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giovedì, Marzo 28, 2024
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Duramadre: il tempo zero secondo Fibre Parallele

ESTER FORMATO | La scena di “Duramadre” è di un assoluto biancore; nella sala resta sospeso del fumo che pervade l’assito le cui quinte sono completamente coperte da lenzuola bianche. Evidenti, sin da prima dell’inizio, segni che ci proiettano in una coordinata spazio-temporale pari, diremmo, a zero, quale summa di inizio e fine. È una sorta di punto O quello che si vuol rappresentare visivamente e che sta per origine del mondo o ipotetica Apocalisse. Il suono di un vento glaciale accompagna lo schiudersi di sacche di placenta dalle quali fuoriescono tre corpi nudi, pur essi bianchissimi; una nascita, dunque, preannunciata da un prologo di voce fuori campo, una litania di apposizioni e attributi alla “Madre potente e inferma insieme che incarna un mito arcaico, matrona “congelata” in questo livore etereo ed il cui trono è dietro ad una macchina per cucire collocata su un tavolo gigante, posto in posizione angolare rispetto a tutta quanta la scena. 

Nera regina è Licia Lanera il cui urlo echeggia come i tonfi prodotti dai suoi gesti, quando i suoi nati iniziano a riconoscere se stessi rispecchiandosi l’un l’altro, giocando con le palle di gomma che si stagliano sul singolare paesaggio come uova di ere glaciali mentre imparano progressivamente l’articolazione del linguaggio.
La “madre con il ventre stanco e duro”, “di parto e di volere matrigna” occlude ogni ipotesi di un corrispettivo maschile; vedendola così annulla in noi ogni supposizione dell’esistenza di un dio; è invece da quell’alto e grottesco trono – così comune a tutte le progenitrici delle nostre terre, magari fino a qualche decennio fa – che dando “forma all’informe”, cuce brandelli di abiti sulla “libera carne” dei tre figli surrogando una sorta di processo educativo. Una madre dittatore che con un banale fischietto (altro oggetto di grottesca comicità) mette in riga la prole che si trascina, gioca, si scopre entro questo non-luogo nel quale la sproporzione e la presenza stessa degli oggetti ci suggeriscono uno strano ludico processo di riflessione dell’uno con l’altro e consapevolezza che i tre maschi compiono.
Un Eden che è un’anti-Eden, un’Eva che è un’anti-Eva, detentrice della volontà altrui, “sarta, arbitra e carceriera” che sostituisce ai Comandamenti quelli consoni alla propria tempra di soffocante matriarca e che ha bisogno di rendere incompleti i propri figli perché ne sia parte irremovibile. Possessore delle chiavi con le quali tiene rinchiusa un’altra sua creatura, una femmina mai fuggita – come apprendiamo da ella stessa – insieme ad ulteriori figli, vige in quelle vesti e in quella lingua così meridionali, un’essenza fiabesca, come a riallacciarsi a quelle matrigne di cui la letteratura per bambini è costellata. I suoi passi e voce sembrano corrispondere a micromovimenti tellurici – di contro i figli ed in particolare la figlia prigioniera i cui gesti a l’articolazione della parola richiamano schemi dell’assurdo – ponendone in evidenza la presenza ingombrante ma al contempo fragile ed effimera; fragile ché muore della sua stessa volontà di potenza, effimera perché sostanzialmente necessaria la sua fine affinché la prole fuoriesca da quella atavica dimensione.

Un allestimento che, prediligendo l’astrazione ed il concetto nella sua scenografia, pone al centro tutta la preponderanza del corpo e del gesto; per questo, si ha l’impressione che la drammaturgia trascenda da una concezione puramente testuale in favore di elementi visivi, del gesto, interpretazioni protese ancora verso un’enfasi che contrasta con una struttura narrativa chiusa, che nel complesso rischia di apparire distante e probabilmente  semplicistica, una sorta di parabola mitica. È, questo lavoro,  ancora lontano dal respiro testuale più profondo e strutturato delle successive scritture, come “Lo splendore dei supplizi”, dove è possibile leggere una maturità di pensiero e di idee testuali che giovano all’equilibrio dell’esito scenico.

DURAMADRE
di Riccardo Spagnulo
con Mino Decataldo, Danilo Giuva, Licia Lanera, Marialuisa Longo
Simone Scibilia
voce Rossana Marangelli
costume Luigi Spezzacatene – Artelier Casa d’Arte Bari
luci Giuseppe Dentamaro
realizzazione scene Mimmo e Michele Miolli, Modesta Pece
assistenti alla regia Elio Colasanto, Rossana Marangelli
regia e scene Licia Lanera
produzione Fibre Parallele
in coproduzione con il Festival Internazionale Castel dei Mondi di Andria e il Festival Operaestate di Bassano del Grappa
con il contributo della Regione Puglia
con il sostegno di Res Extensa, Ass. Cult. Explorer, Es. Terni Festival, PimOff

Fra lettere e focacce: il grano nutriente del Teatro delle Ariette

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ph. Stefano Vanja

MARTINA VULLO | «Chi di voi scrive ancora delle lettere? Vi ricordate dell’ultima che avete scritto? E se vi obbligassi adesso a elaborarne una, a chi la indirizzereste?»: strane domande da sentirsi rivolgere oggi. Nel tempo della velocità e della “comunicazione”, in cui le parole sono diventate ridondanti e le emozioni scritte sulla carta si sono trasformate in emoticon digitali da adattare alle varie circostanze, è infatti più raro scrivere delle lettere e probabilmente lo è anche fermarsi ad ascoltare. Eppure la sera del 22 Marzo, al teatro delle Moline di Bologna, mentre le Ariette esordivano col primo studio di Tutto quello che so del grano, il tempo sembrava davvero essersi fermato.

La creazione di questo spettacolo ha rappresentato per la compagnia una delle tappe di un progetto di più ampio raggio, che durante la residenza alle Moline, durata dal 2 al 24 Marzo, si è composto di laboratori aperti al pubblico, della proiezione dei videoclip di Stefano Massari su momenti di tournée della compagnia,  di incontri con gli spettatori e di testimonianze di persone amiche. Un progetto articolato su diversi livelli con cui le Ariette hanno voluto fare il punto su di sé.

Come Stefano Pasquini, uno dei tre attori, ha dichiarato parlando dello spettacolo, «per andare avanti bisogna fare i conti con ciò di cui si è fatti». Ecco allora che all’interno di questo teatro, in cui il cibo da sempre rappresenta un elemento essenziale, l’ingrediente del grano – emblema di una memoria legata alla terra – è stato sapientemente mescolato alle forme della lettera, del racconto e del dialogo, per dare vita ad una pièce dal sapore nostalgico e di grande sostanza, con una ricetta ancora in farsi.

Elementi scenografici semplici e di grande valore drammaturgico, come l’antico setaccio che, fra tavoli e oggetti da cucina, emerge su un lato della scena, o come la bacinella bianca con i chicchi di grano all’interno. Accadeva già nel teatro di Eduardo che certi oggetti si facessero portatori di antiche memorie e ancora più forte è la vicinanza a De Filippo se si pensa all’importanza del cibo sulla scena, alla rievocazione della famiglia di “una volta” e soprattutto al forno della cucina in cui sono state infornate delle focacce che, un po’ come il ragù fumante di Sabato Domenica Lunedì, hanno avvolto l’ambiente con la loro genuina fragranza.

Certo il modo di fare teatro della compagnia romagnola è decisamente diverso. L’inizio è “rock”, con musica ad alto volume e corsa sfiancante sul posto di Maurizio Ferraresi e Paola Berselli. I due attori con gli sguardi persi nel vuoto, sembrano automi travolti in uno strano vortice (che sia quello della frenesia dell’oggi?). Stefano Pasquini al centro, col microfono alla mano, si atteggia a speaker e dopo una breve dichiarazione di intendi l’atmosfera si trasforma. Le Ariette, non rappresentano ma si presentano e così fa Stefano leggendo le sue lettere: ognuna con un titolo proiettato alla parete. Mentre le condivide con il pubblico, indossa un grembiule rosso e inizia a lavorare della pasta. Alla fine della prima lettera, scritta alla moglie Paola e in cui parla del prezioso valore delle origini rurali che tanto le invidia, il panetto per la focaccia è già impastato. Alla seconda lettera, che racconta del rapporto con la terra, la pasta viene stesa nelle teglie. Paola gli si alterna con dei monologhi intimi attraverso cui ripercorre la propria biografia. Per ogni fase di vita e aneddoto ricorre a specifici espedienti, come il camminare nello spazio lanciando grano a terra in un gesto di grande forza scenica o l’indossare un cappello, piuttosto che una parrucca o la parte anteriore di un vestito bianco a fiori, attaccato al collo quasi come una collana.

Tuttoquelloche(6)_ph.S.Vaja
ph. Stefano Vanja

Alla dolcezza si mescola l’ironia, così al divertente dialogo al mulino, in cui i due coniugi con cappelli in testa e seduti l’uno di fronte all’altra, ironizzano sulla sana società che combatte i radicali liberi e al grano preferisce cereali più trend, si alterna la quasi sacralità di una bellissima scena in cui Paola, quasi come una santa, seduta e avvolta in un lenzuolo con bandana in testa e luci di natale a forma d’arco dietro, rievoca con infinita dolcezza il ricordo della madre, mentre intinge i propri piedi nel secchio pieno di grano.

Ciò che colpisce in questo studio di pièce è la totale messa in gioco di se stessi da parte degli attori, l’empatia prodotta dall’espressività della Berselli, la sensazione di convivialità data dall’intimità dell’ambiente e dal reale scambio fra i presenti durante il banchetto finale. Resta una riflessione sul teatro quale luogo di sospensione del tempo e strumento di rielaborazione delle esperienze. E poi, se è vero che una focaccia cambia gusto sulla base di chi la prepara, perché chi impasta vi mette dentro un po’ di sé, questa è la conferma del valore dell’esperienza umana che sta dietro al teatro delle Ariette: quella focaccia era buonissima.

TUTTO QUELLO CHE SO DEL GRANO primo studio
di Paola Berselli e Stefano Pasquini
con Paola Berselli, Stefano Pasquini e Maurizio Ferraresi
produzione Teatro delle Ariette
Visto il 22 Marzo presso il Teatro delle Moline di Bologna

“Gianni”, il viaggio senza meta di Caroline Baglioni

Gianni @ Gloria Soverini
Gianni @ Gloria Soverini

MATTEO BRIGHENTI | Camminare apre il passo al mondo. In Gianni Caroline Baglioni cammina suo zio maniaco-depressivo. Da un piede all’atro, da una scarpa col tacco a un mocassino, è un incedere per tentativi che esplora una voce fissata per sempre su tre cassette. Disequilibrio più che armonia, inquietudini e sconfitte quotidiane. Una ricerca dei passi familiari perduti che è inciampo di salute e malattia, amore e vuoto, nutriti di ciò che Gianni ha visto e sentito, tra tanti uomini e poche, pochissime donne. Il lavoro, anche scritto e diretto dalla giovane attrice diplomata al Centro Universitario Teatrale di Perugia, e prodotto da La Società dello Spettacolo, ha vinto il Premio Scenario per Ustica 2015.
Caroline Baglioni, in lungo abito violaceo, sorge dal buio fitto con in braccio un cumulo di scarpe: stringe le strade che lei e suo zio hanno percorso separati e distanti e che ora diventano una comune, il palcoscenico. Tutte hanno una storia da raccontare, seduzioni, intimidazioni, sottomissioni, provocazioni, e rivelano la grammatica di un’appartenenza sociale fatta di asimmetrie, contrasti, divisioni. Quelle scarpe sono un incantesimo per far muovere il fantasma del loro proprietario, suggerendone inevitabilmente l’assenza.
Il mucchio viene lasciato sulla sinistra del palco e diventa, di volta in volta, esercito schierato, rettangolo magico, e infine la Stairway to heaven per il drammatico riscatto di Gianni da una vita che l’ha sedotto e abbandonato (la canzone dei Led Zeppelin è una delle prime che risuonano in scena); a destra c’è la casa in cui Gianni si registra, un ritaglio immaginario, perché il tavolino con sopra il posacenere, la televisione, la finestra, il soggiorno, il corridoio, la camere, sono spazi delimitati per terra con pezzi di scotch di carta bianco, e neanche il registratore c’è, è solo un puntino illuminato di rosso.
Sono “due ambiti scenici che si rivelano anche esistenziali”, com’è scritto nella motivazione del Premio Scenario. Una stanza tutta per sé e una stanza tutta per lui: da una parte Caroline Baglioni si cambia di scarpe e (se lo) racconta, dall’altra rievoca lo zio, ai piedi calza una scarpa da uomo e una da donna, il volto è una luna calante, porta la schiena in avanti, tiene una mano su un fianco come a spingere e insieme frenare il bacino (e il sesso), mentre con l’altra mima una sigaretta che non si esaurisce mai. “La mia vita è un cerchio che non riesco a spezzare” dice Baglioni con voce che imita un impasto di perugino, nicotina, psicofarmaci, e anni che avanzano.

Foto di Gloria Soverini
Foto di Gloria Soverini

La luce mette a fuoco tutta la scena, nulla deve essere tenuto nascosto, e spesso piove di taglio, come un’occhiata o una lacrima di Gianni sul viso di Caroline. Soltanto il primo incontro con l’ospedale è avvolto nell’oscurità e nel pudore. E lo spazio in cui volerà con il Major Tom di David Bowie sarà un occhio di bue blu notte di quelle che la lotta contro la solitudine è stata così forte e dura che la polvere del bancone risplende come polvere di stelle.
Un desiderio, una boccata di sigaretta, una gioia, un’altra boccata, una tristezza, un’altra boccata ancora. Stop. Nuova registrazione. Parlare al registratore per Gianni doveva essere un modo diverso di fumare, e fumare di respirare. ‘Doveva’ perché Caroline Baglioni non spiega il motivo dei nastri, né dicendolo, né agendolo, forse non se l’è domandato o se l’ha fatto le risposte non sono poi entrate nella costruzione di Gianni sulla scena. Il non dire non pare, dunque, una scelta drammaturgica per consegnare la vicenda, ad esempio, alla libera interpretazione o immedesimazione del pubblico, quanto una mancanza, un inciampo, il passo falso di un cammino che non arriva mai a farsi strada, viaggio e quindi meta da raggiungere.
“Colpisce la trasformazione di un materiale biografico intimo e drammatico in un percorso personale di ricerca performativa”. Comincia così la motivazione del Premio Scenario. Gianni è ‘personale’ perché riguarda la persona Caroline Baglioni, la sua biografia, non altrettanto come espressione del suo punto di vista, che è demandato soprattutto alle musiche, e ad alcuni momenti di teatro danza, quando le parole, anche quelle di Gianni, non bastano a dire l’indicibile dello zio. Non ci dice cosa ha provato nel ritrovare le cassette o nell’ascoltarle, non sappiamo come ha vissuto i 10 anni che separano il primo ascolto dallo spettacolo, non ci fa ‘vedere’, soprattutto, la realtà di Gianni per come se la può essere immaginata attraverso i nastri. Amore assurdo di Morgan, Green Eyes dei Coldplay, Voglio una pelle splendida degli Afterhours e poi Enzo Avitabile, Nick Cave, Sergio Caputo, Louis Armstrong, Venditti, Battisti, Renato Zero, i già ricordati Led Zeppelin e Bowie: sono loro che dischiudono alla percezione la complessità e contraddittorietà della vita tra uno stop del registratore e l’altro.
In scena, perciò, la nipote fornisce le date e i dati minimi ad articolare la narrazione, mentre l’attrice indossa una postura e una voce che, alla lunga, risultano una maschera astratta, una caricatura dello zio. Gianni poteva essere il nuovo Ultimo nastro di Krapp, a cui proprio i giurati di Scenario lo paragonano, con in più il doppio salto mortale della verità familiare e dell’ascolto dei nastri non da parte del loro autore, e invece, per parafrasare Vladimiro di Aspettando Godot, Caroline Baglioni si è concentrata sulle scarpe quando il cammino è dei piedi. Quei piedi scalzi, nudi, su cui prende gli applausi, meritati per la forza di un coraggio comunque esemplare.

Gianni
di e con Caroline Baglioni
supervisione alla regia Michelangelo Bellani c.l. Grugher
assistente alla regia Nicol Martini
luci Gianni Staropoli
organizzazione Mariella Nanni
produzione La Società dello Spettacolo
si ringrazia Stefano Romagnoli e Alexandro, Rose, Alfonso, Leonardo, Benedetta, Marisa della famiglia Baglioni per il sostegno e la collaborazione
Visto giovedì 31 marzo al Teatro Cantiere Florida, Firenze, nell’ultimo appuntamento della rassegna “Materia Prima”.

Il realismo magico di Gigio Brunello – la videointervista

0418sn1FOTO3RENZO FRANCABANDERA | Brunello è fra i maestri del teatro di figura italiano quello che forse, nell’ultimo trentennio, si è occupato con maggior intensità di compiere, per questa forma di espressione, lo stesso processo di destrutturazione postdrammatica che è stato compiuto nel teatro di prosa dalla scuola nordeuropea.

Pur legato ancora all’intreccio narrativo di stampo quasi tradizionale (ma anche qui è possibile distinguere fra i suoi lavori con più o meno trama, con più o meno sottotrame, con più o meno frammentazioni e mancate conclusioni) Brunello sicuramente nrgli ultimi anni ha creato alcune caratteristiche peculiari del suo lavoro, dalla forma del burattino ormai consolidatasi nei più recenti lavori, alla sparizione dell’apparato scenico a tutto vantaggio di una semplicità quasi da art brut, anarchica nella forma ma non nella sostanza, che rimane rigorosa e lineare e mira a quello che lui stesso definisce in questa intervista un “realismo magico” assai originale e poco praticato per altri versi nel teatro di figura, non unicamente in Italia.

Questa tensione verso una cifra popolare ma letteraria, per certi versi eduardiana, che guarda a Brecht ma porta in scena Shakespeare e soprattutto l’amore per il fare, per il congegnare, il creare, fanno di Brunello uno dei personaggi di maggior rilievo di questa forma espressiva in Italia e non solo.

Lo abbiamo intervistato di recente al Teatro Verdi di Milano, durante alcune giornate di una “personale” che lo storico teatro meneghino, “vocato” al linguaggio dei muppets, ha dedicato all’artista veneto.

 

CLICCA QUI PER IL VIDEO REPORTAGE

 

Crowdarts, è italiana la prima casa in Rete a sostegno delle arti performative

Serena Telesca, fondatrice di Crowdarts
Serena Telesca, fondatrice di Crowdarts

MATTEO BRIGHENTI | La storia dell’arte è una genealogia di artisti, luoghi, temi e anche di mecenati. I principi del Rinascimento, i papi e i sovrani dell’Età moderna, gli impresari, hanno fatto dell’investimento nella cultura una fonte di bellezza per le proprie comunità (oltre che di potere per se stessi). Ma i nostri sono tempi di crisi economica, il denaro non va più incontro agli artisti, sono gli artisti a dover andare incontro al denaro. Il pubblico è il nuovo mecenate: ad esempio, con la raccolta fondi online, il crowdfunding, si può ricevere poco da tanti, ovunque, invece che tanto da pochi, in un solo luogo. Da pochi giorni è nata a Firenze, forse non a caso, visto che qui è stato inventato il mecenatismo, la prima piattaforma in Europa dedicata esclusivamente alle arti performative. Si chiama Crowdarts. “C’è bisogno di una nuova sfida, di una nuova maniera di operare – afferma la sua fondatrice, Serena Telesca – c’è bisogno di rivedere i modelli ormai obsoleti legati alla produzione e distribuzione di spettacoli in Europa”.
Organizzatrice, attrice, regista, project manager, Serena ha 35 anni e una vita fatta di gavetta, sudore, curiosità e sfide. Originaria di Potenza, frequenta la Facoltà di Scienze diplomatiche e internazionali dell’Università di Bologna e si specializza in Cooperazione allo sviluppo. “Il teatro è una delle azioni cooperative possibili – spiega – ho deciso con cognizione di causa di usarlo professionalmente per toccare temi che non volevo affrontare con la politica il cui linguaggio è molto manipolatorio”. Insieme al fratello Luigi, esperto di e-Business, Distribuited software ed eNegotiations, e con la collaborazione di un’equipe di giovani di livello internazionale, fonda quindi Crowdarts, che viene presto scelta dalla Commissione Europea nel novembre 2015 come startup innovativa nel settore delle tecnologie applicate alla cultura.
La selezione delle campagne di crowdfunding avviene in base al grado d’innovazione del progetto, all’originalità del linguaggio, alla fattibilità, alla trasparenza e al rispetto dei termini di utilizzo della piattaforma, che stabilisce le condizioni giuridicamente vincolanti per avvalersi del sevizio offerto. Si tratta di campagne “reward e donation based”, nel senso che a fronte della donazione il sostenitore può scegliere di ottenere un ringraziamento di tipo simbolico, comunque non finanziario. I finanziamenti sono del tipo “tutto o niente” oppure “prendo tutto”: nel primo caso è fissata una soglia sotto la quale la campagna non viene realizzato e nessun contributo viene incassato dal creatore del progetto; nel secondo caso non viene stabilita alcuna soglia e quindi qualsiasi contributo viene incamerato. L’offerta va da un minimo di 1 a un massimo di mille euro. Il guadagno della piattaforma ammonta al 5% di ciascun versamento per le campagne “tutto o niente” e al 7% per quelle “prendo tutto”: una sorta di incentivo a pensare progetti costruiti per reggersi sul crowdfunding e su Crowdarts, in ogni voce di spesa. La percentuale sale al 9% sulle campagne “tutto o niente” nel “Crowdshow”, la sezione in cui anche i cittadini comuni possono suggerire il finanziamento di un evento o di un’intera programmazione.

Foto @ Crowdarts
Foto @ Crowdarts

Fra i progetti proposti troviamo In garage del Teatro Officina del Pane di Sesto Fiorentino (Firenze), uno spettacolo di teatro d’oggetto, figlio diretto del teatro di figura, dal linguaggio fortemente visivo e sensoriale. Dalla Slovenia arriva Retorika sull’uso e abuso della retorica in politica, nei media e nella società. Frutto di una collaborazione italo-francese è Tu me fais tourner la tête, un lavoro in cui protagoniste sono le opere di Chagall, che prendono vita come fossero il fermo immagine di un sogno. Da Roma Valentina Beotti e Bernardo Casertano propongono Combustione.Umana.Spontanea sul tema del lavoro e i suoi effetti o meno sulla psiche: quanto influenza la definizione del sé? È un’operazione che parla di incontri al limite della solitudine The Love Box, candid camera a bassa risoluzione tra installazione e teatro mobile in cui il pubblico può fermarsi, entrare o passare oltre. RGB Light Fest – Roma Glocal Brightness, infine, è un festival che intende svelare con installazioni luminose e video mapping angoli inediti e nascosti del VI Municipio della Capitale.
“Vogliamo riuscire a creare una scena online di qualità delle arti performative – continua Telesca – vogliamo dare visibilità ai nuovi linguaggi, sempre più interdisciplinari, e portare il teatro laddove non ci si aspetterebbe. Crowdarts si avvale di una mentalità di azione nuova a partire da una chance data dalla crisi, il crowdfunding”. La piattaforma, infatti, ha l’obiettivo di creare uno spazio condiviso, una comunità di artisti, operatori, pubblici. Così, i creatori di campagne hanno l’opportunità di dialogare con una fitta rete di partner, di potenziali interlocutori che possono facilitare o addirittura determinare il successo e la circuitazione dei loro progetti. Si va dai teatri (Argot, Furio Camillo, Cinema Teatro Lux) ai festival (Romaeuropa, Short Theatre) e agli spazi occupati (Angelo Mai), dalle realtà di produzione e promozione (carrozzerie n.o.t., Pav, 369gradi, Il Vivaio del Malcantone), alle compagnie (Atto Due, Fosca, Murmuris) per arrivare fino alle webzine specializzate (Fattiditeatro, Persinsala, Scene contemporanee, Teatro e Critica).
“Una startup in quanto tale cerca soluzioni innovative a vecchi problemi – conclude Serena Telesca – sperimenta la possibilità di nuovi modelli economici”. Se Crowdarts riuscirà a imporsi nonostante la politica degli scambi e la recente riforma del teatro con relative distorsioni in fatto di produzione e tournée (e non solo), riuscendo a portare in Europa un’altra Italia possibile del teatro, lo scopriremo solo donando.

I diversi realismi della nuova scena emiliana, fra Parma e Reggio Emilia, da Aldrovandi a Pepe

RENZO FRANCABANDERA | Ultimi due mesi e a Milano arrivano due produzioni targate Emilia, quell’Emilia che si trova poco dopo il confine con la Lombardia e che per alcuni anni era uscita un po’ dalla geografia della circuitazione teatrale. Sicuramente aveva resistito Teatro Due con quella sua doppia natura di istituzione attenta al linguaggio dell’età giovane e le produzioni, con un’attenzione al classico. Ma da tempo l’istituzione cercava un’intelligenza giovane con cui confrontarsi e a cui affidare forse qualcosa in più della semplice regia estemporanea. Ne è testimonianza la nuova produzione, Fool for love, che debutta in questi giorni a Parma.

Meno strutturate e con meno storia certamente, ma con quella audacia e freschezza da Via Emilia 2.0 le realtà che stanno nascendo intorno al Reggio: dagli esperimenti di teatro e società di Corte Ospitale e Gualtieri, a giovani compagnie come MaMiMò, fino al talento già segnalato in più d’un concorso per drammaturghi di Emanuele Aldrovandi, giovane ma con una capacità immaginifica e di costruzione letteraria non comune.
Sicuramente le storie di Parma e Reggio da questo punto di vista sono lontane e non destinate magari nel breve ad incontrarsi, o chissà. Ma questa prossimità lontana, ha forse anche ragioni di linguaggio e di tradizione, per come appaiono a chi guarda il fenomeno da lontano, che si concentrano anche sul tipo di “realismo” che questi due mondi mettono in scena, sull’esigenza intima e sul tipo di linguaggio. Questioni non banali.
SCUSATE 1Prendiamo ad esempio Scusate se non siamo morti in mare, spettacolo prodotto da Mamimò (andato in scena al sempre attivo e combattente Teatro della Cooperativa), come il precedente e fortunatissimo Omicide House, nato anche quello dalla penna di Aldrovandi. Si tratta di una regia del giovanissimo Pablo Solari interpretato da Luz Beatriz Lattanzi, Marcello Mocchi, Matthieu Pastore, Daniele Pitari. Lo spettacolo è stato finalista al Premio Scenario 2015 e il testo finalista al Premio Tondelli 2015 e presentato in anteprima in lingua catalana al Festival PIIGS 2015 di Barcellona. Il testo, costruito attorno agli attori, finanche alla loro fisicità, racconta la storia di tre emigrati, ma non dall’Africa o dal Medio Oriente all’Europa, ma dall’Europa ormai impoverita verso altri continenti. Effetti della crisi economica, forse. O magari realtà non troppo lontana. Fatto sta che Aldrovandi lascia a Pastore il ruolo del traghettatore di anime, e agli altri tre interpreti la parte dei viaggiatori, scelti ambiguamente con un fisico che può tradirne una provenienza non europea. Ma tant’è: per tutto lo spettacolo il gioco è proprio l’equivoco, il bilico fra miraggio e incubo, in cui alla narrazione realistica dei tre migranti se ne alterna un’altra, asettica e tassonomica del Caronte, che pare dare avulse definizioni tipo Wikipedia, esplodendo come in un pop up insignificanti dettagli della trama principale, come fossero note a piè di pagina in stile Foster Wallace. Ad un certo punto un incidente in mare nel trasbordo e la drammaturgia deflagra, generando una dimensione di relazioni caotiche, il classico mondo in cui senza un governante dittatore, le cose paradossalmente invece che andare meglio prendono la strada dell’assurdo, del tutti contro tutti. Il testo ha caratteristiche di meccanica dei personaggi simile a Omicide House e anche qui il non luogo appare la scelta giusta per la messa in scena. Bene Pastore, in un testo ritagliato praticamente su di lui, e Pitari, che ha quel fare quasi da terrorista infiltrato che di questi tempi suggestiona. La regia sviluppa alcune idee con originalità ma lascia un po’ in bilico la risoluzione del tutto, tanto che persino il finale della drammaturgia, nella versione stampata per i tipi Cue Press, e la versione proposta in scena, paiono divergere, a testimonianza che qualche irrisolto ancora c’è su vari fronti.

Diverso dal realismo magico di Aldrovandi, quello neorealistico che Fulvio Pepe propone a Teatro Due con  Gyula, una piccola storia d’amore (ospitato a Milano al Teatro dell’Elfo). Il drammaturgo-regista formatosi con un percorso d’attore alla Scuola di Recitazione dello Stabile di Genova, fa un doppio salto mortale, debuttando in questa produzione coraggiosa come drammaturgo e regista a teatro. Al cinema invece (dopo un’interessante percorso ibrido fra palco e tv) ricordiamo la vittoria nel 2008 al Torino Film Festival nella sezione cortometraggi con A chi è già morto a chi sta per morire, da lui scritto e diretto.

Da anni in ambiente parmense, Teatro Due ha deciso di dare la possibilità di una prova di maturità che ha consentito all’attore di rovesciare completamente il suo punto di vista, portandosi alla guida di una compagine d’esperienza e qualità, diversi da sempre legati a Parma, con alcuni interessanti inserti, e composta da Ilaria Falini (Gyula), Orietta Notari, Gianluca Gobbi, Enzo Paci, Alberto Astorri, Nanni Tormen, Ivan Zerbinati, Alessia Bellotto, Pietro Bontempo, Laura Cleri, Massimiliano Sbarsi.

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E’ la storia di un ragazzo con alcune disabilità cognitive e motorie, curato con vivace dolcezza dalla mamma Eliza, che vive in una Russia assoluta, una periferia cechoviana, abbandonata dalla possibilità concreta di scambio con il mondo esterno, che infatti avviene per mezzo della radio, con cui la comunità, seguendo l’unico canale disponibile, viene informata sul mondo. Ma sopratutto ascolta la musica classica, unico passatempo per Gyula prima che gli venga offerto un magnanimo posto di lavoro nella vecchia falegnameria. Una comunità di lavoratori esausti che si incontra al bar, dove non si va troppo per il sottile, in una parata di umanità semplice: gli operai e il capo cantiere, il tranviere e il barista, l’ubriacona e il violinista con l’artrite alle mani, sposato con Tania. Ed è il violinista, in un interessante (sia scenicamente che drammaturgicamente) conflitto con il giovane disabile, a costruire di fatto la trama. Prima cercando di soffiare il posto in falegnameria al ragazzo, poi in un finale ricco di pathos, in cui Gyula viene chiamato al quiz radiofonico e come in Million Dollar Baby rovescia il destino suo e della comunità. La prova corale è positiva, ben riuscita, anche nel neorealismo scenico cui si adopera con intelligenza Mario Fontanini, coadiuvato dalle sempre belle luci di Pasquale Mari. E’ un piccolo mondo antico, che vive di poco, in un villaggetto di umanità di confine, un confine che potrebbe essere dovunque, ma è in molte nostre esistenze, in qualche tempo del nostro vissuto. La cosa interessante di questo testo (e per molti versi anche della sua declinazione scenica), infatti, è il suo descrivere personaggi che sono sfaccettature di anima, possibili declinazione dell’indole umana, dall’ingenuità alla frustrazione, dalla generosità alla cattiveria, dall’invidia all’altezzosità, dal cinismo alla bontà.

Finisce bene, e lo si capisce già da qualche battuta prima del finale, con il capo della falegnameria che fa il filo in modo un po’ grasso alla mamma di Gyula, ma un finale drammatico non avrebbe stonato, anzi, quasi l’abbiamo sperato per un po’, in una costruzione possibilmente shakespeariana in cui la notizia della salvezza arriva dopo l’omicidio. Il sottotitolo già fa intuire che qui si voglia far prevalere la speranza. Ed è un finale che in fondo nulla toglie al grosso lavoro di allestimento e anche di interpretazione (bravissima la Falini, ma tutti contribuiscono alla nota di realismo magico della favola).

Una buona prova di Pepe che infatti, come dicevamo all’inizio, ha subito avuto offerto il bis da Teatro Due. Seguiremo per vedere se lo sguardo lucido di questa prima direzione rimane e in che modo va ulteriormente a proporsi.

GYULA
drammaturgia e regia Fulvio Pepe
spazio scenico Mario Fontanini
realizzazione costumi Simone Jael Hofer, Chiara Teggi
con Ilaria Falini, Orietta Notari, Gianluca Gobbi, Enzo Paci, Alberto Astorri, Nanni Tormen, Ivan Zerbinati, Alessia Bellotto, Pietro Bontempo, Laura Cleri, Massimiliano Sbarsi
luci Pasquale Mari
produzione Fondazione Teatro Due

SCUSATE SE NON SIAMO MORTI IN MARE

produzione Ass. Centro Teatrale MaMiMò
in collaborazione con Arte Combustibile
in collaborazione con LaCorte Ospitale – progetto Residenze 2015 /2016
di Emanuele Aldrovandi
con Luz Beatriz LattanziMarcello MocchiMatthieu Pastore e Daniele Pitari
regia Pablo Solari
scene Maddalena Oriani, Davide Signorini
sound Designer Alessandro Levrero
locandine Francesco Lampredi

Testo finalista Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli” 2015
Spettacolo finalista Premio Scenario 2015
Testo presentato in anteprima in lingua catalana al Festival PIIGS 2015 di Barcellona con il titolo Balenes

12369LP – Rap e concertistica letteraria dai Taccuini di Pirandello

EDOARDO BORZI | Ci affrettiamo lentamente, io e il mio amico Marco, lungo via Nomentana in sella al suo destriero metallico, compagno di mille avventure. E’ tardi, come al solito, – 5’ dalla messa in scena. Seppur sbagliando strada, si riesce infine a imboccare contromano via Bosio; dove prima sorgeva il verde perenne e grave, ora cumuli di mattoni e cemento soffocano il fruscio del vento. Il buontempone che mi porto appresso indossa una felpa verde fluo col cappuccio, dettaglio insignificante ai più, forse inadeguato per un evento quasi istituzionale come quello organizzato dall’Istituto di Studi Pirandelliani – eppure si rivelerà elemento funzionale alle logiche insolite della serata che ci aspetterà. Così le verdi e spettrali pareti interne del villino – che ora ospita alcuni uffici del Ministero dello Sviluppo Economico – ci guidano lungo le rampe delle scale fino ad arrivare all’ultimo piano in cui è situato l’appartamento dove Luigi Pirandello visse da solo dal 1933 fino alla morte nel 1936.

luigipirandello

Visita virtuale dello studio https://vimeo.com/80898394

Entrando ci imbattiamo nella straordinarietà di un nuovo mondo. Il soggiorno-studio si apre in tutta la sua vetusta beltà; nella mobilia originale e intatta, torna a vivere cristallizzata nel tempo l’atmosfera che respirò fino alla fine dei suoi giorni l’autore girgentino. Due Scrivanie e altrettante librerie a vetrine, le poltrone, alcune scaffalature e le sedie allestite al centro della sala, il tutto sormontato da un enorme lampadario di cristallo che illumina l’ambiente in cui smarrirsi nelle mille mirabilia tra dipinti e foto presenti tutte intorno. Da tergo i protagonisti di questa rappresentazione entrano con gli occhi smarriti.
Nella sala volteggiano nelle vesti mondane degli anni trenta, estranei ai visi e alla vita dei nostri tempi. Si accende bassa la luce della ribalta in fondo, tra le due scrivanie, dove i performers trovano il loro palco ideale da cui si muoveranno durante lo spettacolo. Voci fuori campo e una registrazione dalla tesi di laurea “Laute und Lautentwickelung der Mundart von Girgenti” aprono l’opera di lettura inedita dell’officina interiore di Pirandello all’insegna degli studi di ricerca linguistica intorno al fonosimbolismo.
Un grande palloncino azzurro con all’interno luci ad intermittenza verdi e blu legato ad un sostegno viene liberato; su questo viene apposta la seria alfa-numerica 12369LP che corrisponde al numero dell’asteroide dedicato a Luigi Pirandello e portato al fondo del corridoio direttamente al sottoscritto intento a dissimulare l’impaccio di aver legato al braccio il “peso” simbolico di cotanta importanza o semplicemente di essere osservato da una miriade di occhi tutti rivolti su di sé. Sin dalle prime battute si comprende quale sia la cifra stilistica che caratterizza l’intera messa in scena: dai frammenti scelti ed estratti dai Taccuini (ma non solo) dove Pirandello registrava gli esiti della sua produzione letteraria e fonolinguistica prendono vita le identità variabili Gianluca Enria, Elisa Pezzuto, Odette Piscitelli Leoni in rapidi e accesi dialoghi che ben presto coinvolgono anche il  pubblico presente.
Così è per il “dialogo concertato” in cui vengono letti dei piccoli incisi di vari testi distribuiti alla platea, le cui voci alternate femminile/maschile si integrano a loro volta all’interno della schermaglia dialettica intrapresa dagli attori; così è per la gioia di Marco, da sempre appassionato all’hip-hop, chiamato sul palcoscenico, in virtù di quella felpa verde tanto criticata o per la giovane testa che tra la canutaggine dei più spiccava, per un breve ma intenso esercizio di scansione ritmica delle più arcaiche e ricercate parole italiane seguendo il beat di una base musicale.

A legare in un incantesimo onirico le intrusioni dialogiche al tessuto drammaturgico, spetta alla liricità sprigionata dalle corde dell’arpa di Elisa Pezzuto, interprete di numerosi improvvisazioni di canto e poesia sonora, sulle cui note si libra una danzatrice di rosso vestita, Francesca Beatrice Vista la cui leggiadria accompagnerà l’eco della scrittura pirandelliana lungo tutto l’allestimento.

Ogni unità è nelle relazioni degli elementi tra loro: il che significa che, variando anche minimamente le relazioni, varia per forza l’unità. Si spiega così, come uno, che a ragione sia amato da me, possa con ragione essere odiato da un altro. Io che amo e quell’altro che odia, siamo due; non solo: ma l’uno, ch’io amo, e l’uno che quell’altro odia, non son punto gli stessi; sono uno e uno; sono anche due. E noi stessi non possiamo mai sapere, quale realtà ci sia data dagli altri; chi siam per questo e per quello.

Pirandello, Quaderni

Una rappresentazione sui generis – a cui non ci saremmo mai aspettati di assistere – che se per certi versi riesce a mettere in risalto l’operato degli interpreti, diretti dallo stesso Gianluca Enria, sempre prodighi a mettersi in gioco con generosa professionalità; per altri rivela alcune criticità insite nella natura narrativa della messinscena che talvolta viene sfruttata in modo poco limpido a seconda  delle esigenze rappresentative. Infine va riconosciuto alle ideatrici di queste serate teatrali, Dina Saponara e Lucia Torsello, il merito di aver cercato non solo nuovi spunti di approfondimento dell’opera pirandelliana ma anche nuovi punti di contatto fra l’immensa eredità custodita in quelle stanze e il pubblico contemporaneo…e poi chissà se Marco – il mio amico, quello scettico delle mie proposte teatrali- avendo vissuto la gloria del palcoscenico poi ritornerà ai prossimi spettacoli che si terranno il 16 e il 23 Aprile preparandosi stavolta il recitativo rap e con una felpa di un colore ancora più sgargiante?

12369 LP
Orbite, traiettorie, frequenze dai Taccuini di Luigi Pirandello

Da un’idea di Dina Saponaro e Lucia Torsello
Con Gianluca Enria, Elisa Pezzuto, Odette Piscitelli Leoni, Francesca Beatrice Vista
Arpa e canto: Elisa Pezzuto
Movimenti scenici: Francesca Beatrice Vista
Regia: Gianluca Enria

prossimi appuntamenti
Sabato 16 aprile 2016
Sabato 23 aprile 2016
Ore 20.00

Donazione: € 10,00
Prenotazioni: 0644291853 / posta@studiodiluigipirandello.it

Intervista a Giovanni Anfuso, neo Direttore dello Stabile di Catania: dialogare con la città, fra innamoramenti e corrispondenze

Logo-Stabile-Ct.jpgFILIPPA ILARDO | In un’assolata Catania che regala una delle sue prime giornate di primavera, incontriamo Giovanni Anfuso, da poco designato Direttore del Teatro Stabile. Sarà forse per la complicità del clima -che predispone ad avvertire quella certa aria di rinnovamento-, la conversazione segue un percorso che finisce per essere un “ascolto” reciproco, nell’intenzione del nostro interlocutore un atteggiamento, prima ancora che un programma. È da qui che intende ripartire il nuovo direttore per rilanciare il ruolo dello Stabile: un atteggiamento di disponibilità, di indagine, di curiosità verso l’intero mondo culturale della città da cui farsi compenetrare, permeare, contaminare. Così prima ancora che ci siano delle domande e delle risposte, Giovanni Anfuso ha già enunciato le linee programmatiche del suo incarico:

“In una situazione economica difficile, con cui bisognerà necessariamente fare i conti, sarà importante farsi interpreti di un disperato bisogno di cambiamento. La nostra funzione deve essere quella di pungolare il pubblico per ricevere un orientamento, consapevoli del fatto che non ci sono soluzioni definitive. Una progettualità e un orientamento possono nascere solo per tentativi, per percorsi, per ipotesi e possibilità, procedendo per innamoramenti e corrispondenze. L’obiettivo è quello di rifecondare il territorio riaprendo il dialogo con la città: tocca a noi fare il primo passo.”

Esiste un’identità del teatro catanese? Se si, questa deve essere salvaguardata o superata?

“Esiste una generazione di “mostri sacri” del teatro che hanno contribuito a creare un’identità del teatro catanese, nei confronti della quale abbiamo un grosso debito morale. Guardo con rispetto a quelle generazioni di attori e di lavoratori che, in questi anni tristi, hanno permesso, con responsabilità e dedizione, di aprire il sipario ogni sera. È evidente tuttavia che ci sia stata un’eccessiva fidelizzazione a certe forme, ad un certo repertorio, il che ha costituito un impoverimento. Non si può certo nascondere che il dato economico ha attanagliato le scelte, tuttavia le mancanze di orientamento e di gusto hanno portato ad una sterile ripetitività. Il mio sguardo si posa anche su quel serbatoio di giovani di cui è ricca la nostra realtà, in particolare un nutrito patrimonio di attrici che vanno valorizzate. Penso quindi ad un teatro che parla alle donne e che nasce femmina, ad una drammaturgia cucita addosso alle nostre attrici e che recuperi un’idea sartoriale del fare teatro.”

Questo incarico giunge in un momento in cui l’attenzione e il dibattito riguardanti il Teatro Stabile di Catania sono alti.

anfuso.jpg“Che ci siano molte aspettative non può che essere un dato positivo, tuttavia, con un pizzico di amarezza, aggiungo che, in una situazione di estrema difficoltà, maggiore solidarietà non sarebbe stata sgradita.”

Nel nuovo progetto culturale del Teatro Stabile di Catania, quale spazio sarà rivolto al Contemporaneo?

“Non sono per la settorializzazione del teatro, delle sue forme e del suo linguaggio. Ogni compiuta opera d’arte contiene in sé innovazione. Certamente ci sarà molta apertura verso i nostri tempi, ma non ci saranno classificazioni: se per contemporaneo si intende un guardare al teatro in modo innovativo ci sarà certamente tanto spazio.”

Come risolvere il problema dello scollamento con il pubblico, soprattutto giovanile, con quali realtà si cercherà di costruire un dialogo?

“Con l’Università si è già avviato un dialogo costruttivo e si stanno progettando forme innovative di teatro in spazi non-convenzionali. Bisognerà aprire un dialogo organico con tutte le scuole, volto alla creazione di un tavolo permanente di progettazione. Con i Licei si avvierà il progetto “criticoX1giorno” aprendo uno spazio di visione critica dello spettacolo.”

Ci sono delle scelte dell’uscente Direttore Artistico Di Pasquale che non rifaresti?

“Ogni giudizio non può prescindere dalla considerazione della difficile situazione economica in cui ha lavorato il collega Di Pasquale, con tagli in corso d’opera che hanno stravolto interi cartelloni e reso impervia la sua attività. Tuttavia è certamente mancata una progettualità che tenesse in maggiore considerazione realtà importanti per radicarsi nel tessuto vivo della città. È un gap che l’intera città ha accumulato in cui si sono persi un pubblico e un gusto.”

Parliamo di I-art, manifestazione di cui sei stato direttore artistico: molti hanno criticato un dispendio eccessivo di fondi rispetto alla presenza del pubblico e all’effettiva qualità degli eventi. Qual è il tuo bilancio personale di questa iniziativa?

“Il progetto già elaborato da Comune e Regione su Fondi Europei, nel 2010, è stato fermo fino al 2014. Quando io sono stato chiamato, ho trovato un Decreto Assessoriale che definiva cifre e attività. Nei margini della libertà lasciatami, ho cercato di creare un grande indotto che da aprile a settembre ha permesso 56 giornate di spettacolo, con circa 816 artisti coinvolti (attori, danzatori, artisti visivi, cantanti, musicisti…). In quel caso siamo stati costretti a sperimentare con altri Enti (Università, Accademia delle belle Arti, Teatro Massimo Bellini) un coordinamento, una cabina di regia. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: abbiamo massimizzato il successo, ridotto i costi, diversificata l’offerta culturale e ampliato i servizi.”

Secondo le recenti normative, lo Stabile di Catania, è stato riconosciuto come TRIC e non come Teatro Nazionale. Quali prospettive si potrebbero aprire per rientrare nei parametri previsti?

“Mi pare naturale un collegamento con le città di Messina e Siracusa, in particolare l’Inda, con le quali ragionare sulla base di progetti e collaborazioni, in una visione più ampia del territorio, stabilendo nuove forme di aggregazione e gestione. Pensiamo poi alle imminenti aree metropolitane e a centri come Piazza Armerina e Gela, che hanno importanti teatri ed hanno scelto di aderire all’area metropolitana di Catania. In un contesto simile gli scenari che si possono aprire sono molteplici.”

Riguardo alla Scuola d’Arte Drammatica dello Stabile, ci sarà un nuovo orientamento?

“L’intera scuola deve essere ripensata, ri-orientata sulla base di una maggiore contaminazione e con più attenzione alla autorialità e all’interdisciplinarietà. Anche qui sarà necessario creare alleanze, ad esempio con l’Accademia delle Belle Arti.”

Ritieni giusto che un direttore artistico finanzi le proprie opere, non c’è conflitto di interesse?

“Io penso che un direttore artistico non possa e non debba perdere il contatto con la materia creativa, altrimenti si trasformerebbe in un freddo burocrate, con una distanza che finirebbe per svilire il suo stesso lavoro. L’importante è creare sinergie e collaborazioni.”

Continuiamo poi ancora a parlare. Per un po’. E quasi, parlando, mi accorgo di aver messo per un po’ a dormire “quello spirto guerrier ch’entro mi rugge” e mi lascio appena accarezzare dall’idea di cambiamento che sembra affiorare tra le parole del neo direttore Anfuso.
Lo terremo d’occhio e lo monitoreremo.

Vuccirìa Teatro: apocalittici senza Amore

LAURA NOVELLI | Corpi esplosi, bruciati, feriti, sanguinanti. Corpi svuotati dei loro organi. Corpi, viceversa, scolpiti fino all’inverosimile. Grotteschi. Violati nel diritto sacrosanto di crescere, vivere, consistere in modo naturale. Corpi del nostro millennio così paurosamente confuso e fragile. Corpi che ci parlano di oggi, di bombe esplose nel cuore di Parigi e Bruxelles, di concorsi di bellezza per bambine/bambole truccate come fossero prostitute. Di guerre mai troppo lontane per non pensarle vicine. Prevede questa anticamera/video Yesus Christo Vogue (tragedia impossibile in atto unico), nuovo spettacolo della compagnia palermitana Vuccirìa Teatro presentato in questi giorni all’Orologio di Roma. YESUS%20CHRISTO%20VOGUE_2387[1]E la prevede come adeguato preludio alla visione apocalittica e fosca (malgrado l’indubbia forza catartica dell’epilogo) di un lavoro il cui tema dominante coincide con lo spaesamento umano di fronte alla perdita dell’Umano, con l’angoscia di un’epoca che non solo ha smarrito il suo afflato trascendente ma non sa più riconoscere quella primaria, istintiva, volontà di amare – e di Amore – che ci tiene in vita da millenni.

Dopo il successo di Io, mai niente con nessuno avevo fatto e Battuage, la scrittura e l’orchestrazione registica di Joele Anastasi sembrano prendere qui una direzione del tutto diversa e “ri-cercare” una lingua espressiva coraggiosamente lontana da quella che aveva caratterizzato le due prove precedenti. Se già le immagini del video iniziale comunicano una profonda impressione nel pubblico, entrando nella piccola Sala Orfeo dello spazio capitolino il buio ci accoglie intenso, feroce, lasciandoci intravedere un palcoscenico coperto di terra e fango e una figura maschile, anch’essa cosparsa di terra nera, accovacciata in un angolo della platea (lo stesso Anastasi). La musica è già alta, bellissima: il Lacrimosa del Requiem di Mozart sublima l’atmosfera pietosa e compassata di questo avvio di spettacolo riempiendo con vigore il silenzio attonito del primo quadro. Che è concentrato esclusivamente sul Cristo di Anastasi. Un Cristo inselvatichito dal barbarico rifiuto che l’uomo gli ha mosso. Un Cristo che recita la sua stessa disperazione, il suo dolore di morto privato del senso ultimo della Resurrezione, della Compassione.
Ma non si capirebbe questa simbologia cristologia se la si distaccasse dai brani evangelici e biblici (quelli emblematici della Passione) scelti per introdurre i diversi episodi della performance, e soprattutto se si slegasse la parabola di questo personaggio, ridotto a icona e a voce recitante, da quella dei due protagonisti: l’ultimo uomo e l’ultima donna rimasti sulla Terra dopo un’ecatombe di proporzione enorme che ha fatto estinguere la nostra razza consegnando ai sopravvissuti un universo cupo, mortifero, secco, polveroso, ostile.

In questo scenario post-atomico e incenerito, che tanto fa pensare al film The day after e che lo scenografo Giulio Villaggio disegna come una scatola velata di nero, lui/Enrico Sortino (molto equilibrato, consapevole, maturo) e lei/Federica Carruba Toscano (ancora una volta straordinariamente intensiva, fluida nei passaggi emotivi, votata ad una fisicità che si fa linguaggio nel linguaggio) combattono contro l’ossessione di quel destino furioso che li ha condannati alla solitudine eterna, ad una morte impossibile e, nel contempo, ad una rinascita impossibile. Sembrano esseri primitivi, mitologici (ma di un mito selvaggio, pre-Olimpico), animali sguaiati, recintati in un lembo di terra tempestata di avvoltoi.
Vorrebbero suicidarsi, ammazzarsi a vicenda. Lottano tra loro. Forse però esistono e resistono proprio perché in due. A tratti piangono come bambini indifesi. Si avvicinano. Si sfiorano. L’uomo poi innesca la miccia della rivoluzione: vuole un figlio perché solo un figlio darebbe senso al loro trovarsi lì, fuori dalla Storia, dopo la Storia, lontani da Cristo, lontani dall’Amore.
Il rifiuto iniziale della donna, cadenzato da violente botte al ventre e da parole degne di Medea, cede ad una progressiva accettazione. E sta in questo “sì” la chiave di volta della loro vicenda/simbolo: sono infatti proprio le scene dell’allattamento al seno e quella finale dei due corpi nudi che, come un Adamo e un’Eva rinati dall’Apocalisse, si avvicinano al Gesù diseredato e lo accarezzano, i momenti forse migliori, più luminosi e ottimisti, di questa veglia funebre dell’Umanità.
Operazione complessa – mi vengono in mente certe atmosfere della Socìetas Raffaello Sanzio prima maniera – e direi persino complicata, dove si avverte una certa disomogeneità tra la lingua, troppo lirica e retorica, e una resa scenica che, pur nel suo astrattismo metaforico, aspira a un realismo espressivo in più punti compromesso.
Motivo per cui, fermo restando il bisogno autentico di trattare temi altissimi mettendo insieme materiali diversi in un impianto che sia più performativo che teatrale, il complesso di questo allestimento risulta faticoso e non omogeneo. Va, secondo me, reso più compatto, più lineare, meno enfatico nel dialogo e soprattutto meno ripetitivo. Perché si sa che il teatro non perdona: le situazioni e le parole, una volta “poste”, sono già capaci di risuonare nella testa del pubblico. Sono già altro: pensiero, memoria personale, esperienza. Perché porle di nuovo?

Cechov reloaded: Tre Sorelle oggi, quasi come un secolo fa

ROBERTA ORLANDO | Tutti invitati a una festa di compleanno. Lo capiamo dai regali, dal buffet e dalle decorazioni presenti nel salotto/palcoscenico di Villa Freudenbach.
Un arredamento ricco: poltrone, un divano, alcune lavillampade accese che scaldano l’atmosfera della sera, un tappeto colorato, persino un pesce rosso in una vaschetta. Alle pareti sono appese diverse cornici di legno (vuote). Sono le cornici intagliate a mano da Andrej, unico maschio della famiglia, cresciuto con le sue Tre Sorelle. Si potrebbe pensare di assistere al classico di Cechov (1900), se non fosse che lo spettacolo si apre con la musica di David Guetta. Eppure eccole lì: Maŝa (Emilia Scarpati Fanetti), vestita di nero, balla con Irina (Eva Cambiale), in abitino bianco. E poi arriva anche Olga (Federica Santoro) nel suo cardigan blu, a lamentarsi degli allievi del suo liceo, tutti ragazzini stupidi destinati al fallimento.

Tre atti per tre compleanni (falliti, come da sottotitolo della pièce), un anno dopo l’altro, nello stesso soggiorno, con le stesse persone.
La festeggiata è sempre Irina, personaggio particolarmente rappresentativo della generazione 2000. Piena di aspettative al punto da risultare snob e viziata, cambia facoltà universitaria ogni anno e respinge gli uomini, che reputa tutti “vuoti” e indegni. Pigra e facile vittima della noia, passa intere mattinate a letto a pensare, ritenendo che ciò la elevi al di sopra degli altri.
Il personaggio di Maŝa si discosta per certi versi da quello Cechoviano, racchiudendo alcuni dettagli dell’originale Irina: in questo caso è lei la sorella minore, ancora aggrappata alla speranza di emanciparsi attraverso il lavoro, seppure sia già sposata a un uomo che non ama e da cui non vuole avere figli (al punto da assumere contraccettivi di nascosto). Notevole l’interpretazione della Scarpati Fanetti, molto a suo agio in questo ruolo in cui momenti di rassegnazione e polemica spietata si alternano a stati di positività, come barlumi in una vita repressa.
Non dissimile è la repressione di Olga, che vive per inerzia e si sente protetta dal fatto di essere l’unica della famiglia ad avere una professione, anche se la odia. Ha rinunciato all’amore e a ogni possibile cambiamento. L’eccellente lavoro di caratterizzazione del personaggio della Santoro dà vita a una Olga ironica e un po’ nevrotica, come suggeriscono gli scatti d’ira e la leggera balbuzie.
Andrej (Gabriele Portoghese) è un aspirante artista, dallo sguardo stralunato e le idee un po’ confuse, parodia del radical chic dei giorni nostri. Non fa altro che lavorare a un romanzo da un tempo indefinito e si innamora di una donna “povera” (la interpreta Carolina Cametti, aggiungendo comicità alla scena), dimostrando alle sorelle di saper andare oltre le apparenze. Ognuno, insomma, sembra trovare una scusa per sentirsi migliore dell’altro.
A sanare questa dinamica famigliare e a spezzare un po’ la routine della casa (oltre che la sua), arriva Georg (Roberto Rustioni, regista dello spettacolo), personaggio ispirato al Verŝinin di Cechov. Un uomo apparentemente ottimista e diverso dagli altri (lo capiamo dal suo linguaggio aulico e un po’ antico, che risulta comico) ma di fatto rassegnato a un matrimonio infelice con una moglie depressa e a un lavoro mediocre, tenta una via di fuga attraverso un amore che intravediamo appena e che viene subito soffocato dalla stessa paralisi che caratterizza gli altri.

Rustioni mette in scena un testo efficace della berlinese Rebekka Kricheldorf (tradotto da Alessandra Griffoni), che ha riscritto Cechov rispettandone l’autenticità, e consegnandoci un’ennesima prova della contemporaneità di questo autore. Forse è perché, citando Maŝa, “le persone non cambiano” che riusciamo a riconoscere ancora oggi le Tre Sorelle di un secolo fa? Avrà ragione Andrej nel dire che siamo tutti materiale da riempimento in attesa di qualche genio che ogni tanto nasce? Qual è la vera piaga per l’uomo, la mancanza di opportunità o una pigrizia disarmante? Tutte domande che ci si pone durante questo spettacolo, ma a cui certo i nostri personaggi non trovano risposta. Si discutono e si osservano le prospettive generazionali, per lo più stroncate da un’immobilità di comodo, il vittimismo delle persone che vogliono attirare l’attenzione, la rassegnazione prima del tentativo. I temi della solitudine e della noia sono quelli che donano maggiore drammaticità allo spettacolo, che però riesce a non affondare nella pesantezza, se non in alcune scene, per il ridondante ricorso all’alcol.

Si tratta del secondo lavoro di Rustioni su Cechov (dopo i Tre Atti Unici, visti sempre al Parenti), ideato per il progetto Fabulamundi Playwriting Europe 2014. E anche qui il regista dimostra di saper fare del palcoscenico (attraverso un uso accurato dello spazio scenico) un ambiente accogliente e reale, come nell’appartamento del suo Being Norwegian.

 

VILLA DOLOROSA
Tre compleanni falliti

di Rebekka Kricheldorf  – liberamente tratto da Tre sorelle di Čechov
traduzione Alessandra Griffoni
adattamento e regia Roberto Rustioni
con Eva Cambiale, Carolina Cametti, Gabriele Portoghese, Roberto Rustioni, Federica Santoro, Emilia Scarpati Fanetti luci e allestimento scenico di Paolo Calafiore assistente alla regia e alla drammaturgia Gabriele Gerets Albanese
Produzione Fattore K. in collaborazione con Associazione Olinda Onlus e Cadmo/Le Vie dei Festival  – progetto ideato nell’ambito di Fabulamundi Playwriting Europe 2014 – residenza Carrozzerie n.o.t.