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venerdì, Aprile 19, 2024
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L’oscurità è una luce accecante, una “DARK VANILLA JUNGLE” di aironi e coccodrilli

 

 

ELISA BISCOTTO | La verità di Andrea (Monica Belardinelli) inizia una mattina d’estate, con una puntura di vespa, un airone, un’Isola che non c’è. Scivola attraverso impressioni visive, immagini che sanno di vaniglia: il cono gelato, il coro scolastico, la mamma che le insegna a cantare. Un presagio cupo pulsa già sotto questi ricordi, spezzando un’energia luminosa che tenta di tornare a brillare nelle idealizzazioni: il primo incontro tra i suoi genitori a un Festival di musica in Cornovaglia. Lui un amante dell’heavy metal, i capelli raccolti in un ciuffo perfetto. Lei una cantante di musica folk. Un colpo di fulmine. “Non è romantico?” si chiede Andrea, che il grande amore lo conosce a quindici anni in un McDonald’s. Si chiama Tyron e ha un dente d’oro. Alla Coca-light si sostituiscono i cocktail e i frutteti di limoni al risveglio si rivelano squallidi appartamenti in cui si consumano stupri di gruppo. Nessun abbraccio intenso a fare da sfondo alla sua vita, ma un universo socio-familiare  dove gli uomini sono predatori sessuali e le donne glaciali antagoniste che conservano ben poco di materno.

Con Dark Vanilla Jungle Carlo Emilio Lerici torna a confrontarsi con un testo di Philip Ridley, dopo Mercury Fur, Vincent River e Moonfleece. Il monologo da lui diretto, riproposto in questi giorni al Teatro dell’Orologio, ha debuttato nel 2014 al Teatro Belli di Roma, nell’ambito della XIII edizione della rassegna Trend – Nuove frontiere della scena britannica. La ripresa vale la pena, perché Ridley è un autore brutale eppure raffinatissimo, una perla nera che sferra colpi allo stomaco mentre disegna paesaggi onirici di straordinaria carica visiva. La sua carriera artistica spazia dalla pittura alla fotografia, dai racconti per l’infanzia alle opere scritte per il teatro – il suo primo testo per la scena, The Pitchfork Disney (1991) apre il decennio cult della nuova drammaturgia britannica, anticipando l’arrivo di Anthony Neilson e Mark Ravenhill. Firma la sceneggiatura di The Krays, film di Peter Medak con gli Spandau Ballet Gary e Martin Kemp. Dirige le pellicole The Reflecting Skin, The Passion of Darkly Noon, Heartless. Scrive romanzi, canzoni, radiodrammi.

La violenza narrata da Ridley – che è cresciuto a Bethnal Green, nell’East End di Londra – è il presente che si illude che il male è una minaccia che aleggia, ma che tutto sommato deve ancora arrivare. Una realtà che filtra attraverso la lente di una cifra stilistica personalissima, dove lo sporco si amalgama con la fiaba. Nella sua mitologia di simboli e feticci, gli elementi pop da pubblicità si incontrano con una schiera interminabile di animali. Sono i coccodrilli e i volatili di The Krays a fare ritorno in questa Dark Vanilla Jungle – tatuati su un braccio, oppure ad aprire e chiudere il cerchio di un racconto fatto di abbandoni e solitudini, di umiliazioni e vergogna.

Lerici maneggia materiale incandescente con una grande dote: sapersi fare invisibile. La sua fiducia è tanto nell’autore che per la quarta volta ha scelto di mettere in scena, quanto nella capacità di Belardinelli di affrontare un one-woman show di una difficoltà estrema – un campo minato di bugie, verità, emozioni contraddittorie, che chiede slittamenti di registro repentini. La rabbia esplode, poi torna a comprimersi in sospensioni e assaggi di lirismo. I flashback prendono forma, sorretti dagli echi sonori di Giuseppe D’Amato. Uno stream of consciousness di parole amate o vomitate, di ricordi falsati o reali, che oscilla tra panoramiche di giornate in riva al fiume e dettagli di una concretezza grossolana: preservativi esplosi sulle pareti, odore di sperma misto a deodorante per ambienti. Infine il delirio febbrile e paranoico.

Lo spettacolo ha una qualità ruvida, un’essenzialità autentica. Macina inquietudine e disagio, non lascia indifferenti. Se Belardinelli inciampa, in un attimo si rialza. Sa come restituire la sensazione di perenne ambiguità che alberga tra le pareti di uno spazio mentale in cui paura e desiderio, piacere e disgusto sono due facce di una stessa medaglia. Recita confinata dentro la costruzione rettangolare disegnata da Alessandro Chiti, luogo neutro  che nel finale diventerà una foresta, uno dei topoi di Ridley, che nella canzone Who Will Love Me Now scrive di come là viva “un mostro che ha fatto cose terribili”; un mostro che con la voce di PJ Harvey canta: “Chi mi ama ora? Chi potrà mai amarmi?”

 

Dark Vanilla Jungle_ph Manuela Giusto (1)

 

DARK VANILLA JUNGLE

di Philip Ridley

con Monica Belardinelli

adattamento e regia Carlo Emilio Lerici

 

scene Alessandro Chiti

disegno suono Giuseppe D’Amato

immagini video Giulia Amato

costumi Valentina Di Geronimo

traduzione Fabiana Formica

aiuto regia Martina Gatto e Pamela Parafioriti

spettacolo realizzato in collaborazione con Trend XIII edizione. Nuove Frontiere della scena britannica, rassegna a cura di Rodolfo di Giammarco

 

Foto Manuela Giusto

Visto al Teatro dell’Orologio, Roma, 28 aprile 2016

 

 

 

Risata, allusione, disincanto: l’Amore secondo Scimone e Sframeli

untitledMARTINA VULLO | A dispetto delle poco lusinghiere notizie che ultimamente ci pervengono dai teatri siciliani (recentissimo l’annuncio del ritardo dei pagamenti di stipendio ai dipendenti del Teatro Biondo, che attenderanno per la propria retribuzione fino a data da destinarsi), un grande fermento creativo continua a caratterizzare la produzione artistica dell’isola, che sembra quasi contraddistinguersi per un particolare modus operandi che accomuna le poetiche dei suoi diversi teatranti: mi riferisco alla vena di ironia e di disincanto che convivevano nel ‘900 in Pirandello e continuano a persistere in realtà del calibro di Emma Dante o dei messinesi Scimone e Sframeli. Questi ultimi in particolare hanno recentemente fatto mostra del proprio percorso artistico, durante una personale bolognese che si è tenuta dall’11 al 16 Aprile, fra il Centro studi universitario La Soffitta e il teatro Arena del Sole.

In programma quattro dei loro spettacoli (due dialettali, due in lingua italiana), l’adattamento cinematografico della storica pièce Nunzio e due giorni di laboratorio rivolti a studenti universitari. Se i veterani avevano già avuto modo di conoscere il lavoro della compagnia, non è mancato anche per questi un momento all’insegna della novità, costituito dal nuovo spettacolo, portato il 13 Aprile sul palco dell’Arena del Sole.

Se le tematiche dichiarate o sottotraccia, che costellano il teatro di Spiro Scimone e Francesco Sframeli sono svariate (si parla di amicizia, famiglia, rapporto genitori-figli, ma anche in modo relativamente più velato di malavita e piaghe sociali), il tema principale del loro ultimo lavoro è deducibile dal titolo: Amore. Un amore, in questo caso, legato al tema della morte, come si evince dalle due lapidi al centro della scena oscura, con pannello sullo sfondo, dal quale emergono alberi stilizzati a rafforzare l’atmosfera cimiteriale dell’ambientazione.

Non ci troviamo di fronte a un teatro di stampo naturalista. È lo stesso uso delle lapidi, ora adibite a punto d’appoggio per due simpatici vecchietti immersi nella quotidianità e che dialogano in modo surreale, ora trasformate in comodi letti – con tanto di lenzuola, cuscini e croci mortuarie laterali a fungere da abatjour – a testimoniarlo. Il dramma in questione si consuma in un contesto sospeso, quasi onirico, simil-beckettiano, che ha per protagonista, insieme agli anziani di cui sopra, un’ulteriore coppia formata da vigile del fuoco e capitano, che per parte dello spettacolo si muovono, l’uno alla guida e l’altro all’interno di un carrello per la spesa, provvisto di sirena lampeggiante, finto volante giocattolo e sportellino ad uso auto.

Osservarli ci farà sorridere, complici i giochi di parole tipici dei dialoghi inventati da Scimone, la musicalità e le inflessioni dialettali marcate negli interpreti (Spiro Scimone, Francesco Sframeli, Gianluca Cesale e Giulia Weber) e ancora i continui squarci di assurdo e comicità provenienti dal basso, che si alternano al senso di noia e di routine tematizzati dalla pièce. Le due coppie non sono legate fra loro da soli richiami terminologici (come quello all’elemento comico e materico del pannolone che la donna cambia continuamente al marito per ingannare il tempo e a cui allude uno dei pompieri, in riferimento a una crema post-ricambio che propone di spalmare al capitano). Tutto si gioca sulla rievocazione di antichi ricordi: la donna cercherà di ricordare al marito dimentico, dei loro baci e gesti in grado di bruciare il mondo. Gesti intensi e mai più replicati di cui hanno memoria i vigli del fuoco, perennemente costretti a interrompere i propri timidi tentativi di approccio, per spegnere gli incendi causati dai due.

Alla mancata intimità della prima coppia incapace di gestire il proprio fuoco, si alterna quella della seconda, mai abbastanza coraggiosa per farsi avanti e interrotta nei suoi timidi tentativi da altre urgenze. Intimità negate fino alla fine della storia, che vede i quattro personaggi rispettivamente nelle proprie tombe/letto, alle prese con un paradossale tentativo di andare fino in fondo, durante il quale mentre si osservano reciprocamente, continuano a dirsi di voler difendere la propria intimità. Dichiarano di volersi «scaldare fino al silenzio», perché come sosterranno i personaggi e come mostrerà l’ultima scena, «sotto le lenzuola non resta che il silenzio».

Uno spettacolo di 45 minuti, che sembra consumarsi nel tempo di un soffio: suggestione che si sposa bene ad una pièce che evidenzia il rapido procedere di una vita insufficiente all’uomo per imparare a fare i conti con i propri sentimenti.

Una piéce aderente a una poetica fedele a se stessa, dove l’elemento surreale, la semplicità apparente e la comicità si fanno taglienti strumenti di uno sguardo disincantato sul mondo. Fondamentale in questo processo il ruolo degli attori di cui il pubblico percepisce l’energia e il divertimento sopra il palco. In fondo, come ha dichiarato nel corso della rassegna Francesco Sframeli, «Fare teatro è come fare l’amore. Bisogna donarsi e solo quando questo accade il teatro si fa ventre di madre».



AMORE 

di Spiro Scimone
regia Francesco Sframeli
con Spiro Scimone, Francesco Sframeli, Gianluca Cesale, Giulia Weber
scena Lino Fiorito [realizzazione scena nino zuccaro]
disegno luci Beatrice Ficalbi
regista assistente Roberto Bonaventura
direttore tecnico Santo Pinizzotto
amministrazione Giovanni Scimone
compagnia Scimone Sframeli
in collaborazione con Théâtre Garonne – Tolosa
spettacolo presentato in collaborazione con Centro La Soffitta-Dipartimento delle Arti, Università di Bologna

Visto il 13 Aprile al Teatro Arena del Sole di Bologna

 

 

 

 

X MEDIA – Di castità e rivoluzione: la parabola di Dogma 95

ALESSIO DEGIORGIS | Ogni autentica rivoluzione possiede, almeno inizialmente, un afflato religioso. Un desiderio di trasformazione che sfugge a definizione, alimentato dallo scontento per ingiustizie sempre ribadite. Martin Lutero, diretto verso il portale della cattedrale di Wittenberg con passo svelto e tesi polemiche sotto il braccio, era animato da sincero raccapriccio per la corruzione del proprio tempo. Tratti di quell’austerità nordica devono essersi conservati presso i principali firmatari di Dogma 95, Lars von Trier e Thomas Vinterberg, impegnati a denunciare le colpe di una Chiesa tanto influente quanto corrotta. Hollywood-Babilonia diventava oggetto delle rimostranze di un rinnovato spirito protestante. Con un decalogo s’invocava lo scisma, fustigandosi con leggi tanto severe da rivelarsi lettera morta per lo stesso legislatore.

È pur vero che al cinema scandinavo è sempre appartenuta una buona dose di autorevolezza pastorale. Ne sono prova l’ascetismo di Dreyer o la sofferta bellezza di molti capolavori di Bergman. Dogma, però, introduceva un elemento di novità. Non tanto prospettando un cinema alternativo rispetto a logiche miliardarie, quanto per la feroce provocazione diretta a un segmento dell’industria culturale e alla società che in esso si specchiava. Le rivoluzioni, tuttavia, raramente si attengono ai propri proclami e i rivoluzionari spesso lasciano biografie controverse. Così come Lutero finì per accordarsi con i principi tedeschi, scendendo a più miti consigli, le rivendicazioni di Dogma hanno perso slancio. Il voto di castità assomiglia, ora, a una stravaganza di gioventù, una cocciutaggine della quale il tempo ha avuto ragione. L’ondata che s’immaginava tsunami è in pieno riflusso, persino presso le coste danesi. Il recente successo internazionale del cinema di Winding Refn (Bronson, Valhalla Rising, Drive), che rielabora la migliore tradizione americana (Scorsese, Kubrick, Lynch) con equilibrio e perizia, racconta anche del naufragio della poetica di von Trier e seguaci.festen

Forse unica eccezione nella produzione di Dogma, “Festen” (Vinterberg, 1998) brilla a distanza di quasi vent’anni. Una metafora poliedrica, che anticipa, per certi versi, quello che sarà il futuro del movimento. Festa di famiglia, segnata da una tensione crescente che manca di poco la sua esacerbazione nel parricidio. Il legame di sangue contempla una somiglianza, per quanto sgradita, e la furia dei figli si arresta, rinunciando a un gesto estremo. Epilogo morale, l’impossibilità di condurre sino al termine premesse radicali, applicabile anche alle parabole dei fondatori di Dogma. Il caso von Trier è noto. Un cinema rannicchiato su se stesso, di compiaciuta polemica. La teorizzazione di un universo freddo, risultato di interazioni atomiche prevedibili, e nessun clinamen capace di modificare le traiettorie del destino. Non c’è dubbio che il regista, diventando Autore, si sia trasformato anche in padre tirannico.

Pretese di genitorialità limitate caratterizzano, invece, il lavoro di Vinterberg. Eppure, la crudezza di “Festen” si è rivista raramente. Dell’ortodossia di Dogma si è conservato il movimento di macchina ondivago e nervoso, sopravvive l’interesse per una narrazione dei conflitti interni a piccoli gruppi umani ma lo sguardo proiettato sulle cose è sostanzialmente diverso. In “Riunione di Famiglia” (2007), il dualismo padre-figlio conosce una prima possibilità di conciliazione, ne “Il sospetto” (2012), la distanza è azzerata, ipotizzando un padre finalmente affettuoso, a dispetto delle dicerie di paese. Infine, con “La comune” (2016), il regista prova a far rivivere la tensione che innervava felicemente il suo primo grande successo. Ma il tentativo non pare del tutto riuscito. Il maggior pregio è l’ennesima metafora, forse involontaria. Così come fallisce l’esperienza comunitaria dei protagonisti, così si è arenata, nello Jutland ma è verosimile che sia accaduto anche altrove, l’utopia di giovani cineasti arrabbiati.

I sogni cupi di Pasolini secondo Tiezzi

Calderón di Federico Tiezzi - foto di Achille Le Pera .02LAURA NOVELLI | Nella sua lunga, eclettica e felice carriera registica Federico Tiezzi ha affrontato Porcile di Pasolini nel ’94 (e ancora ricordo vividamente alcuni passaggi di quel lavoro, visto al teatro Ateneo di Roma), quando cioè la sua riflessione artistica era incentrata per lo più su opere poetiche dalla lingua forte e carnale che fossero incentrate sul rapporto padre/figli. E’ sempre del ’94 infatti lo straordinario successo di quell’Edipus di Giovanni Testori che si aggiudicò – e a ragione – il Premio Ubu come miglior regia e come migliore interpretazione maschile (in scena c’era un meraviglioso  Sandro Lombardi).

Adesso è la volta di Calderón, tragedia pasoliniana anch’essa in versi e anch’essa scritta di getto in quella furia creativa del ’66 che vide lo scrittore friulano redigere ben dodici opere teatrali, sei delle quali compiute (malgrado le successive e caparbie revisioni). Il regista toscano torna dunque alla complessa drammaturgia di Pasolini, scegliendo un testo non facile che, diviso in sedici episodi e uno stasimo e notoriamente ispirato a La vita è sogno di Calderón de la Barca, gli permette di raccontare il crollo della borghesia, degli ideali sessantottini e della famiglia declinando la profetica visione pasoliniana, attraversata qui da una tessitura dialettica degna di Platone, in uno spettacolo elegantemente sospeso tra metafora e concretezza, visione onirica e geometria architettonica, astrazione e Storia. Dunque in un lavoro che, ora in cartellone all’Argentina, vuole essere anche biografia personale, omaggio esplicito, adesione ideologica e stilistica al pensiero dell’autore.

Siamo nella Spagna franchista del ’67 e una donna di nome Rosaura, personaggio del precedente secentesco così come Basilio e Sigismondo, si sveglia per tre volte in tre ambienti sociali diversi – aristocratico, proletario e piccolo borghese – raccontando ogni volta un sogno. A introdurre il tutto la figura di uno Speaker di cui si fa carico Sandro Lombardi, come sempre ineccepibile, impegnato anche nei ruoli del re (metafora del Potere), del padre, del marito, del deus ex-machina e, in definitiva, del tragediografo, che spiega al pubblico come il teatro sia sempre un rito sociale contraddistinto dalla presenza viva degli attori. Dunque la cornice metateatrale – o se vogliamo straniante – in cui si incastona questa grottesca riflessione storico-politica (precorritrice non a caso di Petrolio) è chiara sin da subito. E la materia onirica successiva si dipana come un ulteriore pretesto drammaturgico di forte valenza epica: nel primo sogno la protagonista è figlia di nobili filofascisti, si innamora del “sovversivo” Sigismondo ma poi scopre che questi è il suo vero padre. Nel secondo sogno Rosaura (l’ottima Lucrezia Guidone che divide il ruolo con Camilla Semino Favro e Debora Zuin) è una prostituta che vive nei sobborghi di Barcellona e si invaghisce di un giovane cliente, un rivoluzionario convinto, il quale è in realtà suo figlio. L’ultimo risveglio riconduce Rosaura a quel mondo borghese che probabilmente le è proprio ma che ella rifiuta somatizzando il disagio in una malattia del linguaggio, un’afasia altamente simbolica a causa della quale le parole si confondono compromettendo la coerenza stessa del “dire”. Capiamo così che è questa terza Rosaura ad aver sognato i precedenti sogni e nella sua quarta visione si concentra il momento più significativo del testo, laddove cioè la protagonista immagina di essere in un lager (la condizione borghese stessa) liberato da una folla di operai con in mano una bandiera rossa. Ma il marito Basilio, incarnazione anch’egli del Potere, la disillude acremente. E dietro/dentro questo Basilio non possiamo che avvertire la voce stessa di Pasolini. Dietro/dentro questi incubi, questi innamoramenti incestuosi, ci sono i fallimenti di un’intera generazione.

Dinnanzi ad una materia drammaturgica tanto contorta, Tiezzi (artefice qui di una riscrittura ad hoc insieme con Lombardi e Fabrizio Sinisi) sembra inseguire innanzitutto la strada del nitore visivo e, contestualmente, quella di un’interpretazione attoriale che sia quanto più possibile a-psicologica, tesa essenzialmente ad illustrare le battute, a comunicare idee e considerazioni, a far affiorare il sostrato ideologico del dialogo. Ovvio quindi che, nella bella scenografia di Gregorio Zurla, siano soprattutto i personaggi ad attraversare stili e registri diversi: le figure tragicomiche e lunari del primo quadro, inchiodate in abiti secenteschi, trucco pesante e parrucche bianche quali ovvi riferimenti a Las Meninas di Velàsquez, assumono in seguito caratteri meno carnevaleschi e diventano via via, pur senza rinunciare a lineamenti fortemente grotteschi, delle voci recitanti a servizio del testo. Deve essere così ed è giusto così. E lo aveva già felicemente dimostrato il primo allestimento dell’opera, quella regia ronconiana del ’78 alla quale questo Calderón guarda, anche stilisticamente, con convinta ammirazione. Tuttavia non sempre si riesce a seguire lo spettacolo con la necessaria partecipazione e forse resta da capire se e quanto questo Pasolini così verboso,  concettoso e ripetitivo sappia ancora smuovere i nostri animi e sappia ancora “parlare” – appunto – alla nostra coscienza politica.

Calderón

 

di Pier Paolo Pasolini

regia Federico Tiezzi

drammaturgia Sandro Lombardi Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi

con (in ordine di apparizione): Sandro Lombardi, Camilla Semino Favro,

Arianna Di Stefano, Sabrina Scuccimarra, Graziano Piazza, Silvia Pernarella,

Ivan Alovisio, Lucrezia Guidone, Josafat Vagni, Debora Zuin, Andrea Volpetti

e con la partecipazione straordinaria di Francesca Benedetti

scene Gregorio Zurla

costumi Giovanna Buzzi e Lisa Rufini

luci Gianni Pollini

movimenti coreografici Raffaella Giordano – canto Francesca Della Monica

assistente alla regia Giovanni Scandella

Produzione Teatro di Roma e Fondazione Teatro della Toscana

 

 

 

 

 

 

 

“Kinder [Bambini]” di Lenz Fondazione, la crociata dei figli contro le colpe dei padri

Kinder [Bambini] @ Francesco Pititto
Kinder [Bambini] @ Francesco Pititto

MATTEO BRIGHENTI | L’orrore della Shoah è un concentramento di nomi. Dall’oblio delle lapidi Lenz Fondazione ha richiamato Donato e Cesare Della Pergola, Liliana, Luciano e Roberto Fano, Roberto Bachi: sei bambini ebrei di Parma deportati e uccisi ad Auschwitz dopo essere passati per i campi di prigionia di Monticelli Terme e Fossoli (anche l’Italia ha mani insanguinate). L’impresa compiuta da Kinder [Bambini] è quella di aver fatto incontrare Orfeo ed Euridice nel Coro di Voci Bianche ‘Ars Canto’: l’infanzia perduta nell’attesa della catastrofe ha cantato da sé la sua ricerca di salvezza, nell’assoluto asettico e matematico della mostruosità i piccoli hanno fatto luce delle tenebre che li avvolgevano per restare bambini e scoprire una pausa di gioia laddove era programmato solo uno svolgimento di brutalità.
“I bambini – ha detto lo storico torinese Bruno Maida durante la conversazione prima della prima del 25 aprile – giocavano ad Auschwitz, era un modo per dare un senso al mondo, per trovare un rapporto con la realtà”. Per Francesco Pititto, autore del testo originale e dell’imagoturgia, e Maria Federica Maestri, che ha curato installazione, elementi plastici e regia, quel “gioco” è il teatro, drammaturgia, luci, spazio che hanno consentito alla memoria di essere presente e vibrante, perché i bambini qui oggi (dai 6 ai 12 anni) sono stati quelli di ieri, restando semplicemente e naturalmente loro stessi. Non hanno storia né biografia, i bambini sono bambini. Sempre e ovunque. Kinder [Bambini] è un progetto di ricerca drammaturgica realizzato con la consulenza scientifica dell’ISREC di Parma, l’Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea, una collaborazione iniziata nel ’91 con Bruno Longhi e che ora diventa permanente sui temi della Resistenza e dell’Olocausto: sono già in calendario gli spettacoli Aktion T4 [Azione T4] sul programma nazista di eutanasia dei minori nati con malformazioni o portatori di handicap (2017), e Rosa winkle [Triangolo rosa] sullo sterminio degli omosessuali (2018).
Valentina Barbarini, già ne Il Furioso e in Verdi Re Lear, è l’unica attrice in scena. Risveglia i piccoli dal riposo eterno di innocenti bare bianche disposte una di seguito all’altra. Ai sei si aggiungono i non parmensi Salomon Papo, proveniente da Sarajevo, rifugiatosi nel modenese e poi deportato ad Auschwitz e lì ucciso, Rena Papo, nata a Sarajevo, salva grazie all’aiuto degli abitanti della frazione di Gramignazzo di Sissa in provincia di Parma, e Teresa, colei che incarna l’impossibilità di tornare alla normalità dopo le ferite del lager sul corpo e, soprattutto, nella mente.
Kinder [Bambini] sta nella profondità, non sulla canonica direttrice Nord-Sud, bensì Est-Ovest: platea e scena corrono parallele sul lato lungo della Sala Majakovskij di Lenz Teatro. La visione risulta così schiacciata e la claustrofobia è accentuata dal fatto che tutto avviene dietro una pellicola trasparente che non permette una perfetta messa a fuoco. È la materializzazione del passato che, comunque, ci separa da quegli eventi e finisce per distorcerli, per cui il nostro non può essere che il tempo dell’interpretazione. Ci sono tre microfoni, uno a sinistra delle bare, uno a destra vicino a una sedia, e un altro sotto a uno dei sei letti a castello alle spalle delle bare, che completano questa scenografia fatta di niente. Non viene ricostruito il campo di concentramento, ne viene abitato il terrore con gli occhi dell’innocenza.
La luce cade glaciale e di taglio sui bambini e le cose, dagli altoparlanti scorrono i nomi dei campi, si respira odore di polvere misto a carne bruciata. Valentina Barbarini è Giorgina Padova in Fano, madre dei fratelli Fano, madre di tutti i figli, le madri, i padri, e legge le sue lettere al “Signor Questore della Provincia di Parma” sotto al letto a castello, cerca di muovere a pietà il boia, senza riuscirci.
Dall’alto dei loro letti i bambini si parlano con un microfono, una volta avvicinato a uno, una volta a un altro, perché ogni parola risuona e passa comunque attraverso il vaglio del campo di concentramento. Dialoghi immaginari, chi sei?, da dove vieni?, con chi sei?, conosci qualcuno?, perché sei qui?, si alternano, con piccole variazioni, alle lettere della signora Fano, in una partitura minimale di ripetizioni con scarti minimi, a tracciare ore qualsiasi di giorni qualsiasi, tanto non fa differenza, la loro è una fine segnata dal principio.
Questo parlato in musica si fa canto quando intonano un Lied di Mozart/Overbeck Komm lieber Mai che parla di un Maggio imminente, di violette, di giochi nella notte e nella neve, di un libero paese amato. “Lodevole” nella materia Canto è scritto in una pagella di Luciano Fano, documento storico fornito dal direttore dell’ISREC Marco Minardi e che ha dato il La alla ricerca di un coro di voci bianche/interpreti: la purezza nella fragilità di chi non è ancora nato del tutto alla vita.

Tereska Draws Her Home @ David Seymour
Tereska draws her home @ David Seymour

Dopo essersi conosciuti, i bambini giocano a rincorrersi, si scontrano e urlano, sembrano divertirsi, anche se sempre con un certo distacco, si portano dentro la ferita dell’allontanamento dai genitori, nei loro castelli distanti da terra. Poi camminano sulle tombe, le loro tombe, dicendo poesie anonime di bambini ebrei sulla bellezza della vita e di vivere. Sulla parete di destra, intanto, si stagliano le ombre dei giacigli, sembrano tanto i profili delle baracche quanto i corpi ridotti pelle e ossa dalla prigionia o i fili ramificati del treno, ciò che poi diventano una volta messi tutti in fila sul fondo, in un binario di luce blu cianotico. Un urto assordante, poi come uno sciame di api impazzite prima dell’Apocalisse. Ultima fermata: morte.
Su quella parete laggiù Tereska, diminutivo di Teresa, traccia con il gessetto cerchi concentrici e collassanti. Quell’immagine è il calco di una fotografia di David Seymour scattata nel 1948 in una residenza per bambini “disturbati” a Varsavia, e divenuta nucleo fondamentale della scrittura e della drammaturgia in azione di Kinder [Bambini]. Le avevano chiesto di disegnare alla lavagna la sua casa e ne è venuto fuori un caos o, forse, il ricordo opprimente del filo spinato. Dopo aver attraversato con meravigliosa naturalezza una versione ritradotta di Tenebrae di Paul Celan, Martina Gismondi la fa rivivere smarrendosi nella proiezione al suolo del dettaglio gigantesco e in movimento dei cerchi nella foto. Il buio insegue la luce, e viceversa: un universo del dolore in continua espansione, una sequenza di forza inaudita, perché riesce a unire con poetica evidenza il prima al dopo Auschwitz.
Quel punto di sutura è un coagulo di figure, indistinto e acquoso, sfumato. Siamo noi, riflessi nella pellicola trasparente quando si riaccende la sala. Donato e Cesare Della Pergola, Liliana, Luciano e Roberto Fano, Roberto Bachi, Salomon Papo, Rena Papo, Teresa, si sono mostrati con il volto dei nostri figli, mentre noi ci siamo resi irriconoscibili come padri. Kinder [Bambini] ci ha messo di fronte alla paura e al disgusto di averli uccisi noi e di continuare a farlo, anche solo permettendo che accada: il silenzio è il campo di sterminio che ancora non è stato liberato. Da là cantano i Kinder.


KINDER [ Bambini ]

Testo e imagoturgia Francesco Pititto
Installazione, elementi plastici e regia Maria Federica Maestri
Musica Andrea Azzali
Direzione musicale voci bianche Ars Canto – Maestro Gabriella Corsaro
Consulenza storica Marco Minardi
Performer Valentina Barbarini con Pietro Anelli, Samuele Bellingeri, Matteo Castellazzi, Marcello Costa, Martina Gismondi, Agata Pelosi, Alessandro Poli, Cloe Teodori, Anna Giada Vaccaro e Marco Cavellini
Luci Alice Scartapacchio
Cura Elena Sorbi
Organizzazione Ilaria Stocchi
Comunicazione Valeria Borelli
Ufficio Stampa Michele Pascarella
Produzione Lenz Fondazione in collaborazione con ISREC
Visto lunedì 25 aprile a Lenz Teatro, Parma.

Brecht secondo Michieletto: l’Opera da tre soldi in gabbia

ELENA SCOLARI | In un’aula bunker che ricorda il maxiprocesso antimafia di Palermo del 1986 si muovono i malavitosi di Brecht secondo la visione giudiziaria di Damiano Michieletto. Questa è l’imponente idea registica della magnificente produzione del Piccolo Teatro di Milano, istituzione teatrale che ospitò la celebre versione de L’Opera da tre soldi per la regia di Strehler nel 1956, presente Bertolt Brecht in platea, alla prima. Impossibile dunque che il pensiero non vada a quell’allestimento storico, ma i confronti – ingombranti – non sono sempre un giusto modo di guardare alle nuove realizzazioni di un classico, sgomberiamo quindi il campo, anzi, il tribunale dai paralleli col passato.
Anche per svincolarsi da questo rischio, Michieletto, conosciuto per le sue regie di opere liriche, decide per un’attualizzazione dell’Opera, lo fa con la scelta dei costumi e degli arredi di scena e con l’ambientazione “legal” della vicenda, che talvolta ricorda anche le riprese di Un giorno in pretura: alcuni personaggi recitano come al banco degli imputati, rendendo la loro parte una deposizione, la tribuna dei giurati è mobile e si sposta sulla scena così come lo scranno del giudice, ruolo ricoperto di volta in volta da diversi personaggi (ognuno di noi è giudice e giudicato…)

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Il punto di più evidente denuncia legata all’oggi è la scena in cui i mendicanti (ricordiamo che l’origine dell’Opera da tre soldi è la Beggar’s opera di John Gay, 1685-1732) che anelano ai ricchi pasti come moderni fiammiferai sono i migranti naufraghi con i loro giubbetti salvagente arancioni, oggetti superstiti che si elevano sopra i corpi morti. L’intenzione è lodevole ma il risultato è piuttosto retorico, e prevedibile.

Per il resto lo spettacolo procede per tre ore senza altri particolari guizzi inventivi, sentiamo la mancanza del tocco graffiante di Brecht, della spietata e ironica dialettica – per quanto schematica – che dà vita e acutezza al lavoro del drammaturgo, nella regia di Michieletto non c’è la sensazione della lotta, né di classe né di idee. La messinscena è curata, precisa e fedele nella lettera ma scolastica.
Nel programma di sala leggiamo che il regista ha volutamente scelto, come richiesto da Weill, attori che cantassero e non cantanti che recitassero, trattandosi però di un’opera musicale non sappiamo se ha fatto bene le sue scelte perché in tutti (tre le eccezioni di cui diremo tra poco) si avverte un certo disagio, una mancanza di disinvoltura nel canto che rende poco fluida l’interpretazione. Perfino Peppe Servillo non è suo agio, è un Peachum stranamente ordinario, Polly (Maria Roveran) ha una voce fresca ma esile esile, Marco Foschi è chiaramente un bravo attore ma non è abbastanza credibile nel ruolo del malfamato Mackie Messer, troppo pulito per ammaliare.
Svetta senza rivali la Jenny delle Spelonche di Rossy de Palma, la picassiana attrice dei film di Almodovar, thumb_571755253f3092c4198b463e_default_xxlargeche riempie la scena con un magnetismo carnale impareggiabile. Anche Margherita di Rauso (Celia Peachum) si distingue per carattere e un certo carisma. Sprecato è Giandomenico Cupaiolo, voce piena e presenza decisa, che però compare raramente nel ruolo di cantastorie, dagli abiti potrebbe essere Brecht che gironzola per controllare le genti della sua opera. Le musiche sono suonate dal vivo dall’Orchestra Verdi di Milano diretta da Giuseppe Grazioli, la partitura è quella originale di Kurt Weill, senza archi – tranne il contrabbasso – ma con tutti i fiati, il risultato fa sentire gli echi sincopati del jazz anni ’20, bello sarebbe stato vedere altrettanto ritmo e spezzettamento narrativo in scena, invece è più pulsante il golfo mistico che non il palcoscenico.

L’impressione complessiva è che questa Opera da tre soldi sia un compito ben svolto, un po’ noioso, dove è indubbio l’impegno di tutti (scenografi, costumisti, disegnatori di luci e coreografa compresi, tutti professionisti di alto livello) ma che ha perso di vista, in generale, la vena sferzante di Brecht, che diceva cose molto pesanti su capitalismo, banche e andazzi criminosi ma vestendole da operetta, proprio per creare lo straniamento attraverso il quale il pensiero si liberava. Brecht non voleva emozionare, tutt’altro, voleva spiazzare perché si fosse indotti a riflettere proprio dal modo inatteso di fare del teatro uno strumento di critica sociale.
Nella prima parte dello spettacolo Peachum assolda i mendicanti per il suo cinico racket dell’elemosina e dà loro un costume e una biografia fasulla costruita come un copione con le battute giuste per impietosire la gente. Questo è freddo analizzare il mondo. L’immagine, invece, dei migranti annegati è drammatica ma priva di distacco.

Quest’Opera da tre soldi ci sembra rimanere ingabbiata, ma siamo sicuri che Jenny nasconda una lima, nelle autoreggenti.

 

L’opera da tre soldi
di Bertolt Brecht
regia Damiano Michieletto
musiche Kurt Weill
direttore d’orchestra Giuseppe Grazioli
traduzione Roberto Menin
traduzione delle canzoni Damiano Michieletto
scene Paolo Fantin, costumi Carla Teti
luci Alessandro Carletti, movimenti coreografici Chiara Vecchi
personaggi e interpreti vedi Piccolo Teatro Opera da tre soldi
con l’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi
in scena al Piccolo Teatro Strehler fino all’11 giugno 2016

Teatri Stabili siciliani tra cadute e rinascite: l’intervista a Roberto Alajmo, Stabile di Palermo

FILIPPA ILARDO | Teatri Stabili da salvare: la cronaca delle ultime ore non lascia dubbi sulla crisi sistemica che attraversa il teatro pubblico in Sicilia.

Emblematico il caso-Catania: debiti per sette milioni di euro o giù di lì, poltrone platealmente pignorate a scenario aperto, attività sospesa a tempo indeterminato, occupazione permanente da parte di dipendenti senza stipendio da cinque mesi, Durc negativo che non consente l’incasso di somme dagli Enti pubblici. Insomma un cane che si morde la coda. E mentre si aspetta l’assunzione delle responsabilità da parte di qualcuno, che sia l’ex direttore o il cda, un dato va valutato prima degli altri: ad un crollo finanziario è corrisposto una caduta progettuale, uno stallo artistico che ha portato al minimo storico degli abbonati. Mettiamola così, il tentativo di pignoramento delle poltrone non è che il più pirandelliano dei coupé de theatre che mette in scena il paradosso di quanto il Teatro catanese stesse già attraversando.

Situazione diversa a Palermo, dove la crisi finanziaria pur essendo grave, è ancora sotto controllo. Eppure un dato emerge nella sua entità: a dispetto dei continui tagli (a volta in corso d’opera) e le riduzioni dei contributi da parte degli Enti pubblici (Comune, Provincia, Regione), la direzione artistica di Roberto Alajmo, in carica dal Novembre 2013, si può leggere come una rinascita del Teatro pubblico a Palermo. I numeri parlano con chiarezza: si è passati da 1.450 abbonati, a circa 5.000 abbonati, facendo elevare il budget della percentuale proveniente da botteghino dal 3 al 10 per cento, mentre il tasso di riempimento per ogni spettacolo è del 93 per cento, il più alto di Italia. Eppure la situazione economica, pur non essendo al collasso, comincia a scricchiolare.
alajmo_teatro_biondo_N.jpgÈ per questo che sentiamo l’esigenza di una riflessione a lungo campo con Alajmo, non attanagliata dal dato di cronaca, ma in grado di offrire una possibile chiave di lettura del problema. Partiamo proprio da ciò che ha caratterizzato il progetto artistico di Alajmo: la capacità di creare connessioni con un territorio quale quello palermitano che, dal punto di vista teatrale, ha un fermento singolare, un pullulare di gruppi e compagnie che sperimentano con coraggio e coerenza, una propria poetica, una autorialità forte, un proprio linguaggio.

In questi anni il Teatro Biondo di Palermo è diventato la “casa” di artisti, attori, drammaturghi, registi, assorbendo e rilasciando energie e prospettive, mettendo in moto progettualità e non solo programmi.

Anche se storicamente seconda rispetto a Catania, Palermo è, negli ultimi anni, protagonista di una vivacità teatrale diffusa che fa registrare un numero molto alto di autori e compagnie conosciuti anche fuori dalla nostra isola. È stata una priorità dare “cittadinanza” ad autori come Emma Dante, Franco Scaldati, Mimmo Cuticchio, Lina Prosa, Roberto Andò, Davide Enia, Franco Maresco, Vincenzo Pirrotta, Claudio Collovà, Giuseppe Cutino, fino ad arrivare ai più giovani, Scarpinato, Provinzano, Civilleri-Lo Sicco.

Proprio perché da un punto di vista biografico non strettamente legato al mondo del teatro, il mio ruolo è stato quello di arbiter, con un punto di vista distaccato, super partes e senza partigianeria preconcetta. Questo ha consentito di avere autorevolezza, poter fare delle scelte libere e, spesso, anticonvenzionali, senza mai perdere di vista il pubblico.

 Il pubblico ha sempre risposto positivamente. Come è cambiato negli ultimi anni il pubblico dello Stabile di Palermo?

Attraverso le scelte fatte, abbiamo scompaginato quelle caselle che dividono il teatro in settori: cabaret, avanguardia, prosa…

Il pubblico dei Teatri Stabili del passato era legato ad una condizione ricattatoria che vedeva nel teatro una forma di espiazione, un tipo di borghesia residuale che non esiste più, o che, nella deriva berlusconiana, ha ormai dissolto la vergogna dell’ignoranza.

Era necessario creare un nuovo pubblico del Biondo, un pubblico più giovane e ricettivo, e lo si è fatto cercando di alzare ogni anno l’asticella, evitando quell’avanguardia eccessiva che sarebbe rimasta incompresa, ma senza avere un’idea museale del repertorio. Ho immaginato la programmazione come il centro storico di Parigi: un centro storico che non è considerato intoccabile, ma continua piuttosto a rinnovarsi senza perdere la propria identità. Il risultato è che il pubblico oggi reagisce meglio alle proposte meno convenzionali, come Ricci e Forte, e con meno entusiasmo al teatro di tradizione.

Ritieni che la macchina amministrativa e gestionale degli Stabili sia sovradimensionata rispetto alle effettive necessità?

I teatri oggi soffrono di un sistema di regole elefantiache, come quelle sulla sicurezza, con un enorme dispendio di denaro ed energie. Il numero di dipendenti non è eccessivo, quanto piuttosto mal distribuito, mancano ruoli fondamentali cui bisogna continuamente fare fronte.

La crisi odierna degli Stabili ha radici lontane: nessuno dei due teatri siciliani è rientrato nei parametri per essere dichiarato Teatro Nazionale. Cosa non ha funzionato?

L’offerta artistica del Teatro Biondo presentata alla Commissione era molto forte, poco credibile è stato ritenuto il piano finanziario dei soci, non c’è stata insomma chiarezza della copertura. Ancora una volta, la responsabilità è di una politica assente e che elude tutti i problemi. So per certo che la proposta artistica del Biondo presentata alla commissione è stata giudicata molto positivamente. Evidentemente deve essere sembrato inadeguato il contesto economico e geopolitico. Abbiamo accettato la decisione della commissione nella consapevolezza che promuovere lo Stabile di Palermo a scapito di quello catanese sarebbe stato problematico. Fra un anno e mezzo speriamo di essere in condizione di riprovarci in condizioni contestuali migliori.

Credi sia necessario un ripensamento gestionale e territoriale degli Stabili? Ritieni sia praticabile in Sicilia quello che è avvenuto in altre regioni, cioè la fusione di più Enti? Esiste un tentativo di dialogo con altri teatri, Catania e Messina?

Il teatro italiano soffre della logica degli scambi. Soprattutto se il direttore è un regista, tende ad imporre le proprie regie come scambio. È un modo di intendere ciascun teatro come una satrapia. Difatti è successo in passato che registi molto ossequiati, non appena hanno dismesso la carica di direttori, sono stati completamente dimenticati dal sistema. Non per nulla l’intesa migliore l’abbiamo con teatri come Roma, Torino, Milano, Firenze o l’Emilia, dove il direttore non è anche regista.

Andrebbero individuate nuove forme di collaborazione che mirino alla valorizzazione delle eccellenze, di quelle realtà teatrali, di quegli artisti, che meritano di trovare spazio nei teatri pubblici. Mi riferisco alla Compagnia Scimone-Sframeli di Messina, per citarne solo alcuni, o a quella di Zappalà di Catania. Individuare quelle personalità artistiche e autoriali la cui fama ha già varcato lo Stretto e da cui si potrebbe partire per una nuova forma di condivisione. 

 

Tra cenci e dolci la Mater testoriana di Arianna Scommegna

GIULIA MURONI | «Un sì per poter in su la terra vivare / dillo ai qui stanti spettatori / fede che abbiano / oppure invece no». Gli attimi prima della morte possono essere gonfi di senso, soprattutto quando ci si affida a un ipotetico aldilà, come nel caso di Giovanni Testori il quale, in fin di vita in ospedale, ha composto i “Tre Lai”, tre lamenti funebri. Dal finire della frase tuttavia si ravvisa l’apertura nei confronti di possibilità altre.

I “Tre Lai” sono monologhi che danno centralità e parola a tre figure femminili: Cleopatra, Erodiade e la Madonna. Dopo “Cleopatras” Arianna Scommegna porta in scena, attraverso la regia di Gigi dall’Aglio, “Mater Strangosciàs”, visto presso la rassegna Schegge, al Cubo Teatro di Torino.

Una Madonna umile, velata, contadina assume finalmente la parola e narra a partire da sé, in quanto madre, la parabola di Cristo. Possiede la parlata di chi non è avvezzo a esprimere ciò che prova, a dare parole ai sentimenti e rintraccia perciò i propri riferimenti semantici nella concretezza di un immaginario contadino. L’atteggiamento infatti rivela commossa rassegnazione ma non indugia in commiserazione o elucubrazioni di sorta. Scalzata dai piedi della croce dove la voleva Testori, viene inquadrata in un modesto spazio domestico, intenta a compiere lavori manuali e raccontare. Illuminate da un cerchio di luce, sul palco è con  Giulia Bertasi la quale con la sua fisarmonica fa da contraltare al racconto. Pochi oggetti: uno sgabello, un piccolo forno a gas, una tavola e la sedia alata sulla quale poggia la musicista.

ScommegnaDove il “saper fare” prende il posto della conoscenza, è il corpo ad essere soggetto narrante e attraverso una sapienza artigianale la Mater forgia la materia: dall’impasto il dolce, dal tessuto la cucitura. Il cencio da cucina diventa una Sindone con cui la madre colloquia amorevolmente con il figlio perduto. La storia è toccante: si tratta di sfidare lo sgomento della morte di un figlio, il sacrificio di Cristo, scandalo per eccellenza. Navigando lontani dalle prospettive di trascendenza a cui solitamente la vicenda mariana è ancorata, qui si osserva un ritratto del femminile, declinato nella preziosa attitudine all’immanenza, immerso in un universo schiettamente materiale. Il gioco con Giulia Bertasi e le sue incursioni sonore funziona bene e propone una forma altra di dialogo, una sorellanza complice.

La regia fa interventi discreti, puntuali e di senso e, mantenendo il testo nella sua integrità, leviga la rappresentazione sulle affettuose tonalità materne, senza mai inciampare nel patetismo. La lingua testoriana stratificata, impreziosita di tanti prestiti da altri idiomi e dialetti, nel corpo e nella voce di Arianna Scommegna si mostra giocosa e dolorosa insieme, ironica e grave. L’attrice – premio Ubu 2014 – padroneggia con garbo il rimbalzo tra registri e gradazioni differenti, riflettendo sul corpo quella padronanza di gesti propria di chi conosce prima di tutto con le mani e dando vita a una interpretazione notevolissima. Lo spettacolo, riuscito, concentra nell’essenzialità e nel tocco lieve la propria ragion d’essere.

Monologhi, la solitudine dei numeri UNO. Intervista sulla fine di un festival

Il signor Peri @ Maurizio Rufino
Il signor Peri @ Maurizio Rufino

MATTEO BRIGHENTI | I vincitori debuttano, i festival che li hanno premiati scompaiono. La prima del miglior monologo 2015 di UNO, Il signor Peri di Chiara Guarducci, con Sonia Coppoli, data venerdì 29 aprile 2016 al Teatro del Romito, Firenze, mentre il concorso nazionale per monologhi, dopo cinque edizioni, quest’anno non si terrà e probabilmente nemmeno il prossimo. UNO è nato nel 2011 da un’idea di Silvia Rizzo di Contaminazioni Teatrali a cui si sono uniti fin dall’inizio Lea Landucci ed Andrea Mitri oltre al critico teatrale Tommaso Chimenti, che su Facebook scrive: “Era una bella occasione dove energie e pubblico si univano e si confrontavano con leggerezza, allegria e bravura. In giuria giornalisti e i più importanti operatori e direttori teatrali toscani. Ma non è bastato. Molti gli attori che si sono esibiti. A me manca”. Al miglior monologo un premio in denaro e la possibilità di una replica al Romito, al miglior testo e ai migliori interpreti libri offerti dalla casa editrice Titivillus: per cinque anni il festival ha dato spazio a giovani che hanno difficoltà solo a farsi vedere e ascoltare, poi a quelle difficoltà si è dovuto piegare lo stesso UNO, come ci hanno raccontato la direttrice artistica Silvia Rizzo e gli organizzatori Lea Landucci e Andrea Mitri.

Perché quest’anno UNO non è stato fatto?
Silvia Rizzo: “Per molte ragioni. E credo che ognuno di noi tre, e anche Tommaso Chimenti, darebbe risposte diverse. Credo che in parte sia perché chi lo organizzava e seguiva è andato in direzioni diverse. Perché il tempo che richiedeva era veramente tanto e dato che siamo tutti professionisti e che viviamo di questo, alla fine volente o nolente ognuno ha fatto le sue scelte. Perché economicamente è diventato sempre più insostenibile e la speranza di avere dei ritorni e sostegni esterni è andata a scemare. Perché era diventato faticoso portare gente a teatro e alla fine erano spesso sempre i nostri associati e allievi ad essere presenti e ci dispiaceva per chi partecipava nella speranza di una visibilità che poi non veniva e quindi un po’ stanchi e un po’ distratti, un po’ scoraggiati … abbiamo mollato”.

Su quali basi si può dire che verrà fatto l’anno prossimo?
S. R.: “Non ci sono basi certe per dire che ci sarà nuovamente. Di certo a me è rimasto il piacere e l’amore del progetto iniziale, quel fuoco che anima ogni idea prima che prenda forma e diventi realtà. È bello vedere diventare manifesto un progetto … e questo con tutte le difficoltà … rimane il fuoco che fa cercare altre soluzioni. Una possibilità è portare a Firenze solo la finale del concorso e fare le serate di selezione in altre città, coinvolgendo altre realtà e quindi forse così diventerebbe sostenibile il tutto”.

Perché si è scelto di incentrare il festival sui monologhi?
S. R.: “Prima di tutto perché il monologo è nel mio cuore. Poi perché lo spazio del Romito non è ampio e non può ospitare grandi compagnie, e non solo dal punto di vista numerico, ma anche da un punto di vista economico. In questo modo, facendo un po’ di conti, poteva essere un progetto sostenibile. Un progetto che non voleva chiedere contributi agli attori per la partecipazione, anzi prevedeva un rimborso a chi doveva tornare per la finale, e che non aveva altre entrate se non quelle della biglietteria e che veniva realizzato con il lavoro gratuito di organizzatori e staff. Senza l’aiuto di moltissimi dei nostri associati e allievi che ci hanno aiutato concretamente in sala, sul palco, alle luci, non sarebbe stato possibile realizzarlo. Infine un solo attore sul palco permetteva anche di organizzare meglio i passaggi tra un pezzo e l’altro”.

Come si inseriva nel panorama locale e nazionale?
Andrea Mitri: “Devo dire che, per nostra soddisfazione, di UNO in giro se ne parla abbastanza, e per fortuna molto bene. È conosciuto sia a livello locale che a livello nazionale e questo soprattutto grazie al passaparola, visto che se si eccettua l’attenzione che hanno avuto fin dall’inizio per noi i giornalisti che lavorano sulle testate online, a livello di stampa sia locale che nazionale siamo passati praticamente quasi inosservati. Penso che caratteristica di UNO, oltre a quella di voler dare la possibilità agli artisti di far vedere il loro lavoro, sia stata quella di avere sempre offerto una grande attenzione agli artisti partecipanti (cosa non così scontata negli altri concorsi) e di aver sempre presentato, grazie al lavoro di Tommaso Chimenti, giurie composte da critici qualificati e direttori di teatro cittadini. Poi abbinata al concorso c’era comunque una mini rassegna che ha visto sul palco attori come Leonardo Capuano, Daniela Morozzi e Giandomenico Cupaiuolo, tra gli altri”.

Gianni Spezzano @ Simone Giovacchini
Gianni Spezzano @ Simone Giovacchini

Come sono cambiati nel tempo temi, qualità e provenienze dei monologhi?
Lea Landucci: “Nel primo anno c’è stata una massiccia presenza di autori e attori provenienti dal territorio toscano. Già dalla seconda edizione, la percentuale si è stabilita circa sul 20% toscano e 80% il resto dell’Italia. I temi trattati sono stati influenzati molto dal contesto storico degli ultimi anni: violenza sulle donne, diversità di genere e di credo religioso, mafia, terremoti, disabilità mentali; insieme a temi più leggeri quali la difficoltà di comunicazione, i problemi di coppia, la vita di supereroi. La qualità è senza alcun dubbio cresciuta nei cinque anni di edizione che abbiamo realizzato, anche grazie alla richiesta sempre maggiore di partecipazione”.

Che fine hanno fatto i vincitori?
Andrea Mitri: “Continuano tutti a lavorare nell’ambiente, con le difficoltà di questo periodo, ma anche con delle soddisfazioni, che noi sentiamo anche un po’ nostre. Ti lascio perché ho finito l’ossitocina ad esempio, il monologo costruito da Giulia Pont sulla base di quello vincitore nel 2012, ha fatto diverse date ed è stato lo spettacolo più visto al Torino Fringe Festival nel 2014. L’Italia s’è desta con Dalila Cozzolino, premiato come secondo e come miglior attrice nello stesso anno, ha avuto grande successo anche a New York ed Emily di Laura Fatini, monologo che ha vinto il premio come miglior testo nel 2015 [già all’interno di Grimm’s Anatomy a Orizzonti Festival 2014, ndr], ha debuttato pochi giorni fa in Francia. Sono nate anche delle collaborazioni, perché ad esempio Gianni Spezzano, vincitore nel 2013, ha lavorato insieme alla compagnia della Cozzolino in Ficcasoldi di Rosario Mastrota”.

In generale, l’aumento dei monologhi sui nostri palcoscenici è sintomo di crisi economica o creativa?
A. M.: “Sicuramente sintomo di una crisi economica, che si tocca con mano in giro e che probabilmente l’ultima riforma voluta dal ministro Franceschini finirà per aggravare nei confronti di chi lavora senza finanziamenti. Oramai gli spettacoli viaggiano ad incasso anche in teatri con un certo nome, e quindi giocoforza il numero degli attori sul palco si riduce. Dal punto di vista creativo questo forse contribuisce anche a creare una generazione di autori ed attori che si abituano a lavorare in solitaria, andando un po’ a ledere quel senso di comunità che potrebbe essere la salvezza del teatro in questo periodo”.

Un festival dedicato ai monologhi incentiva questa crisi oppure no perché, ad esempio, seleziona la qualità?
Silvia Rizzo: “La crisi è un dato di fatto e ognuno come può cerca di stare nella società che vive. Il teatro è anche lui in questo movimento e ognuno trova le proprie soluzioni al meglio. E nel nostro meglio abbiamo cercato sempre di salvare la qualità e offrire il massimo per le nostre forze e possibilità in modo onesto e sincero”.

Peso piuma e il gesto anarchico di Michela Lucenti

VALENTINA SORTE | La quinta edizione di Domina Domna – promossa e organizzata a Bergamo dall’associazione “La scatola delle idee”, dall’1 al 10 aprile, ha sfoderato un programma molto esteso e articolato. Rispetto agli anni precedenti il festival ha allargato il proprio raggio d’azione ed è riuscito a dedicare alla creatività e alla cultura al femminile uno sguardo ancora più eclettico. Numerosi sono stati gli appuntamenti tra mostre, concerti, proiezioni, spettacoli, workshop e masterclass.
Per quanto riguarda la proposta teatrale e performativa, i momenti più forti sono stati sicuramente “La semplicità ingannata” di Marta Cuscunà (per chi volesse approfondire, rimandiamo alla riflessione di Giulia Muroni sullo spettacolo e/o all’intervista di Matteo Brighenti all’artista), “Toys#over60” di Silvia Gribaudi e Anna Piratti, con Rosaria Venditelli, e “Peso piuma” di Michela Lucenti.

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Se Silvia Gribaudi in “Toys#over60” ha puntato sulla dimensione pubblica, disseminando Piazza Matteotti di centinaia di bambole, il lavoro della Lucenti si è mosso al contrario in una dimensione più intima, ritagliandosi un perimetro rettangolare di scarpe e di luci sfumate, sul palcoscenico del Teatro San Giorgio. In scena, le figure del musicista Luca Andriolo e della performer ligure formano fin da subito uno strano duo: lui accompagna l’azione scenica e coreutica suonando a pelle ritmi blues e rock. La sua postazione strumentale si compone di fisarmonica, banjo e armonica ed è prevalentemente fissa, all’interno del rettangolo (sul lato lungo, in fondo). Lei riempie il palco con il suo corpo esile ma potente e si appresta all’irriverente (invoc)azione anarchica del titolo.
Si tratta di una battaglia. La liturgia di una battaglia personale. Lo spettacolo prima la invoca e infine la sferra. Alle due estremità della scena, da un microfono ad asta, la Lucenti scandisce la sua preghiera scarna e lapidaria, i suoi appelli al padre e alla madre. Inizia (e si chiude) così il viaggio dell’artista nella propria storia e nella storia di altri, nella propria battaglia e in quella degli altri. Da semplice cornice scenografica, le scarpe diventano il correlativo oggettivo della narrazione.
In questo mosaico di donna nelle storie e nelle guerre altrui, si materializzano – sia nella parola che nel gesto – le figure di due combattenti. Quella di Giovanna d’Arco da una parte e quella di una terrorista dall’altra. La prima è evocata sul campo di battaglia, ad Orléans, all’alba, prima dello scontro con l’esercito nemico oppure in preda a improvvise trances, animata da bagliori e visioni mistiche. Nell’abbandono. La seconda invece è colta nell’attimo dell’esplosione. Nell’euforia della distruzione. Ad anticipare questo momento sono proprio le note di Paradise di Bruce Springsteen, accompagnate dalla viva voce – a tratti spezzata – dei due artisti in scena.

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Michela Lucenti – che qui cura la scrittura fisica e la messa in scena – riesce sempre a creare immagini di forte impatto visivo e sonoro. Aiutandosi con delle registrazioni audio, come nel caso della giovane “eretica”, o ricorrendo a vere e proprie “cascate” di sabbia e piume di sangue, nel caso della deflagrazione. La composizione è tuttavia molto equilibrata perché alterna una drammaturgia succinta e telegrafica (brava Silvia Corsi) a una partitura coreografica generosa ed energica.
Rispetto alle prime versioni piuttosto stringate (lo spettacolo risale infatti al 2010), ora “Peso piuma” è un lavoro più compiuto. Nei suoi 50 minuti, lo spettacolo riesce a portare lo spettatore in questa zona sospesa e allo stesso tempo lucida che anticipa qualsiasi insurrezione.

Peso Piuma

Ideazione messa in scena e interpretazione Michela Lucenti
Musiche eseguite dal vivo Luca Andriolo / Dead cat in a Bag
Testi Silvia Corsi
Luci Stefano Mazzanti
Fonica Maurizio Camilli
Produzione Balletto Civile
Visto il 10 aprile al Teatro San Giorgio, Bergamo