linfa vitale sia la corrente stessa da attingere come vero ossigeno. Lei che a luci spente si leva la parrucca, i seni finti, si stende sul corpo dell’altro che ripetutamente casca dalla sua sedia a rotelle, lasciandoci scorgere dietro la frivolezza un’enorme fragilità, mentre il più giovane  e Elpidio (Raffaele Parisi) che dice di chiamarsi Mario Bros e finge d’esser loro figlio, sviene quando la sua aspirapolvere non funziona più e gli altri si chiedono se sia morto per davvero; torna la corrente, lei torna ad ammiccare, qualche scena si ripete come quella dell’albicocca che grazie ad ultracongelatori si conserva come fresca per mesi, ed un progressivo corto circuito sulla scena e fra l’equilibrio dei personaggi s’insinua sino a che si disvela in conclusione tutta la (loro) realtà. Un diabolico reality, edizione 2020, dal titolo “Human farm” consente a malati terminali di spiattellare in questa presunta e megagalattica televisione, la loro lotta fra vita e morte, lo scatafascio lento del proprio corpo e spirito. Chi resta, chi muore per ultimo, chi supera il televoto, vince, regalandosi una “serena eutanasia”.
La caratteristica principale di questo spettacolo è senza dubbio la tessitura drammaturgica che ci procrastina il disvelamento della vicenda verso la fine, insediando qua e là degli elementi che vengono poi chiariti nell’epilogo, quando i tre protagonisti finalmente s’interfacceranno in maniera diretta con il “pubblico” per ottenerne i voti; e così apprendiamo che l’ammiccare frequente di lei*, la reiterata domanda allo svenimento d’Elpidio e alla caduta di Gennaro “è morto?”, una crisi di astinenza provocata dallo spegnimento dello schermo, l’ingresso imprevisto di un topo schiacciato dal tacco a spillo sono tutte reazioni di chi – incapsulato in un orrenda scatola mediatica – ha assunto su di sé una natura cibernetica ed artificiale, abiurando alla vita e, quindi, per certi versi, anche al processo naturale che è relativo alla morte; un’inesorabile spersonalizzazione ed ipertrofia si stagliano in un futuro troppo vicino, suggestionata da musiche e luci che contribuiscono alla derealizzazione della scena.
C’è una preminenza del linguaggio e toni televisivi nel lavoro di Muricena che influenza la gestualità dei personaggi incuneati in questo scenario da incubo del quale abbiamo chiarezza solo alla fine. Tale meccanismo drammaturgico avrebbe necessitato di una maggior abilità in merito al sostenimento di un ritmo più serrato ed incalzante – invece è davvero lento – e ad un registro espressivo più filtrato, imperniato su toni meno ovvi, pur trattandosi di uno spettacolo basato proprio sulla banalità della parola e del gesto mediati dallo schermo. Soprattutto si denota l’inconsistenza d’intreccio che acuisce la difficoltà dello spettatore nel suo giungere alla piena contezza della vicenda. Anche lo sguardo consapevole di Gennaro che ad un tratto cerca di “gridare” lo squallore di quella trappola per topi, seppur ad un punto si necessitasse di una controparte lucida per poter volgere alla conclusione, appare banalizzato e poi smorzato e dalla repentina virata finale del televoto.
Tuttavia stiamo parlando di una giovane compagnia, nata nel 2011 da una costola dell’Accademia del teatro Bellini di Napoli, che si appresta a sperimentare e sperimentarsi negli svariati linguaggi che il teatro possiede.

HUMAN FARM 2020

liberamente ispirato alle opere di George Orwell
dal testo di Massimo Maraviglia
con Marianita Carfora, Antimo Casertano, Raffaele Parisi
adattamento e regia Rosa Masciopinto
progetto scenico Francesco Esposito
costumi Antonietta Rendina
progetto video e foto VisionArea Studio
disegno luci Gianni Porcaro
assistente alla regia Luca Taiuti
realizzazione scene Antonio Genovese | Laboratorio Da Vinci
make up artist Sveva Germana Viesti | Maria Francesca Miale
grafica Luca Serafino
ufficio stampa Gabriella Galbiati
organizzazione Napoleone Zavatto
una coproduzione Muricena Teatro – Fondazione Teatro di Napoli
con il sostegno di Associazione Teatro Colosimo

Emily reloading: l’universo poetico di Milena Costanzo 

VALENTINA SORTE | Dopo il lavoro su Anne Sexton, tra cui diversi studi e lo spettacolo omonimo “Anne Sexton cleaning the house”, Milena Costanzo ha presentato con “Emily No!” il secondo capitolo della “Trilogia della ragione”, questa volta dedicato ad un’altra poetessa americana: Emily Dickinson. A chiudere il ciclo sarà una donna altrettanto eccezionale, Simone Weil.

Nilena CostanzoNello specifico, il percorso sulla Dickinson ha visto un primo studio “Emily, il buonumore è un dovere etico”, presentato nell’ambito di Stanze (nella suggestiva cornice della Casa Manzoni, a Milano), dove veniva affrontato il rapporto della poetessa con il suo mentore Thomas Higginson. Nella seconda uscita pubblica, all’interno Danae Festival 2015, e in questa ultima data al PimOff, la Costanzo ha invece sviluppato il connubio Emily-Famiglia. Maiuscolo permettendo.

Il lavoro è molto particolare. A prima vista, Emily sembra essere assente, o comunque poco presente in uno spettacolo che porta il suo nome. Anche senza misurare la durata delle sequenze o la frequenza delle entrate/uscite, è la sua famiglia che vediamo per la maggior parte del tempo in scena, e cioè: la madre Emily (Rossana Gay) che vive nel ricordo del marito Eduard, la sorella Vinnie (Alessandra De Santis) ancora zitella e il fratello Austin (Alessandro Mor) devoto alla moglie Susan e al figlio Gilbert. La giovane donna è più volte citata nei discorsi dei familiari ma la sua prima ed effettiva entrata in scena è molto tardiva. Non solo. Quando compare, le sue sono vere e proprie apparizioni: passaggi sporadici e fulminei da una quinta all’altra o brevi performance.

Il rapporto fra le due “narrazioni” è solo in apparenza sbilanciato, perché in realtà tutto il lavoro funziona per slittamenti. L’operazione effettuata è molto sottile. Anche se la Costanzo parte dalla vita e dalle opere della Dickinson (soprattutto dalle sue lettere), molto liberamente decide di trasporre i temi e i pensieri che lì emergono, amplificandoli di volta in volta nei diversi personaggi, senza attribuirli alla sola Emily. I componenti della sua famiglia non incarnano solo se stessi ma sono delle evocazioni della Dickinson, che anticipano così il suo ingresso e smorzano il senso di attesa prolungato “a dismisura”.

Emily Dickinson

In questo ambiente chiuso e puritano, dove la religione fa parte dei riti domestici quanto l’ora del tè, e dove si consumano inutili conversazioni da salotto (magnifica quella sul tombolo e il chiacchierino), trapelano ad un certo punto dai personaggi delle inaspettate “epifanie”. Il desiderio si esprime in loro, esplodendo sotto varie forme: da quella sensuale di Vinnie a quella famelica della madre.

La figura di Emily che emerge è infatti quella di una donna piena di desiderio, fierezza e marginalità. Le entrate di Milena Costanzo sono sempre potenti ed evocative, sia quando recita i suoi versi sia quando si esprime con la sola fisicità. La sua prova è molto intensa, e la scelta di incarnare la figura della poetessa americana invece che interpretarla è azzeccatissima. Restituisce con coerenza l’obliquità che ha attraversato la sua vita e le sue opere.

Bravi anche Rossana Gay, Alessandra De Santis e Alessandro Mor per la loro poliedricità e la capacità di regalare al pubblico momenti di leggerezza e “buonumore”, senza creare rotture. “Emily No!” non è infatti solo pieno di poesia e anarchia, ma anche di comicità e domesticità. Un piccolo gioiello.

 

MILENA COSTANZO / FATTORE K

Emily No!
Liberamente tratto dalla vita e le opere di Emily Dickinson
di Milena Costanzo
con Milena Costanzo, Alessandra De Santis, Rossana Gay e Alessandro Mor

Visto a Milano , Spazio PimOff

20-22 marzo 2016

Intrigo e amore: Sciaccaluga e lo Sturm und Drang

Prove-Intrigo-e-amore1-512x341MARIA DOLORES PESCE | Dopo il fulminante esordio de “I Masnadieri” e “la Congiura del Fiesco a Genova” è il terzo dramma di un giovane Schiller già in fuga dalla gabbia di una vita altrove determinata, ed è, forse anche per questo, il dramma in cui la “Storia” è proiettata, o meglio è vista e narrata attraverso il filtro di una vicenda “privata”, un dramma “borghese” dunque, come recita il sottotitolo e nel senso più pregnante e allusivo che tale termine aveva in quella fine del XVIII secolo in cui fu scritto. Tragedia giovanile dunque e nella sua costruzione drammaturgica talora ridondante e anche verbosa, in una continua tensione sotto lo sforzo di dire ciò che preme ed erutta dalla interiorità dei personaggi, talora anche tendendo a travolgere la stessa struttura narrativa che nell’incoerenza incombente trova però assetti suggestivi e vie di significazione.

In “Intrigo e amore” risultano peraltro amalgamati e mescolati, più che contrapposti nella loro reciproca ostilità, i due principali e costituzionalmente paralleli piani della riflessione del drammaturgo tedesco, padre e si direbbe oggi-cofondatore dello Sturm und Drang, il piano della Storia, con le sue correlate espressioni di classe e sociali in genere, e quello dell’amore e dell’affettività, ivi compreso il “sentimento” religioso, fonti principali queste ultime di ogni riconoscimento di autenticità soggettiva ed esistenziale.

Ma appunto la forza di questa drammaturgia, ed anche la sua suggestiva e significante ambiguità, sta nel fatto che qui i piani si rispecchiano e si proiettano l’uno sull’altro, si confondono l’uno con l’altro ma rimangono paradossalmente ben distinti l’uno dall’altro e così innescano il meccanismo irresolubile del tragico.

Il confronto tra ragione (di stato) e sentimento, appunto tra intrigo e amore, non è più “tra” ma “in”, è introiettato e diventa contraddizione che da una parte muove gli esseri umani ma dall’altra li acceca. Così la capacità di affermare sé stesso, l’amore intendo, è intimamente ostacolata dalla introiezione di valori esterni, così forti da indurre Luisa Miller a rinnegare per prima quel sentimento che contrasta con il potere e la sua, in fondo accettata, organizzazione sociale.

Analogamente la sincera passione di Ferdinand è inesorabilmente minata dalla gelosia, una gelosia insensata non insufflata da uno Iago shakespeariano, ma quasi ereditata, se non geneticamente per educazione indotta.

Marco Sciaccaluga, nella nuova versione prodotta dal teatro Stabile di Genova che ha esordito il 12 aprile e sarà in scena al teatro della Corte fino al 1° Maggio, affronta con acutezza, e anche con una certa dose di coraggio, questo amalgama complesso riconducendolo alle sue linee essenziali ed universali, declinabili anche nei conflitti della contemporaneità, dagli impulsi libertari al conflitto tra padri e figli e anche a quello generazionale nei suoi impatti sociali e talora politici.

Conflitti che in effetti ancora oggi recuperano il desiderio di identità forti che è in fondo il desiderio di una autenticità che si ancori a valori non imposti. Il conflitto tra classi, che in Schiller occhieggia senza mai esplicitamente rappresentarsi e che allora si accendeva, con l’ascesa della borghesia ed il declino di una corrotta nobiltà, in modalità che abbiamo imparato a conoscere ma anche a dimenticare, sembra così ritrovare agganci profondi in una interiorità che nell’amore si rinnova.

In effetti già nell’epoca neo-classica o pre-romantica dello Sturm un Drang, e poi in quella pienamente romantica, la percezione e la rivalutazione del sentimento come moto dello spirito che fonda la singolarità dell’individuo è già una rivendicazione e una speranza di libertà rispetto alle maschere imposte dalla Storia, dal suo spirito e dunque dalla società che si evolve o meglio si involve e liquefa su valori meramente economici (il denaro è il nuovo nome del potere).

Sciaccaluga, a mio parere, si aggancia con la sua regia a questa percezione, animata anche dalla nostalgia per l’uomo “smisurato” che sfugge cioè alla misura imposta dal suo posto nel mondo, e su di essa sviluppa un percorso scenico di sottrazione di ogni spazio storico e storicizzato, evitando con intelligenza ogni naturalismo potenzialmente stonato a favore di un realismo che è nel senso complessivo della sua scrittura scenica.

È un lavoro, il suo, di accurata drammaturgia che si avvale di uno spazio scenico (la buca dell’orchestra di Miller padre) che riconduce all’essenzialità e razionalità di una partitura musicale la struttura della narrazione, che limita al giusto e al dovuto limature e riduzioni del testo, e che si appoggia ad una nuova traduzione (quella di Danilo Macrì) attenta a non forzare la necessaria revisione del linguaggio per mantenere ritmi, cadenze e anche gergalità laddove appaiono necessarie al senso complessivo. Una traduzione conscia della difficoltà conseguente allo scarto tra la romantica enfasi dell’innamorato e il contemporaneo deficit, soprattutto psicologico ma anche cognitivo, di “sentimento”.

È una drammaturgia infine che sa cogliere efficacemente il ruolo di transito ma soprattutto di collegamento che questo testo poteva avere tra il recupero allora in atto del Bardo e il nuovo teatro borghese che si andrà costituendo proprio nella indagine della interiorità e delle sue interferenze con la società.

L’esito, che evita di riproporre il taglio pienamente romantico e naturalmente melò del passaggio della verdiana Luisa Miller, non cede così al recupero meramente filologico e nemmeno all’ansia del ribaltamento, molto di moda, recuperando di Schiller il suo senso condiviso e ancora ampiamente condivisibile e appropriandosene come parte di un discorso estetico dai tratti personali, con sintassi che talora ricordano lo Squarzina genovese.

Ottimo l’énsamble che sa mescolare accentuati toni grotteschi, quasi da commedia dell’arte, ad enfasi romantiche in un alternanza che, a mio avviso, genera quello spazio tra personaggio e recitazione utile per assediarne ed espugnarne il senso più schiettamente scenico. A partire dai due protagonisti (il campo dell’amore) e cioè Simone Toni, Ferdinand, e Alice Arcuri, Luisa Miller, e dai loro spietati avversari Tommaso Ragno (Von Walter) e Andrea Nicolini (Wurm/Verme, il suo segretario) tra l’altro compositore ed esecutore in scena delle musiche originali. E poi Roberto Alinghieri, Mariangeles Torres, Enrico Campanati, Orietta Notari, Daniela Duchi, Nicolò Giacalone e Marco Avogadro.

I costumi sono ideati dalla brava Catherine Rankl mentre le luci sono curate da Marco D’Andrea, per un evento preceduto, come da recente e apprezzabile tradizione, da un breve concerto di brani verdiani (la “Luisa Miller” ovviamente) a cura degli allievi del conservatorio Nicolò Paganini.