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giovedì, Aprile 18, 2024
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Cechov reloaded: Tre Sorelle oggi, quasi come un secolo fa

ROBERTA ORLANDO | Tutti invitati a una festa di compleanno. Lo capiamo dai regali, dal buffet e dalle decorazioni presenti nel salotto/palcoscenico di Villa Freudenbach.
Un arredamento ricco: poltrone, un divano, alcune lavillampade accese che scaldano l’atmosfera della sera, un tappeto colorato, persino un pesce rosso in una vaschetta. Alle pareti sono appese diverse cornici di legno (vuote). Sono le cornici intagliate a mano da Andrej, unico maschio della famiglia, cresciuto con le sue Tre Sorelle. Si potrebbe pensare di assistere al classico di Cechov (1900), se non fosse che lo spettacolo si apre con la musica di David Guetta. Eppure eccole lì: Maŝa (Emilia Scarpati Fanetti), vestita di nero, balla con Irina (Eva Cambiale), in abitino bianco. E poi arriva anche Olga (Federica Santoro) nel suo cardigan blu, a lamentarsi degli allievi del suo liceo, tutti ragazzini stupidi destinati al fallimento.

Tre atti per tre compleanni (falliti, come da sottotitolo della pièce), un anno dopo l’altro, nello stesso soggiorno, con le stesse persone.
La festeggiata è sempre Irina, personaggio particolarmente rappresentativo della generazione 2000. Piena di aspettative al punto da risultare snob e viziata, cambia facoltà universitaria ogni anno e respinge gli uomini, che reputa tutti “vuoti” e indegni. Pigra e facile vittima della noia, passa intere mattinate a letto a pensare, ritenendo che ciò la elevi al di sopra degli altri.
Il personaggio di Maŝa si discosta per certi versi da quello Cechoviano, racchiudendo alcuni dettagli dell’originale Irina: in questo caso è lei la sorella minore, ancora aggrappata alla speranza di emanciparsi attraverso il lavoro, seppure sia già sposata a un uomo che non ama e da cui non vuole avere figli (al punto da assumere contraccettivi di nascosto). Notevole l’interpretazione della Scarpati Fanetti, molto a suo agio in questo ruolo in cui momenti di rassegnazione e polemica spietata si alternano a stati di positività, come barlumi in una vita repressa.
Non dissimile è la repressione di Olga, che vive per inerzia e si sente protetta dal fatto di essere l’unica della famiglia ad avere una professione, anche se la odia. Ha rinunciato all’amore e a ogni possibile cambiamento. L’eccellente lavoro di caratterizzazione del personaggio della Santoro dà vita a una Olga ironica e un po’ nevrotica, come suggeriscono gli scatti d’ira e la leggera balbuzie.
Andrej (Gabriele Portoghese) è un aspirante artista, dallo sguardo stralunato e le idee un po’ confuse, parodia del radical chic dei giorni nostri. Non fa altro che lavorare a un romanzo da un tempo indefinito e si innamora di una donna “povera” (la interpreta Carolina Cametti, aggiungendo comicità alla scena), dimostrando alle sorelle di saper andare oltre le apparenze. Ognuno, insomma, sembra trovare una scusa per sentirsi migliore dell’altro.
A sanare questa dinamica famigliare e a spezzare un po’ la routine della casa (oltre che la sua), arriva Georg (Roberto Rustioni, regista dello spettacolo), personaggio ispirato al Verŝinin di Cechov. Un uomo apparentemente ottimista e diverso dagli altri (lo capiamo dal suo linguaggio aulico e un po’ antico, che risulta comico) ma di fatto rassegnato a un matrimonio infelice con una moglie depressa e a un lavoro mediocre, tenta una via di fuga attraverso un amore che intravediamo appena e che viene subito soffocato dalla stessa paralisi che caratterizza gli altri.

Rustioni mette in scena un testo efficace della berlinese Rebekka Kricheldorf (tradotto da Alessandra Griffoni), che ha riscritto Cechov rispettandone l’autenticità, e consegnandoci un’ennesima prova della contemporaneità di questo autore. Forse è perché, citando Maŝa, “le persone non cambiano” che riusciamo a riconoscere ancora oggi le Tre Sorelle di un secolo fa? Avrà ragione Andrej nel dire che siamo tutti materiale da riempimento in attesa di qualche genio che ogni tanto nasce? Qual è la vera piaga per l’uomo, la mancanza di opportunità o una pigrizia disarmante? Tutte domande che ci si pone durante questo spettacolo, ma a cui certo i nostri personaggi non trovano risposta. Si discutono e si osservano le prospettive generazionali, per lo più stroncate da un’immobilità di comodo, il vittimismo delle persone che vogliono attirare l’attenzione, la rassegnazione prima del tentativo. I temi della solitudine e della noia sono quelli che donano maggiore drammaticità allo spettacolo, che però riesce a non affondare nella pesantezza, se non in alcune scene, per il ridondante ricorso all’alcol.

Si tratta del secondo lavoro di Rustioni su Cechov (dopo i Tre Atti Unici, visti sempre al Parenti), ideato per il progetto Fabulamundi Playwriting Europe 2014. E anche qui il regista dimostra di saper fare del palcoscenico (attraverso un uso accurato dello spazio scenico) un ambiente accogliente e reale, come nell’appartamento del suo Being Norwegian.

 

VILLA DOLOROSA
Tre compleanni falliti

di Rebekka Kricheldorf  – liberamente tratto da Tre sorelle di Čechov
traduzione Alessandra Griffoni
adattamento e regia Roberto Rustioni
con Eva Cambiale, Carolina Cametti, Gabriele Portoghese, Roberto Rustioni, Federica Santoro, Emilia Scarpati Fanetti luci e allestimento scenico di Paolo Calafiore assistente alla regia e alla drammaturgia Gabriele Gerets Albanese
Produzione Fattore K. in collaborazione con Associazione Olinda Onlus e Cadmo/Le Vie dei Festival  – progetto ideato nell’ambito di Fabulamundi Playwriting Europe 2014 – residenza Carrozzerie n.o.t.

Mizan senza scarpe corre dietro il dramma dell’immigrazione

Scarpe di Mizan 02BENEDETTA BARTOLINI | Il teatro, l’arte della mimesi e della catarsi, può – più che la mera informazione giornalistica- creare immedesimazione tra chi non sa, perché non può immaginare, e il protagonista di una storia, che assurge ad emblema di tutte le altre storie di viaggi infiniti e travagliati. È questo il tema de Le scarpe di Mizan –  traversata sulla fuga e altri fossi scritto e diretto da Daniele Marino e Marina Cavalierte e interpretato dallo stesso Marino, spettacolo che, dopo essere andato in scena al Nuovo teatro Sanità e al Theatre de Poche, è stato ripresentato dall’11 al 13 marzo allo spazio ZTN-Zona Teatro Naviganti, una piccola e giovane realtà nel cuore di Napoli con tanti interessanti appuntamenti in scena fino al 29 maggio.

A darci il “benvenuto” è la porta simbolica posta sulla soglia d’ingresso del nostro continente, il varco verso un futuro radioso in cui tutti sono welcome, come indicato dall’inscrizione che vi è su di essa. Mizan è tutti gli immigrati che arrivano nel nostro Paese e varcano quella soglia nella speranza che le loro vite cambino in meglio. Come tutti loro, Mizan è arrivato su un gommone uscendone miracolosamente vivo e ha con sé soltanto uno zaino, semivuoto, ma reso comunque pesante da tutti i ricordi della sua vita. Il passaggio dall’inziale gioia d’esser arrivato sano e salvo in Europa alla consapevolezza di non esser nessuno in quest’Europa, è breve. «Niente che è fatto è ricordato per quello che era», ripete spesso Mizan. Mizan è tutti gli immigrati ma, come ognuno di loro, non è nessuno nella nostra Europa. Non viene accolto, non viene ascoltato, non viene considerato in nessun modo, può soltanto continuare a camminare, con le sue scarpe ormai consumate, in un Paese che non lo riconosce come essere umano. Così si rivolge direttamente al pubblico in sala raccontando episodi della sua vita, mostrando cosa deve fare per sopravvivere nel Paese che avrebbe dovuto salvargli la vita e cosa deve fare, alla fine, per fuggirne. Lo smascheramento finale avviene nel mostrare l’incoerenza tra ciò che l’Europa dice di sé, come nelle pubblicità progresso di cui Mizan riderà con rancore, e ciò che essa realmente offre a chi vi chiede asilo, cioè qualcosa prossimo al nulla.

Daniele Marino e Marina Cavaliere, giovani autori e registi dello spettacolo, rappresentano il problema oggetto della messinscena sia attraverso alcuni interventi metateatrali dell’autore stesso all’interno dello spettacolo, sia attraverso il linguaggio del corpo che supera barriere e steccai di comprensione per mezzo della lingua dell’inesprimibile e svela così i sentimenti più profondi di Mizan fino a mostrare la sua disillusione per un’Europa che è appunto il contrario di ciò che vuole far credere. Le musiche e le luci sono narrative quanto la parola. Le prime risultano perfettamente riuscite nel loro interpolarsi ai momenti in cui Mizan ci parla poeticamente col corpo, aggiungendo senso e mettendo in profondità passaggi di vita. Esse accompagnano con note dolci i momenti dei ricordi, e con ritmi incalzanti i momenti della fuga. Le luci, invece, risultano, nei loro cambi repentini e disarmonici, a volte incoerenti rispetto ad una messa in scena più essenziale, creando anche a causa di problemi tecnici, una caoticità superflua.

Lo spettacolo risulta più riuscito in alcuni passaggi e meno in altri, soprattutto nell’uso eccessivo di oggetti sulla scena che non sempre sono funzionali alla resa visiva. L’impossibilità di restituire completamente il dramma dell’immigrazione è dichiarata, ma lo spettacolo riesce a creare comunque in modo poetico e tragico uno spaccato di verità e a donare un senso di amara consapevolezza nello spettatore e, grazie all’impatto emotivo, a scuotere le coscienze spesso inermi di fronte alle notizie che scorrono lontane e che invece ci camminano accanto ogni giorno.

 

SCARPE DI MIZAN

Traversata sulla fuga e altri fossi

 

drammaturgia

Daniele Marino Marina Cavaliere

 

con Daniele Marino

aiuto regia  Marina Cavaliere

disegno luci  Gianni Porcaro

spazio scenico Barbara Veloce

graphic design  Armando Ianuale

foto di scena  Giuseppe Carfora

ufficio stampa Antonella D’Arco

regia  Daniele Marino

Un campetto di calcio per danzare alla fragilità: Biancofango festeggia 10 anni

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LAURA NOVELLI | Stavolta la storia di Mastino e della sua fragilità ha un preludio e un epilogo fuori scena. Stavolta la partita di quella domenica mattina di fine anni ’80 i suoi compagni di squadra la giocano sulle note della quinta sinfonia di Mahler. Stavolta c’è forse un asprezza più malinconica, più compassata, da rintracciare nelle pieghe un po’ rudi di quel Mister fiorentino che lo tiene in panchina come fosse un Padre autoritario e anaffettivo. Stavolta “In punta di piedi”, monologo d’esordio della compagnia Biancofango ripreso nei giorni scorsi al Teatro dell’Orologio di Roma a dieci anni esatti dal debutto (era il 31 gennaio del 2006), mette insieme la forza e l’energia della prima versione con dei piccoli ma significativi nuovi intarsi drammaturgici che riflettono, per via naturale e fisiologica, la crescita artistica e umana di Francesca Macrì (autrice e regista) e Andrea Trapani (autore, regista e unico interprete), lasciando sottendere un travaso di suggestioni, emozioni, visioni da altri lavori messi in campo in quest’ultimo decennio.

E se ancora colpisce qui la sapienza di una scrittura scenica teatralissima e quanto mai vitale nella sua resistenza al letterario e alla retorica (e ancor meglio ai capricci di una lingua toscana irriducibile a mero dialetto), colpisce tanto più la precisione di una partitura fisica che, sommando in sé la sguaiata prossemica dei tifosi più accalorati e la vocazione impacciata di un’adolescenza ancora incerta e vulnerabile, sembra davvero una danza scritta sul corpo, nella voce, sul volto del bravissimo protagonista. Capace di dare consistenza reale e insieme simbolica a quattro personaggi diversi e di ballare lo struggimento dei sentimenti più nascosti e dei sogni giovanili più reconditi con estrema precisione (nonché passione) performativa.
Stessa pluralità di voci e di animi la si ritrova, d’altronde, efficacemente restituita nel rodato assolo “Fragile Show”, ultimo passo di quella “Trilogia dell’inettitudine” che, composta proprio da “In punta di piedi” e “La spallata” ed edita nel 2011 da Titivillus, scandisce l’iniziale affondo della compagnia nei temi divenuti poi nel tempo campo privilegiato e prediletto: l’inadeguatezza dell’adolescenza, la fragilità delle relazioni e dei sentimenti, il conflitto di coppia (con particolare riferimento a “Porco mondo”, nelle prossime settimane in tournée a Milano, Napoli e Palermo) e generazionale, l’assenza dei padri, la difficoltà di crescere e di non soccombere nel confronto con gli altri, con i vincenti, e – tanto più – con le proprie paure.
Quelle intime, ossessive, raggelanti, malcelate.
In fondo, il diciottenne Mastino di questa pièce, con i suoi scarpini tirati a lucido, la sua cotta sfortunata per una ragazza che non lo ricambia, la sua partita solo sognata e immaginata, la sua solitudine di giocatore e di figlio, somiglia molto ad alcuni dei ragazzi portati in scena anni fa in “Culo di gomma” (frutto di un lungo laboratorio con studenti liceali di Roma convogliato nel progetto “Perdutamente” del Teatro di Roma) e ai perdenti di quel poetico “Romeo e Giulietta, ovvero la perdita dei Padri” che Biancofango presentò al teatro India nel 2014. E anzi proprio con questo allestimento shakespeariano, “In punta di piedi” mostra un’affinità assai marcata. E’ in un campo di calcio che, con riguardoso omaggio a Pasolini, si gioca la rivalità tra Capuleti e Montecchi. Su un campo di calcio muore Mercuzio.

Su un campo di calcio si accendono le micce della tragedia che è anch’essa una tragedia di fragilità giovanile, disillusione adolescenziale, incomunicabilità con gli adulti. Gli adulti – siano essi padri o mister – scolorano dietro i passi danzanti di questi ragazzi che si sottraggono alla vita, che scelgono di sparire, immaginare un’altra possibilità, volare via. Bastano una panchina, una maglia, una linea bianca di gesso disegnata a vista. Romeo e Giulietta tentennano, inciampano prima di darsi il primo bacio così come ondeggiano prima di buttarsi di sotto mano nella mano. Mastino, da parte sua, rimane in panchina mentre il Mister legge la formazione e suggerisce la tattica di gioco, mentre l’inno della Fiorentina riempie l’aria di speranza, mentre il rivale Golgol gli soffia la ragazza. Mentre, nell’accordo disegno luci di Mirco Maria Coletti, tutti i passaggi di ruolo dell’interprete intercettano quel fiorentino materno ma impietoso che solo nel finale cede all’italiano, lingua dei pensieri: “Le mie scarpe – recita Mastino nell’epilogo – sanno più del bianco gesso della linea piuttosto che di terra. Di voi femmine ho sempre invidiato, fin dall’infanzia, la libertà di stare in punta di piedi. […] Sono una femmina alle spalle di un padre. […] Ci aggrappiamo dietro alle loro guida , forse vogliamo misurare il peso del loro sguardo che deve voltarsi per ammirarci. […] Adesso non puoi fingere di non guardarmi, padre […]”.

La scomparsa di Bonn Park e di Teatro i

VALENTINA SORTE |  Ironia della sorte: mentre Teatro i piange la morte del giovane drammaturgo tedesco, Bonn Park, arriva la notizia che – oltre agli spettacoli in tournée e alle produzioni già avviate – la stagione 2015/16 di via Gaudenzio Ferrari si concluderà proprio il 22 marzo con quest’ultimo spettacolo in cartellone. Il pubblico assiste contemporaneamente a due funerali, quello fuori e quello dentro la finzione.

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Piangiamo la scomparsa di Bonn Park, foto di R.Rognoni
Anche se per Teatro i non sembra essere una vera dipartita (si veda l’intervista di Vincenzo Sardelli a Francesca Garolla e Filippo Del Corno su KLP), il divertissement e l’ironia che contraddistinguono la scrittura e l’allestimento di “Piangiamo la scomparsa di Bonn Park” vengono in parte smorzati dall’amarezza dell’annuncio.
Il lavoro è nato all’interno del progetto europeo Fabulamundi Playwriting Europe che coinvolge cinque paesi europei (Italia, Francia, Spagna, Germania e Romania) e che ben si sposa con la vocazione alla promozione e alla produzione della drammaturgia inedita contemporanea che il teatro coltiva dal 2004. Il testo scelto da Renzo Martinelli e tradotto in italiano, per l’occasione, da Adriano Murelli è quello di Bonn Park (classe 1987) di cui si piange appunto la scomparsa.
Park gioca alla morte dell’autore (cioè alla sua) e Martinelli gioca molto divertito al suo gioco. Insomma è un continuo gioco di rimandi, già nella polisemia del verbo play/jouer/spielen (giocare e recitare): l’autore mette in scena il suo funerale e per farlo “gioca al teatro”, mischiando e ironizzando su tutte le sue forme, saltando da un genere all’altro (dal vaudeville e dal teatro di Boulevard al teatro epico di ispirazione brechtiana); il regista sta al gioco. Da una parte lo esalta optando per una scena bi-frontale in cui il pubblico partecipa alle esequie (al centro della scena) e contemporaneamente si osserva – da un lato all’altro della platea – in questo particolare ruolo di spettatore/astante; dall’altra porta fino in fondo la finzione drammaturgica, allestendo i funerali ben prima dell’inizio dello spettacolo. E’ infatti una targa funebre a segnalare dall’esterno l’accesso al teatro.
La scena è molto buia e appena entrati in sala i quattro attori (Luca Toracca, Paola Tintinelli, Vincenza Pastore e Massimo Scola, tutti molto convincenti) consegnano agli spettatori una busta gialla, chiusa, e li accompagnano attorno alla bara (a destra e a sinistra di questa) per assistere ai funerali di Park. Ma presto quello che sembra un normale rito funebre diventa una scena del crimine. Le poltrone sono infatti sigillate da un nastro segnaletico. Solo una volta rimosso, il pubblico potrà prendere posto e le indagini potranno ufficialmente iniziare.
Le domande a cui il commissario e il medico legale (Paola Tintinelli e Vincenza Pastore) tentano di rispondere sono: “Chi ha ucciso Bonn Park”? “Il giovane drammaturgo si è semplicemente suicidato o qualcuno è colpevole della sua morte”? “Da chi sono state messe le pietre nere e maleodoranti che sono state trovate durante la sua autopsia”? Lo spettacolo non è che la ricerca della verità, in un dichiarato e leggero gioco meta-teatrale. Cambiandosi d’abito e di genere (Luca Toracca, in nero, interpreta fra i diversi ruoli La Società) ognuno dei quattro attori prende la parola (ai lati della bara sono installati dei microfoni ad asta), seguendo le indicazioni post-mortem dell’autore.

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Il risultato è una carrellata (tutta entrate e uscite) di personaggi e umanità differenti, in cui l’enunciazione si sdoppia (compaiono i portavoce dei vari personaggi) e tutto diventa citazione: da Brecht a Helene Weigel, dai western di Quentin Tarantino a Ry Cooder, da Schubert a Francesco Tricarico (che offre un divertito contributo alla “colonna sonora”). Bravi Mattia De Pace alle luci e Fabio Cinicola al suono a restituire le giuste atmosfere.
L’epilogo è forse meno inatteso del previsto, ma coerente con tutta la costruzione drammaturgica. Nel suo tentativo di “essere un po’ più del 10 settembre 2001 e un po’ meno del 12 settembre 2001”, Bonn Park è un suiomicidato da La Società. Il suo suicidio è un omicidio (come il Van Gogh di Artaud). Le indagini diventano così un processo a La Società e si trasformano in un atto collettivo, spostando la finzione biografica verso una riflessione più “politica”.
C’est la vie, così recita la busta gialla nelle mani dello spettatore.

Piangiamo la scomparsa di Bonn Park
di Bonn Park
regia Renzo Martinelli
dramaturg Francesca Garolla
traduzione Adriano Murelli
con Luca Toracca, Paola Tintinelli, Vincenza Pastore, Massimo Scola
luci Mattia De Pace / suono Fabio Cinicola
video Giuseppe Ragazzini
produzione Teatro i
con il sostegno di Fabulamundi Playwriting Europe – Crossing generations

Chiedi al cemento: frammenti di Roma nello sguardo di Eleonora Danco

ANGELA BOZZAOTRA “E porto me stesso in una parte sporca della città, dove i miei affanni non possono essere visti”, recita più o meno così il brano Head On di Jesus & Mary Chain, descrivendo quello stato d’animo contrastante del voler rimanere da soli mimetizzandosi nella folla, andandosene dove non si è conosciuti, dove nessuno ti chiede “Che fai nella vita?”, ma al massimo:“C’hai da accendere?”.

Eleonora Danco, autrice, scrittrice e regista (il suo film N-Capace è nelle sale in questi giorni), porta con sé gli spettatori in tali luoghi, tra le fermate degli autobus notturni, sulle scale di piazza Trilussa, nelle vie di San Lorenzo, che rivivono sul palco di fortuna dell’Angelo Mai, uno degli ultimi avamposti della sperimentazione teatrale indipendente della capitale. Ben due spettacoli in forma di assoli, Intrattenimento Violento e Squartierati, uno di fila all’altro. Nemmeno un colpo di tosse, né un attimo di disattenzione, da parte dei numerosissimi spettatori accorsi; vi è un’ identificazione pura nei personaggi animati dal corpo e dalla voce di Eleonora, che come in un rap contest, di quelli nudi e crudi, mitraglia versi, dialetto slang e invocazioni, su di un palco vuoto ad eccezione di un numero imprecisato di bicchieri di plastica. Il primo dei due assoli, Intrattenimento, nella sua versione “one woman band” (fu presentato nel 2012 al Teatro Ambra Jovinelli con altre tre attrici in scena), tratta di storie e personaggi che rappresentano un sottobosco fitto e contorto, andando a costituire tanti ritratti che vanno a formare un unico quadro a più voci di un’umanità sull’orlo di una crisi di nervi.

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foto tratta dal film N-Capace, regia di Eleonora Danco, 2015

Nello specchio frammentato che viene fuori, dove “l’inganno delle facce rende soli”, lo sguardo restituito è quello di ognuno, compito che nell’ultimo periodo il teatro sembra avere perso. La capacità di essere “di tutti”, di mandare a farsi benedire i riferimenti colti (spesso celanti un vuoto di idee e di ideali), di raggiungere dalla prima all’ultima persona, uomo o donna, anziano o giovane, senza per questo compiacere. Il lavoro della Danco sul corpo, sui gesti e sui movimenti, sulla voce, sul testo, è mirato essenzialmente a lasciare un messaggio, una traccia, andando incontro anche a un giudizio, al fallimento, allo schianto al suolo dopo un volo lirico oltre la rischiosa banalità delle storie narrate.

L’opera è figlia bastarda di una città impazzita, che ha perso i suoi riferimenti e i suoi cantori, dove le ultime generazioni non trovano pace, vagando senza direzione tra isolati urbani in cerca di una risposta, trovando porte chiuse e fantasmi di un tempo che non c’è più. Dopo la perdita della poesia, dopo lo stupro del paesaggio con colate di cemento, non rimane altro che il banale, il dettaglio mortificante che mette in mutande e rende frivolo il chiaro di luna. Cosa c’è nel frigorifero? Quanto a male stanno andando le tue banane? Cosa ne pensi di mangiare o meno la carne? Lavori? Perchè non lavori? Bisogna lavorare in tempo di “crisi”! Si era in “crisi” senza saperlo, quando moriva Pasolini, quando cambiava la classe dirigente, quando la forza lavoro perdeva il proprio valore. E non era il 2016, era molto prima, come ripetuto dalla Danco nel corso della performance. La generazione degli anni Novanta, rappresentata da uno dei suoi migliori talenti, è ora qui, di fronte ai più giovani e ai più vecchi a raccontare la sua e degli altri rovina, di relazioni mai arrivate al matrimonio, di quarantenni che ancora vivono con le madri nelle gabbie protettive delle case di proprietà, di una moltitudine indistinta di gente (“La” ‘ggente) che si alza alle cinque di mattina e si consuma lavorando a cinque euro l’ora, che c’ha da fa, insomma. E allora l’Intrattenimento Violento della Danco – tuta sportiva e giubbotto di pelle, capelli arruffati e corpo iperattivo – è un frenetico spit it out di volti oggetti situazioni invettive esortazioni, con una musica ritmica e ossessiva che accompagna gli altrettanto martellanti versi e gesti dell’interprete, in un vortice che si conclude con un impossibile urlo di salvezza, accompagnato dal desiderio di trovarsi in un altro luogo, esotico pacifico vivibile. Si ride, ma non fa realmente ridere.

É un bizzarro rito sociale, in fondo, che culmina con il secondo Squartierati, inno triste al quartiere di San Lorenzo. Qui, dove aveva inizio “La Storia” di Elsa Morante, tra le cui vie Victor Cavallo è ormai un fantasma privo di eredi, dove a fine anni Ottanta si cantava “Alphabet St.” di Prince. E oggi? I luoghi sono svuotati di memoria, dall’officina antica al centro mentale di Via dei Reti; chi dopo i corsi universitari non ha solcato quelle strade che si sono già distrutte – “Gli appalti, si distribuivano solo appalti”- in cerca di uno spacciatore o di alcol a buon prezzo? Dove tra i palazzi si affanna a cercare uno squarcio di cielo, e la luce abbacinante ti colpisce verso le tredici e si rifrange sul cemento, si svolge ogni giorno l’incessante oblìo ed eterna festa di tutti gli universitari, mescolati tra impiegati e famiglie. Parallelamente ha luogo la lotta tra immigrati e abitanti del posto, a colpi di dosi di alcol, coca, fumo e auto sfondate. Il giorno dopo restano solo i bicchieri di plastica, le bottiglie di vetro e i mozziconi di sigaretta, a ricordare che qualcosa c’è stato, ma cosa? Nessuno lo ricorda, di base: nessuno se ne importa. Ambientato in uno scenario marginale e problematico, Squartierati manifesta un bisogno vitale e urgente di ricordare, attraverso le parole e la memoria del corpo, di far uscire allo scoperto tutto quello che è nascosto, inconscio: dall’impeto di rabbia alle pulsioni sessuali, dal rapporto con i genitori alle relazioni fallimentari. La poesia allora nella sua accezione di “pratica” nasce dal fare proprie le voci le urla le lamentele, introiettandone il ritmo cadenzato e violento come marcia di massa indistinta che entra-ed-esce da uno scompartimento della metropolitana. Eleonora Danco, tomboy – donna che con una faciltà impressionante può diventare uomo la cui poetica appare immutata dal Me vojo sarvà del 2005 – si rivolge talvolta direttamente gli spettatori, a quella gente di cui ha fatto versi scritti e poi interpretati, tra pause, calci alla sedia, gesticolare inarrestabile, e infine, dietro il palco che aggiusta in continuazione perché costituito alla buona da quadrati neri, si sveste, perché come ammetteva Bataille “Io scrivo come una donna che si toglie i vestiti”. Lights Off. É di questo che si sente il bisogno, di atti poetici che non hanno la presunzione di voler lasciare il segno, e proprio per questo, riescono a costituirsi come atti lirici, per chi, non accontentandosi (mai) dei prodotti preconfezionati venduti come grandi opere intellettuali, ha ancora sete di poesia, quella vera. E resta impressa, tra le tante, quell’invocazione pasoliniana alla madre: “Tu non esisti. Per questo, come lieve condanna, in me non svanisci”.

Intrattenimento violento, Squartierati

Di e con ELEONORA DANCO
Musiche scelte da: MARCO TECCE
Luci e Suono MICHELANGELO VITULLO
Aiuto Regia NATALIA LA TERZA
Assistente MARIA VITTORIA PELLECCHIA
Costume MARISA DI MARIO
Progetto Grafico di MATTEO SCARDUELLI
Si ringrazia Teatro Spazio NO’HMA, Fondazione Teresa Pomodoro

“Slot Machine”, il dramma didattico delle Albe sul gioco d’azzardo

Slot Machine @ Davide Baldrati
Slot Machine @ Davide Baldrati

MATTEO BRIGHENTI | In Italia ci sono ufficialmente 414.158 slot machine, circa una ogni 144 abitanti, neonati compresi. Il più vasto mercato in Europa, e uno dei più grandi al mondo, ha prodotto un milione e trecentomila “giocatori problematici” che si svegliano la mattina e vanno a dormire la sera con un unico pensiero, fisso in testa: giocare e giocarsi tutto.
Slot Machine di Marco Martinelli è la discesa nel ‘sottosuolo’ di uno di loro, Doriano, figlio di contadini, che per togliersi di dosso il puzzo della terra – le sue radici – sceglie prima l’azzardo delle scommesse ai cavalli e poi quello delle macchine mangiasoldi. Un vortice, una spirale, un gorgo di frustrazione ed esaltazione che Alessandro Argnani, da solo in scena, restituisce con quieta e insieme violenta arrendevolezza. Un labirinto vorticoso e terrorizzante che è l’opposto della rupe che innalza, del monte Olimpo la cui ascesa conduce alla gloria: qui la redenzione non è da meno della fortuna, una povera illusione.
Lo spettacolo, ideato da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, prodotto dal Teatro delle Albe – Ravenna Teatro in collaborazione con Olinda, è un soliloquio dalla fossa, come recita il sottotitolo. Quella terra che Doriano aveva sempre rifuggito ora, per contrappasso della sua scelta di vita, è tutta intorno a lui. Slot Machine comincia con un lamento nel buio, un oscuro grammelot che mangia se stesso, il fiato e i suoni, accompagnato da una musica tra Twin Peaks e un film di Sorrentino. Una pila illumina un volto che ride isterico e poi due piedi scalzi che scappano frenetici: il giocatore di Argnani cerca una via di fuga dagli strozzini, un’allucinazione della mente, com’è il gioco, com’è l’intero spazio scenico. Arriva in proscenio, a sinistra, dove il passo è fermato da un piccolo bosco di alberi bassi, di plastica, abeti di un Natale di morte su cui l’attore rovescia della terra che ha in tasca. Il teatro ha la forza di mostrare, con la lingua dei segni della rappresentazione, il prima nel dopo e il fuori nel dentro: ciò che è avvenuto torna a succedere nel momento in cui lo si ripete, lui ricopre di terra gli alberi e, per tramite loro, seppellisce anche se stesso.
Altrettanti alberi si accendono in altri tre punti del palcoscenico a tracciare gli assi cardinali della bussola della ragione persa da Doriano, una finta foresta di Dunsinane che muove contro questo Macbeth di provincia accecato dal potere del gioco. In mezzo, su un tavolo da obitorio, Argnani, in gessato e camicia azzurra, è deposto come il Cristo morto di Mantegna. Si dibatte, si divincola tra gli spasimi delle voci che lo inseguono, gli altri, la società, che gli dà dello “sfigato”, e l’Altro, il gioco, per cui è soltanto un “cretinetti”. Sopra di lui, in fondo, uno specchio deformante come quelli del luna park lo mette di fronte a come lo hanno ridotto le macchinette, un uomo che ha perso ogni barlume di umanità. La morte rivela ciò che la vita ci ha fatto diventare.

Foto di Davide Baldrati
Foto di Davide Baldrati

Un’immagine che Doriano non vuole vedere né può accettare: meglio, molto meglio il viso pulito che rimandano le slot machine, cioè due grandi specchi ai lati davanti al tavolo-bara con un panno verde per sudario. Argnani li usa per raccontare l’incontro con le macchinette. Diventano presto l’unico mondo possibile, abitato da “io basta”, l’incanto di un riflesso di sé nell’antico Egitto con La Tomba del Faraone, sulle spiagge della Romagna con Romagna Mia, tra le donne che ha perduto con Pin Up. Basta premere un bottone, tanto l’importante non è vincere, è giocare.
Il tema dello specchio e della prigionia del doppio, da cui non scappi perché l’Altro sei tu e di quello scontro inutile hai però bisogno per vivere, sull’esempio de I Duellanti di Conrad, è sottolineato e reso sguardo vivo e non solo mentale dal disegno luci. L’illuminazione è quasi sempre di taglio, come se Argnani si trovasse ovunque in bilico, al confine con il buio: parlare significa per lui portare alla luce (delle macchinette) l’esistente facendolo uscire dalle ombre di ciò che sa e soffre, mentre tutto il resto è solamente sfondo, avanzo di oscurità.
“Martinelli non ci consegna un giocatore – scrive Marco Dotti nella postfazione al testo di Slot Machine pubblicato da Luca Sossella editore – ci consegna a lui. E lui cosa fa? Non ci giudica, non ci parla, non ci vede. Ci saluta e se ne va, nella fossa”. Lo spettacolo, infatti, è una radiografia simbolica dei sintomi della ludopatia, dal bisogno di aumentare sempre più la posta per eccitarsi, al tornare sui propri passi per rifarsi, inseguendo le sconfitte, e ancora al mentire e commettere azioni illecite per trovare i soldi da giocare, arrivando a mettere in pericolo la famiglia, gli affetti, gli amici, il lavoro, e perfino la vita. Un dramma didattico alla Brecht per cui quello che sembra inevitabile va comunque analizzato e messo in discussione.
Il disegno didascalico complessivo stempera così nella profondità dei suoi obiettivi il girare a volte a vuoto di Alessandro Argnani, come i rulli delle slot, e il suo non affacciarsi mai compiutamente, ‘attraverso’ gli specchi, dentro la claustrofobia di una mente ossessiva. In definitiva, si tratta di uno spettacolo del dolore sostenibile, non punta a indignare, quanto a dimostrare con l’esempio negativo di Doriano che il gioco d’azzardo è una malattia (sociale), ma d’altra parte nessuno è favorevole alle macchinette, eccetto la minoranza di chi ci lucra o ne è ammalato.
Slot Machine scommette allora sul convincere chi è già convinto e così vince, vince sempre. Tale e quale a La Tomba del Faraone, Romagna Mia o Pin Up.

Slot Machine
di Marco Martinelli
ideazione Marco Martinelli, Ermanna Montanari
regia Marco Martinelli
con Alessandro Argnani
musica Cristian Carrara
spazio scenico e costumi Ermanna Montanari
luci Enrico Isola, Danilo Maniscalco
fonica Fabio Ceroni
allestimento scenico a cura della squadra tecnica del Teatro delle Albe Fabio Ceroni, Luca Fagioli, Enrico Isola, Danilo Maniscalco
produzione Teatro delle Albe – Ravenna Teatro in collaborazione con Olinda
Visto giovedì 17 marzo al Teatro Cantiere Florida, Firenze, all’intero della rassegna “Materia Prima”.

Non aprite quella porta: Paravidino e la paura de I vicini

© TUTTI I DIRITTI RISERVATI ©
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MILENA COZZOLINO | Il giallo, a teatro, non ha mai avuto successo. Se si esclude The Mousetrap, il grande classico della Christie che ha raccolto consensi anche sul palco, la memoria teatrale non fornisce esempi di opere riuscite. Il cinema supporta più adeguatamente il genere grazie ai mezzi della fiction e questo vale ancor di più per il Thriller, sottogenere legato al meccanismo della suspance, con cui Fausto Paravidino gioca nel suo I vicini, un lungo divertissement presentato dallo Stabile di Bolzano al Teatro Nuovo di Napoli, dal 16 al 20 marzo.
Sì, perché I vicini non può essere considerato altrimenti. L’autore, atteso come una delle penne più felici della drammaturgia contemporanea, ci conduce in un interno bianco e minimal, l’idea che richiama da subito è che tra quelle pareti possa accadere di tutto. E in effetti tra quelle pareti, Paravidino fa accadere qualunque cosa: dà vita ad una serie di ibridazioni tra i codici del giallo e della commedia psicologica, tra teatro e cinema, generi e sottogeneri: dal noir al rosa.

Tra quelle pareti si svolge anche la vita ordinaria di una giovane coppia formata da Greta (Iris Fusetti) e dal suo compagno, interpretato dallo stesso Paravidino, un Woody Allen nostrano, nevrotico e fobico, sempre in pigiama e dalla mascolinità fragile. Ed è proprio tra quelle pareti che i due scoprono improvvisamente la paura di vedere invasa la loro intimità. Fino a quel momento la porta di casa era stata una soglia invalicabile. La vecchia vicina – la donna anziana che abitava l’appartamento accanto – aveva posto un limite, quando aveva rifiutato di prestare all’uomo lo zucchero per il caffè. Da allora il caffè lo ha bevuto a amaro e addio ai rapporti di buon vicinato. I due si abituano a vivere nel chiuso di un microcosmo, in cui la porta sempre chiusa è sinonimo di stabilità.
Quando l’anziana muore, ad occupare l’appartamento arriva una giovane coppia dalla caratteristiche fisiche e psicologiche opposte a quella formata da Greta e dal suo compagno. Mentre i primi due stanno insieme “di fatto”, i secondi sono regolarmente sposati. Chiara (Sara Putigliano) e suo marito (Davide Lorino) sono visibilmente rappresentanti di un mondo tradizionale, il prototipo di un arcaico ancora e sempre dietro l’angolo (o la porta), fatto di una pronunciata femminilità e di un’altrettanta mascolinità. L’incontro fra le due coppie fa arretrare il mondo della prima verso una dimensione meno sorvegliata. La soglia dell’attenzione si abbassa e quella di casa comincia ad essere attraversata. Così la razionalità si smarrisce e il piano narrativo arretra verso l’onirico. La dimensione teatrale diventa pulsionale e sulla scena si ha la possibilità di materializzare tutto quello che in genere viene taciuto nel chiuso dell’intimità. Conflitti e attrazioni latenti tra le due coppie scoppiano e vengono pronunciati. Questi sconfinamenti aprono la porta ad un universo perturbante. Per cui i due microcosmi familiari finiscono per influenzarsi in maniera strana, come in un rispecchiamento reciproco, quello che accade in un appartamento ha una strana influenza sull’altro, come se uno spirito unisse i due microcosmi in un destino comune di paura: porte e finestre si aprono a causa di folate di vento improvvise provocando strani rumori. Il sonno causa visioni. Parole e rumori si riverberano nelle due case, ma noi nei vediamo solo una, il resto ci viene raccontato.
Così i confini tra reale e irreale si smaterializzano, anche grazie al gioco di luci orchestrato da Lorenzo Carlucci. Nonostante l’autore e regista costruisca ad arte momenti che talvolta fanno trasalire, nulla sembra rovesciarsi però nel tragico.

La critica letteraria ha individuato una chiara ascendenza del romanzo giallo dalla tragedia e la sua parentela stretta col cinema, ma il lavoro di Paravidino volge in commedia, quello che accade ha sempre i contorni del gioco, anche quando si arriva ad un momento di violenza tra i due uomini e scorre del sangue, è chiaramente visibile una parodia di certo horror drammatico cui strizza l’occhio.
Così come sul finale, quando a sciogliere il nodo drammaturgico degli eventi si chiama a parlare lo spirito della vecchia vicina di casa (Barbara Moselli), con tanto di faccia bianca e voce tremolante, è lei a spiegare il perché di quegli strani eventi, a raccontare una storia, la sua storia, drammatica e surreale, romantica, come lo sono spesso i thriller zombie, ma la soluzione non convince. La spiegazione diventa didascalica e fa fallire i meccanismi del gioco teatrale messi in atto fino a quel momento, dimostrando attraverso la maestria e il talento nella sperimentazione, che il giallo a teatro continua a non funzionare. Il testo non sembra risolto, forse perché ci vorrebbero soluzioni che la scena semplicemente non offre, almeno non ancora.

I vicini
drammaturgia e regia di Fausto Paravidino
con Iris Fusetti, Davide Lorino, Barbara Moselli, Fausto Paravidino e Sara Putignano
Scene a cura di Laura Benzi
Costumi di Sandra Cardini
Luci di Lorenzo Carlucci
Produzione Teatro Stabile di Bolzano
Organizzazione e distribuzione di Nidodiragno/Coop. CMC

Hamlet und Ophelia Befreit: il canto della sconfitta moderna

GIULIA TELLI | Su uno spazio nudo abitato soltanto dai due corpi degli attori si fondono il testo di Heiner Müller Amletmachine, iperbole del disfacimento, e il classico Amleto di William Shakespeare.

La regia asettica e chirugica di Pujadevi (Elisa Lepore) con polso michelangiolesco toglie il superfluo e scolpisce sulla scena l’essenziale, riducendo a uno pseudo dialogo tra Hamlet (interpretato dal bravo Luca Pasquinelli) und l’irriverente Ophelia (interpretata con eleganza da Eleonora Cecconi) l’intera tragedia shakespeariana.

Gli attori sono già sulla scena quando il pubblico inizia a prendere posto in sala.

52557a38-4b92-440b-a75a-da6765bb733c.jpgUn Amleto rasato, scalzo e a torso nudo sotto una giacca nera e inamidata, seduto su una sedia con un cappio al collo, con gli occhi pesti di chi non dorme, o forse fa soltanto brutti sogni, di chi “non vuole più vivere, morire, ma stare nel nulla”. Lo sguardo perso a fissare il vuoto di chi si dibatte nel dramma dell’ambivalenza dell’essere o non essere, del non voler più morire né voler più uccidere.

Anima inquieta e speculare ritagliata in un fascio di luce, l’alter ego femminile di Amleto rappresenta tutto quello che può significare una donna: da Eva fino a Ophelia e oltre, passando per il mito.  In una mano tiene una mela rossa, morsicata, che contrasta con il nero dei costumi (affidati all’estro di Marina Rosa Papagni), del trucco pesante che cerchia gli occhi dei due attori  e del nero contenitore che è la scena stessa, illuminata a tratti da coni di luce, freddi occhi di bue nei quali i due attori si ritagliano la scena rubandosi vicendevolmente la parola. Ophelia dal cuore spezzato ma che ha appeso al chiodo l’abito bianco della verginità per mostrarsi nella sua aggressiva sensualità: capelli sciolti, tacchi a spillo e guepière. Ophelia che da ieri “ha smesso di uccidersi e non calpesta più cio che è”.

Ophelia che lecca la mela prima di porgerla ad Amleto, mentre in lontananza si ode il rumore di tuoni che squarciano il cielo, del crepitio dell’ acqua piovana che furtivamente sgorga in qualche condotto, di lupi che ululano e cani che latrano. Sembra di sentirla nelle narici quell’atmosfera cupa, umida e desolante della Danimarca. Lingue di fumo bianco si condensano sulla scena restituendo la suggestione di quella stessa nebbia fitta e pungente da cui emerse, nell’omonimo dramma, lo spettro del Re di Danimarca.

Al tempo stesso però, quella stessa atmosfera di nebbia e foresta notturna popolata da lupi ululanti riporta a ben altro castello di gusto espressionista: quello in Transilvania dell’inquietante e (trans)sensuale Frank’n’furter, nella trasposizione cinematografica del Rocky Horror Picture show del 1973 di Richard O’Brien. Non ci si stupirebbe se Ophelia trasformasse la sua partitura in slow motion, fatta alla spalle di Amleto mentre lui decanta il celebre monologo shakespeariano, nel ballo del Time Warp, ballato nel film dai transilvaniani. Non stona quindi neppure Amleto che strizza i bicipiti tatuati in un abitino nero perché, fedelmente al testo di Müller, alla domanda di Ophelia “vuoi mangiarmi il cuore?” le risponde “voglio essere una donna”, e Ophelia che in uno scambio di ruolo e identità indossa la di lui giacca.
Gli attori escono dai ruoli che sono chiamati a interpretare sporcandoli così di modernità, per entrare nella vita vera di uomini che però in questo mondo si scoprono più freddi delle macchine, attanagliati da una noia esibita e ostentata.

Amleto e Ophelia si muovono senza sosta in questo spazio-non spazio, che ben riflette il loro inquieto male di vivere, due robot che stanno ai margini di questo mondo non-mondo, nel quale entrano ed escono continuamente (anche sulla scena, rompendo la quarta parete, i due apostrofano gli spettatori interrogandoli senza pietà: “che cazzo vi aspettavate di trovare questa sera a teatro”?) per mostrare il delirio dell’uomo moderno perso in una routine meccanica che soffoca la vita, fin dal suo nascere.

L’Amleto di Müller rappresenta l’emblema dell’intellettuale moderno e i suoi paradossi, è l’anti-eroe per eccellenza, nauseato dal capitalismo che non ha più voglia di porre domande a se stesso, ma inizia a insinuare negli altri, nello spettatore stesso, il dubbio sulla propria inconsistente esistenza.
Non c’è sincronia apparente tra il dire e il fare: anime ormai vuote che si autoscherniscono ballando la Macarena, tormentone anni ’90, sulle note di un coro da stadio. Così come Adamo ed Eva avevano disperso i semi della procreazione, Ophelia e Amleto, complici e amanti, sterilizzano il terreno con la noia. E sempre per noia Ophelia alimenta il proprio ego scattandosi selfie, per riempire il vuoto tra una chat e l’altra, espressione di un disagio, di un’inadeguatezza, che non hanno forma né colore ma indolenti ci restano appiccicati addosso.

Quella di Müller, da cui è tratta la maggior parte del testo drammaturgico, è un’operazione al limite del virtuosismo linguistico, dove si assiste alla deflagrazione di qualsivoglia struttura sintattica attraverso rotture lessicali e ritmiche, contaminazioni di altri idiomi (inglese e tedesco) e al tempo stesso alla ricostituzione di un senso altro, più profondo, dove “l’epifania della crudeltà non prevede narrazione ma (deton)azione”.

L’uomo moderno non è altro che un fantoccio, un burattino, che s’agita diretto dalle mani del potere, assorbito e fatto schiavo dalla stessa tecnologia di cui si sente l’indiscusso padrone, scisso tra l’impossibilità di modificare l’esistente e il desiderio di trasformarsi in macchina.

HAMLET UND OPHELIA BEFREIT
Progetto e regia di Pūjādevī
con Eleonora Cecconi, Luca Pasquinelli
foto di scena Cristiano Mugetti
costumi Marina Rosa Papagni
riprese video Filippo Lorenzi, Francesco Marullo
organizzazione Federica Picciolo

Non essere: da Castellucci a Blu fra pezzi coperti e pezzi staccati, l’opera d’arte ancora irripetibile

imageRENZO FRANCABANDERA | L’epoca della riproducibilità digitale,  l’originale di un’opera d’arte: si era interrogato per primo Benjamin sulla questione, già un secolo fa. In questi mesi due eventi ci hanno posto davanti a risposte particolarissime, che riguardano due artisti apicali dei rispettivi linguaggi in Italia, ovvero lo street artist Blu e il regista teatrale Romeo Castellucci. Ha senso modificare, distruggere, fare a pezzi e proporre in parti un’opera d’arte? In che modo il senso dell’opera trasformata, partizionata, perfino negata, dialoga con quello originale?
Entrambe le situazioni prendono le mosse da Bologna, città strana, che sembra sempre vivere in un limbo senza tempo, e dove, da secoli verrebbe da dire, la società si propone in modo avanguardistico rispetto ai dibattiti del contemporaneo.
Il caso di Blu, uno dei maggiori street artist in Italia e nel mondo, certamente è il più eclatante dal punto di vista mediatico, con la decisione di coprire (e far coprire da un gruppo di persone a lui vicine) alcuni murales da lui precedentemente realizzati in città, in polemica con una mostra sulla street art organizzata nel capoluogo felsineo. Pur essendo stati già prima dell’inizio della mostra (‘Street art Banksy&Co. – L’arte allo stato urbano’ – Palazzo Pepoli) sollevati ai curatori temi relativi all’autorizzazione da parte degli autori stessi ad utilizzare le loro opere senza un esplicito consenso (si veda ad esempio l’intervista rilasciata da Omodeo ad Artribune), alcuni ‘strappi’ di Blu da alcuni muri di Bologna, come i murales delle ex Officine Casaralta e Cevolani hanno portato alla decisione dell’artista di dare una mano di grigio sui suoi murales.

Il tema della distruzione, della modificazione nel tempo dell’opera ci pare abbia qualcosa di sottilissimo in comune con quanto fatto da Romeo Castellucci, con la sua idea di riproporre un titolo storico della sua compagnia, la Socìetas Raffaello Sanzio, il Giulio Cesare, ispirato alla tragedia di Shakespeare, ma non in una riproposizione integrale, bensì in un riallestimento in “frammenti”: una nuova forma per rievocare uno spettacolo irripetibile secondo lo stesso autore, posizione confermata anche in occasione della replica presso il Crt di Milano nei bellissimi saloni della Triennale.

Il caso di Blu, oltre che le questioni relative ai diritti che un autore ha su una sua opera, compreso quello di distruggerla, fa emergere e riflettere per la prima volta sulla natura potenzialmente performativa dell’opera d’arte figurativa e di strada, per la sua intrinseca caratteristica transeunte molto più spiccata rispetto alla tela in salotto o in un museo.
Le opere in questione,
 proprio in quanto già in origine sottratte alla categoria del semovibile, del commerciabile, mettono di per se stesse in crisi alcune categorie del mercato di riferimento.
In questo caso ci troviamo di fronte ad un chiaro intento distuttivo, o di inibizione della fruizione. Moltissimi autori sicuramente distruggono le loro opere in privato, nei loro studi, senza che questo impatti la società. Eppure nel caso dei murales questa decisione ha assunto un rilievo sociale, di comunità, portando per la prima volta a far riflettere la città sul rapporto adottivo che la stessa e il suo immaginario visivo hanno con le opere degli street artist nel medio-lungo periodo.

1457167448_10683711_1163766486991250_4494927510210936766_oNel caso di Castellucci, invece, un lavoro teatrale è di per sé un’opera che incorpora il crisma dell’irripetibilità e quindi decidere di riproporne alcuni pezzi, per giunta come esito di un percorso di rivisitazione accademica dell’intera produzione artistica del regista, è scelta che non può non portarci ad ulteriori riflessioni. Anche in questo caso l’origine dell’impulso creativo è stato un corso di linguistica generale condotto da Castellucci a Bologna  nel 2014-15 all’interno di un progetto più ampio intitolato “E la volpe disse al corvo”,  di cui si trova dettaglio a questo link. 
I frammenti che Castellucci ha deciso di far rivivere e che riprendono alcuni momenti salienti di un allestimento fra i più significativi della Compagnia (segnalo per una sinossi rapida ma efficace questo contributo di Gianni Manzella su DoppioZero) hanno una natura sicuramente impattante sia dal punto di vista semiotico che visivo, andando alla radice della parola, sia attraverso la sonda ottica che l’attore (Scarlatella) ad inizio spettacolo fa arrivare dal naso fin nella gola alle corde vocali, sia nei due successivi monologhi, quello di Giulio Cesare (Plazzi) e quello di Marco Antonio (Masini), il primo tutto a gesti, di cui si ode lo spostarsi dell’aria nel movimento delle braccia, il secondo affidato ad un interprete che ha subito un’operazione alla laringe che ne ha lasciato sul corpo traccia e cicatrice indelebile, che ne modifica la possibilità di una parola forte. Anche in questo caso il loro fisico, come l’opera intera, viene offerto al pubblico sezionato, fatto in parti, lacerato. Eppure quella forza arriva a prescindere dal volume. Così come arriva la forza di un discorso di solo gesto, senza parole. 

Castellucci preserva in questa scelta, quindi, un’intenzione quasi performativa, di “pezzi staccati per un intervento drammatico su Shakespeare”, come recita il sottotitolo, se performativa è un’azione che ad un certo punto costringe gli spettatori ad alzarsi per far passare gli attori nello spazio, proprio mentre il corpo di Cesare viene trascinato via; l’allestimento vive un costante riadattarsi agli spazi in cui viene proposto, in una sorta di gioco del 15 con l’opera d’arte che non è più l’originale ma una sua rivisitazione volta ad indagare, fra forze e debolezze dell’uomo, il suo dialogo con la società e con l’arte (ARS recita la scritta sul piedistallo da cui Marco Antonio fa la sua orazione).

Ricompare nei pezzi il celeberrimo cavallo su cui viene scritto il motto Mene Tekel Peres dal sogno biblico di Baldassarre, riportato nell’Antico Testamento in Daniele 5, 30-31: la fabbrica della parola, ambivalente quando attinge al poderoso armamento della retorica si confronta con l’arte, la società, il simbolo.

Rembrandt-BelsazarCertamente simbolo di vitalità e forza straordinaria appare quella dell’equino in scena, che nel salone della Triennale con le opere di Sironi defeca e fa venire in mente, anche se in modo forse non voluto, il Concetto di volto, lì col dramma della vecchiaia, qui con la morte dell’anziano dittatore e con la forza prorompente e che impaurisce della bestia in scena, il rischio di una sua ribellione incontrollabile.

L’opera che può sfuggire all’artista, l’artista che realizza un’opera capace, almeno in potenza, di sfuggirgli di mano e diventare autonoma, ingovernabile. Shelley con Frankenstein.

Ulteriormente curioso ai nostri fini appare il  fatto che sul cavallo, come nello spettacolo originale, venga riportata la scritta di quella che è testimonianza di uno dei primi murales della storia della letteratura, eseguito niente meno che per mano di un dio (episodio biblico e motto ce li ricorderà poi Rembrandt in un suo dipinto), e che nel suo significato fa riferimento al fare a pezzi. Nel finale di questi pezzi separati, di Castellucci, progressivamente un’elica si muove su un asse distruggendo via via delle lampadine fino a lasciarci in un buio senza parole, in quel dialogo fra macchina distruttrice e assordante che va dal Giulio Cesare al recente Moses. Un buio di senso dopo la parola, e il sentimento di qualcosa di ingovernabile che ci sovrasta. L’arte che deve fare a meno della parola, la convivenza affidata alle macchine ai meccanismi, fa piombare nell’oscuro.

L’arte fatta a pezzi, riproposta in parti, cancellata, abrasa, selezionata è profondamente in dialogo con il nostro tempo. Cosa ci resta di questa esperienza di negazione (che come spesso accade finisce per diventare enfasi di quello che è stato cancellato)?   L’operazione di Blu e quella di Castellucci hanno qualcosa a che fare con i libri di Emilio Isgò, che cancellava parole nelle pagine e con il non essere? Con la negazione che diventa affermazione di identità? In ogni caso, siamo lontani dalla fotocopia, dalla serialità numerata a matita delle gallerie d’arte, dalle ricche case borghesi con la serigrafia autenticata. E riflettiamo. Non solo noi addetti, o assidui frequentatori. Ma in più. E diventa dominio pubblico. L’arte che si riappropria di un ruolo centrale nella società e nel suo discutere con la vita, con il quotidiano. Di tutti.

 

 

Giulio Cesare

Intervento drammatico su W.Shakespeare

Ideazione e regia Romeo Castellucci 

con

Marco Antonio: Dalmazio Masini
…vskji: Sergio Scarlatella
Giulio Cesare: Gianni Plazzi 

Assistenza alla messa in scena: Silvano Voltolina
Tecnica: Andrea Melega
Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio

 

Street art Banksy&Co. – L’arte allo stato urbano’,

fino al 26 giugno a Palazzo Pepoli

La decisione e una mostra che hanno suscitato grande dibattito, su cui due punti argomentativi complessi sono quelli sintetizzati nell’articolo di Leonardo sul suo blog e in quest’altro articolo di Smargiassi su Repubblica

X MEDIA: Sulla trilogia “tossica” di Claudio Caligari

ALESSIO DEGIORGIS | L’invidiabile privilegio dell’immagine cinematografica di attraversare confini, non solo geografici, è stata la fortuna di molti cineasti. Non certo per vezzo o perché intenti a costruire poetiche sofisticate, alcuni registi, al contrario, scelgono di chiudere la rappresentazione entro contorni ben definiti. Il gioco della finzione va interrotto perché, a volte, ciò che si racconta non può essere trasfigurato con troppa leggerezza. Il cinema di Claudio Caligari è un esempio di questa rara sensibilità. Impone, con rigore calvinista, un confine invalicabile. Oltre il lungomare di Ostia non è possibile andare, alle spalle le disordinate periferie romane, al di là il moto ondoso che simboleggia alternative che la vita scoraggia.

“A Cè, nun lo guardà er mare che te vengono i pensieri!”. Dicono a Cesare, protagonista di “Non essere cattivo” (2015), ultimo capitolo della trilogia tormentata iniziata con “Amore tossico” (1983) e proseguita con “L’odore della notte” (1998). Il tormento non va confuso, in questo caso, per posa scapigliata. C’è la fatica del regista di veder riconosciuto il proprio lavoro intellettuale, così distante dalla piccineria e dall’alterigia dell’intellighenzia italiana. Lo stesso disgusto che ispira Pasolini nel suggerire a Orson Welles quelle malevole parole sulla stupidità compiaciuta dell’intellettuale medio (“La ricotta”). Come il Pasolini neorealista, del quale è il depositario più credibile, Caligari ricompone, scontrandosi con innumerevoli difficoltà produttive, uno sguardo su coloro che l’intellettuale mediocre è capace di raccontare solo con ostile indifferenza, maledetti da “marchio speciale di speciale disperazione”.Immagine_di_%22Non_essere_cattivo%22

Cesare, appunto. Che è, in verità, moltitudine anonima, impegnata in una flânerie autodistruttiva. I teatri fatiscenti dove si svolge la scena sono quelle periferie urbane che si è scelto di dimenticare o indicare, con solerzia pretesca, come Sodoma e Gomorra dalle quali stare alla larga. La paziente intelligenza di Caligari sta tutta nel rifiuto di credere che la desolazione di certi paesaggi debba corrispondere a uno sguardo giudice verso chi entro quei recinti si è trovato ad abitare. La discrezione dell’io regista è indizio di un’attenzione critica che si accompagna a una sottile maieutica, capace di lasciare spazio a un linguaggio viscerale che non scade mai nel patetismo. Nulla è concesso a quella retorica che imperversa nel biografismo dei cosiddetti film “sulla droga” (“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” o “The basketball diaries” per fare degli esempi). Così come sono distanti i virtuosismi di pellicole acclamate come “Trainspotting” o “Requiem for a dream”, che si risolvono in soluzioni accattivanti e strizzatine d’occhio a consolidati cliché.

Si diceva del mare di Ostia e della sua natura paradossale di argine. Di fronte ad esso, un desiderio di vita, oscuro e confuso, che fatica a trovare pieno riconoscimento nel quotidiano, tanto più quando si è costretti a inseguire. Cesare (quello di “Amore tossico” come quello di “Non essere cattivo” e come tutti coloro che una pellicola non può contenere) è un milite ignoto del quale un po’ ci si vergogna e il cui destino si rifiuta di includere in una storia collettiva di cui volentieri si tace. Non ci è dato sapere con quanta consapevolezza vada incontro alla morte, possiamo solo intuire quanto questa lo colga impreparato e disarmato.

La percezione complessiva è che l’opera di Caligari poco abbia da spartire con i consueti meccanismi di finzione scenica. Il merito è da attribuire a un lavoro registico che opera per sottrazione, rinunciando al commento didascalico dell’immagine. Per una volta, il cinema non lavora di fantasia ma, piuttosto, rinuncia ai suoi artifici per accogliere storie che non si ha voglia di ricordare. In un testo (“In exitu”) che è possibile accostare, per infiniti motivi, a Caligari, Giovanni Testori scriveva, in morte del protagonista, un giovane tossicodipendente milanese:

“Quanti, l’indomani, s’affrettaron per primi ai treni, lo videro. Coperta d’un lenzuol bianco, la barella, su cui era stato deposto, attraversò, infatti, l’intera stazione. Alcuni chiesero e seppero. Altri andaron oltre. Tutti, però, al passaggio, scorsero una sorta di luce che, lentissimamente, andava formandosi sopra il cadavere e pareva vincere il grigior delle volte, il buio di ciò che, di là da esse, risultava improprio definir alba, benchè neppur possibile fosse ritener notte.”

Caligari, con il suo cinema essenziale e appassionato, non ha avuto fretta di distogliere lo sguardo. Paziente e discreto come i migliori maestri, ha testimoniato in favore della natura complessa della notte. Con buona pace di quel manicheismo crudele e ottuso che la immagina, sdegnosamente, separata dal giorno.