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sabato, Aprile 20, 2024
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X MEDIA: Sulla trilogia “tossica” di Claudio Caligari

ALESSIO DEGIORGIS | L’invidiabile privilegio dell’immagine cinematografica di attraversare confini, non solo geografici, è stata la fortuna di molti cineasti. Non certo per vezzo o perché intenti a costruire poetiche sofisticate, alcuni registi, al contrario, scelgono di chiudere la rappresentazione entro contorni ben definiti. Il gioco della finzione va interrotto perché, a volte, ciò che si racconta non può essere trasfigurato con troppa leggerezza. Il cinema di Claudio Caligari è un esempio di questa rara sensibilità. Impone, con rigore calvinista, un confine invalicabile. Oltre il lungomare di Ostia non è possibile andare, alle spalle le disordinate periferie romane, al di là il moto ondoso che simboleggia alternative che la vita scoraggia.

“A Cè, nun lo guardà er mare che te vengono i pensieri!”. Dicono a Cesare, protagonista di “Non essere cattivo” (2015), ultimo capitolo della trilogia tormentata iniziata con “Amore tossico” (1983) e proseguita con “L’odore della notte” (1998). Il tormento non va confuso, in questo caso, per posa scapigliata. C’è la fatica del regista di veder riconosciuto il proprio lavoro intellettuale, così distante dalla piccineria e dall’alterigia dell’intellighenzia italiana. Lo stesso disgusto che ispira Pasolini nel suggerire a Orson Welles quelle malevole parole sulla stupidità compiaciuta dell’intellettuale medio (“La ricotta”). Come il Pasolini neorealista, del quale è il depositario più credibile, Caligari ricompone, scontrandosi con innumerevoli difficoltà produttive, uno sguardo su coloro che l’intellettuale mediocre è capace di raccontare solo con ostile indifferenza, maledetti da “marchio speciale di speciale disperazione”.Immagine_di_%22Non_essere_cattivo%22

Cesare, appunto. Che è, in verità, moltitudine anonima, impegnata in una flânerie autodistruttiva. I teatri fatiscenti dove si svolge la scena sono quelle periferie urbane che si è scelto di dimenticare o indicare, con solerzia pretesca, come Sodoma e Gomorra dalle quali stare alla larga. La paziente intelligenza di Caligari sta tutta nel rifiuto di credere che la desolazione di certi paesaggi debba corrispondere a uno sguardo giudice verso chi entro quei recinti si è trovato ad abitare. La discrezione dell’io regista è indizio di un’attenzione critica che si accompagna a una sottile maieutica, capace di lasciare spazio a un linguaggio viscerale che non scade mai nel patetismo. Nulla è concesso a quella retorica che imperversa nel biografismo dei cosiddetti film “sulla droga” (“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” o “The basketball diaries” per fare degli esempi). Così come sono distanti i virtuosismi di pellicole acclamate come “Trainspotting” o “Requiem for a dream”, che si risolvono in soluzioni accattivanti e strizzatine d’occhio a consolidati cliché.

Si diceva del mare di Ostia e della sua natura paradossale di argine. Di fronte ad esso, un desiderio di vita, oscuro e confuso, che fatica a trovare pieno riconoscimento nel quotidiano, tanto più quando si è costretti a inseguire. Cesare (quello di “Amore tossico” come quello di “Non essere cattivo” e come tutti coloro che una pellicola non può contenere) è un milite ignoto del quale un po’ ci si vergogna e il cui destino si rifiuta di includere in una storia collettiva di cui volentieri si tace. Non ci è dato sapere con quanta consapevolezza vada incontro alla morte, possiamo solo intuire quanto questa lo colga impreparato e disarmato.

La percezione complessiva è che l’opera di Caligari poco abbia da spartire con i consueti meccanismi di finzione scenica. Il merito è da attribuire a un lavoro registico che opera per sottrazione, rinunciando al commento didascalico dell’immagine. Per una volta, il cinema non lavora di fantasia ma, piuttosto, rinuncia ai suoi artifici per accogliere storie che non si ha voglia di ricordare. In un testo (“In exitu”) che è possibile accostare, per infiniti motivi, a Caligari, Giovanni Testori scriveva, in morte del protagonista, un giovane tossicodipendente milanese:

“Quanti, l’indomani, s’affrettaron per primi ai treni, lo videro. Coperta d’un lenzuol bianco, la barella, su cui era stato deposto, attraversò, infatti, l’intera stazione. Alcuni chiesero e seppero. Altri andaron oltre. Tutti, però, al passaggio, scorsero una sorta di luce che, lentissimamente, andava formandosi sopra il cadavere e pareva vincere il grigior delle volte, il buio di ciò che, di là da esse, risultava improprio definir alba, benchè neppur possibile fosse ritener notte.”

Caligari, con il suo cinema essenziale e appassionato, non ha avuto fretta di distogliere lo sguardo. Paziente e discreto come i migliori maestri, ha testimoniato in favore della natura complessa della notte. Con buona pace di quel manicheismo crudele e ottuso che la immagina, sdegnosamente, separata dal giorno.

Il labirinto di incomprensione per geni e ritardati di Lello Serao

Il labirinto 2
Credito: Giuliano Longone

BENEDETTA BARTOLINI | Il genio e il ritardato mentale, due intelligenze diverse. L’una si esprime per eccesso, attraverso l’ingegno, il talento naturale, la cultura; l’altra ha il difetto opposto di non arrivare ad esprimersi affatto. Due estremi, ma che nel loro adattarsi alla società incontrano gli stessi ostacoli e le stesse discriminazioni.

In Charlie Gordon le troviamo entrambe, dapprima la disabilità mentale congenita e poi la genialità indotta da esperimenti scientifici di cui è la cavia. Charlie è il protagonista de Il labirinto, spettacolo diretto e interpretato da Lello Serao e con Alessia Sirano, andato in scena il 7 marzo per la rassegna di teatro in appartamento diretta da Manlio Santanelli, Il Teatro Cerca Casa. Attraverso il ripercorrere i vari avvenimenti susseguitisi nel corso della vita di Charlie, ci ritroviamo all’interno del suo labirinto di pensieri ed emozioni. Un labirinto anche di luoghi, poiché il salotto di casa Santanelli diventa sia la casa di Charlie che l’aereo su cui ha paura di volare, che il lettino del dottore dove lo porta la madre per farlo diventare una persona intelligente.

Lo spettacolo si costruisce in un ambiente essenziale (il labirinto del topo Algernon, una sedia e un tavolino pieno di libri), a riempire lo spazio è soprattutto l’interpretazione, che mette in luce pienamente tutte le sfumature di una pluralità di temi sempre attuali e spesso ignorati. Il regista Lello Serao, anche protagonista del racconto scenico, si fa interprete di ben due ruoli: quello di Charlie Gordon genio e quello di Charlie Gordon ritardato. Alessia Sirano lo accompagna ricoprendo con grazia e buona misura i diversi ruoli femminili. La storia, che a sua volta è ispirata al celebre romanzo Fiori per Algernon di Daniel Keyes, è ambientata alla fine degli anni ’50 in America, epoca in cui cominciava a divenire fondamentale l’immagine del benessere della perfetta famiglia americana. Ma in questo caso dietro l’immagine stereotipata della famiglia voluta da una madre violenta e insensibile, c’è Charlie, un ritardato mentale. Charlie non riesce a parlare e a scrivere correttamente, sta su una sedia a rotelle, si piscia addosso durante la visita del dottor Strauss, non è come gli altri. Ma Charlie è anche consapevole del fatto che questa sua diversità non è accettata da nessuno. Soprattutto da sua madre.

Tutto questo però ce lo racconta il Charlie genio, quello del dopo operazione dei professori Nemor e Strauss. È il Charlie un po’ claudicante, ma che riesce a citare interi versi di celebri poemi, ad avere una relazione d’amore con la sua insegnante Alice Kinnian e persino a battere il suo compagno genio, il topo Algernon, nella soluzione del labirinto. Charlie dovrebbe essere felice, ma di fatto non lo è. È diventato troppo intelligente, tanto da capire che la cultura dei professori che frequenta è una cultura accademica, sterile e ristretta. Intelligente tanto da capire che nemmeno la sua genialità è accettata dagli altri, che adesso lo additano come superbo e difficile da comprendere. Intelligente a tal punto da sapere che la sensibilità primordiale e animale di Algernon gli è molto più vicina di quella “umana” dei dottori Nemor e Strauss, che invece continuano a trattare le due cavie come meri mezzi per i loro successi scientifici. Charlie è passato dalla consapevolezza del non essere abbastanza, a quella dell’esser troppo. Grazie alla sua intelligenza riesce persino a comprendere gli errori degli esperimenti dei dottori, i cui effetti vedrà poi lucidamente e tragicamente manifestarsi prima su Algernon e poi su sé stesso.

La riscrittura di Giuliano Longone articola in modo complesso una storia dai vari spunti di riflessione, intersecando i diversi piani narrativi con la tecnica del flashback: dal problema dell’emarginazione dei diversi, a quello della barriera tra la comunicazione interiore ed esteriore, dal problema della genitorialità a quello dei limiti della cultura che si disumanizza nel proprio autocompiacimento. Ciò che in Charlie non cambia mai e che quindi accomuna i due tipi di intelligenza “fuori del normale”, è l’esser incompreso pur comprendendo e soprattutto sentendo il proprio disagio con gli altri. Poiché per comprendere non è sempre necessario un grande quoziente intellettivo, ma serve una sensibilità diversa che vada al di là del labirinto concettuale che ci viene imposto.

La regia di Serao, nell’essenzialità della scena, mette in rilievo proprio la forza dei pensieri e dell’umanità di Charlie nonostante tutto quello che subisce. Nell’interpretazione del testo e nella scelta dei movimenti scenici trova una chiave poetica per raccontare il disagio: la delicatezza è la cifra dello spettacolo, sia che esso debba trasmetterci l’entusiasmo nel citare libri di Charlie, che l’angoscia per la consapevolezza della sua tragica morte, percepiamo la costante umanità dei sentimenti. Il labirinto è uno spettacolo che ci fa sentire il dolore di un uomo che non vede accettata né la sua disabilità né la sua troppa abilità, il suo essere sempre sempre immeritatamente escluso.

Il labirinto
drammaturgia Giuliano Longone
con Lello Serao e Alessia Sirano
regia Lello Serao

 

L’altro Amleto di Animanera: un elegante classico contemporaneo

RENZO FRANCABANDERA | Da alcuni anni Animanera e Magdalena Barile hanno una partnership compagnia/drammaturga consolidata, sfociata in diverse messe in scena, delle quali la più intrigante è stata qualche anno fa la seconda parte del dittico sulla famiglia composto da Senza Famiglia (2010) e appunto Fine Famiglia (2012), impietoso affresco sulla famiglia contemporanea in disfacimento.
Il legame che quel lavoro ha con Un altro Amleto, ultima fatica dell’accopiata drammaturgico-attorale è in realtà molto netto. La Barile, come Aldo Cassano & C. , è interessata all’evoluzione dei legami nella società, che vive disinvoltamente una pansessualità diffusa e una liquidità delle relazioni ma solo dietro la maschera ipocrita della “pubblica virtù”. Emblematici, anche se a mio parere meno riusciti dal punto di vista scenico, diversi esiti intermedi su questo tema, compreso il più filosofico, ma non meno esplicito La moda e la morte, riscrittura di un’operetta morale leopardiana, proposto in prima nazionale all’Elfo Puccini in questa stessa stagione. Ma se lì il tema era la confusione che la società della massmedialità socializzata ha della Storia, qui il tema è torna ad essere quello dell’affetto ambiguo, della violenza intra moenia, e l’incapacità diremmo quasi generazionale di fare i conti con la famiglia, specie quando c’è di mezzo il ricatto economico.
Da questo punto di vista, quindi, il nesso con il dittico della Famiglia si può dire trovi qui sviluppo concettuale non sappiamo se definitivo (magari potrebbe anche esser bene se in qualche modo lo fosse) ma certamente rotondo, di grande ricchezza scenica, capace di rinnovare il classico senza violentarlo e di raccontarne una attualità diversa, particolare, vera.

©ValeriaPalermoUNALTROAMLETO_ANIMANERA-IMG_79541.jpgQuesto Amleto brianzolo è l’unico erede di una ricca famiglia di industriali. Vive nel lusso e nel vizio che lo impippano caratterialmente, facendolo diventare un nevrotico indeciso. Lo sorprendiamo in aereo che quasi non sa dove andare e cosa fare. Risbucherà a casa di ritorno da (verosimilmente inutili ma socialmente indispensabili) studi all’estero postlaurea e pieno di livore per lo sviluppo delle sue vicende familiari, identiche a quelle del prototipo shakespeariano: un “carciofino sott’odio”, insomma, come la drammaturga in vena di allitterazioni lo va a definire. Ma tornato nella melliflua rotondità ovattata del mondo ricco (e sulla rotondità il lettore metta un asterisco, che richiameremo dopo), dove la madre quasi incestuosamente lo avvolge e lo zio gli si arrende offrendogli la giugulare, il ricco dandy, per giunta ben strusciato da una giovinetta di provincia, dedita e innamorata, inizia a beccheggiare fra odio e tenerezza.
Meglio che in tanti altri allestimenti, la cifra dark di Animanera riesce a calzare in modo particolarmente efficace la tragicommedia, e il merito, netto per chi vede l’opera, va all’incrocio creativo della regia di espressionismo contemporaneo di Cassano con la geometrica straordinaria lucidità della scenografia, frutto del grande talento di Valentina Tescari, una delle maggiori interpreti della creazione dello spazio teatrale in Italia.
Sono le sue idee a permettere in alcuni momenti a Cassano di liberare grandi slanci registici, visionari, come il tableau vivent che ripropone il celebre dipinto di David “Morte di Marat” in salsa shakespeariana.
Tanto più la parola si fa sconvenientemente tondeggiante, circondante (l’asterisco…), tanto più le creazioni della Tescari si fanno appuntite, geometriche, di un design spinto fino all’estremo, con sedie dalla seduta improbabile, vasche da bagno acute negli angoli, finestre che scendono dall’alto, elementi scenici bianchi che emergono dal buio che ammanta il grande vuoto scenico, da botole, fondali semoventi, quinte laterali, per irrompere nella scena con una potenza evocativa attorno alle quali l’attore non può che andare a segno. Foreste spigolose di alberi e baldacchino del letto che paiono uscire da musei d’arte contemporanea, la tavolata da pranzo con sedute scomode, aiutano a dare all’ambiente mentale di Animanera quel controcanto che spiega ancora una volta come il teatro sia un’arte complessa fatta di segni multipli (il foglio di sala ringrazia sullo specifico tema anche Francesco Aurilia, Tommaso Bigi e Martina Colli del corso di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Brera).
In questi quadri minimal, fatti di buio e spigolose sculture bianche, le sonorità di classici della cultura pop alternativa come Lullaby dei The Cure o Space Oddity di Bowie nella classicheggiante rilettura per archi del Vitamin String Quartet suonano grottesca irrisione di una contemporaneità edulcorata, mentre la Zuin-Gertrude si scoscia, Nicola Stravalaci – Claudio le allunga le mani pelose con gesti da cummenda sulla neve, Amleto – Federico Manfredi quasi guardoneggia arruffandosi i capelli sconvolti, mentre Ofelia – Emilia Scarpati Fanetti appare e scompare fra mezze tenere nudità ed inconsistenze paranoiche.
Vedere questo spettacolo, che ha i crismi del grande allestimento (povero ma intelligente), sul palcoscenico del CRT Milano che lo produce, e sentire l’intimo piacere della caustica riscrittura, della fantastica orchestrazione scenografica, del bel dialogo fra questa e la regia, finalmente misurata e non indulgente verso un’attoralità che avrebbe potuto sbavare diventando solo maschera  e invece no, ci convince di trovarci di fronte ad una prova di maturità collettiva che non sfigurerebbe su alcun palcoscenico dei grandi teatri nazionali al posto di quelle trombonesche riletture del Bardo che ancora si vedono in giro, ad uso e consumo della naftalina domenicale degli abbonati ottuagenari (ammesso e non concesso che le leggi, le burocrazie, i FUS, i TRIC e i TRAC ancora permettano ad uno spettacolo, in Italia, di circuitare).
Poi per carità, avrà pure qualche difetto qui e lì, ma anche Venere era strabica. Qui forse non c’è proprio Venere, ma avessi un teatro lo programmerei, per giunta nella stagione dei classici.

UN ALTRO AMLETO
Regia Aldo Cassano
Con Federico Manfredi, Emilia Scarpati Fanetti, Nicola Stravalaci, Debora Zuin
Assistenti regia Natascia Curci, Antonio Spitaleri
Suoni Antonio Spitaleri
Costumi Lucia Lapolla
Luci Giuseppe Sordi
Scene Valentina Tescari

Un progetto di Animanera
Con il contributo di NEXT Laboratorio delle idee per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo – REGIONE LOMBARDIA e FONDAZIONE CARIPLO
Produzione CRT Milano

Cercasi Pasquale disperatamente: la Fame di Abbiati e Capuano

VALENTINA SORTE |  Prima di rispondere alla domanda – “ma alla fine chi è Pasquale?” – che probabilmente si saranno già fatti tutti, prima-o-dopo lo spettacolo, magari prima-e-dopo, sarebbe utile fare qualche passo indietro e capire chi sono i due personaggi che con fare funambolesco attraversano e abitano la scena in “Fame” (originariamente “Fame. Ma chi è Pasquale?”), quinto appuntamento di Tagadà, la rassegna itinerante organizzata da Ilinxarium nei comuni di Cassano d’Adda, Inzago, Treviglio, Vaprio d’Adda, Fare Gera d’Adda e Lurano.

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Roberto Abbiati, Leonardo Capuano in “Fame”

Anagraficamente le due figure che ora tengono, ora lasciano le redini della vicenda, se così si può definire, sono Roberto Abbiati e Leonardo Capuano. L’uno ha una fisicità e una comicità, sottili e stralunate. L’altro atletiche e mordaci. Si calano nelle vesti di due attori che reduci dal loro precedente lavoro – ovvero “Pasticcieri” – sono alle prese, non senza qualche difficoltà, col “Servitore di due padroni”. Apre infatti lo spettacolo, lo accompagna e lo chiude la rottura con la quarta parete: Abbiati e Capuano srotolano e alternano gag assurde ed estemporanee alla commedia goldoniana, interrompendo-e-riprendendo lo svolgimento del plot, accelerando-e-rallentando in una grande (ma millimetrica) confusione la narrazione della vicenda.
Ma più che una decostruzione del “Servitore di due padroni”, alla Latella o alla Derrida per intenderci, “Fame” è una libera e originale riscrittura della figura di Arlecchino e del suo fantomatico doppio goldoniano, Pasquale. Seppure in alcuni punti dello spettacolo ci siano dei riferimenti espliciti alla vicenda originale e ai suoi personaggi più noti – Federigo Rasponi, Beatrice, Silvio – la scrittura scenica è a maglie larghe, larghissime. Si tratta di un canovaccio (post)post-moderno in cui, tra doppi e doppioni e dell’attore e del personaggio, si finisce col perdersi. Il risultato è proprio quello di seguire uno dei due filoni (i due attori che mettono in scena la commedia e che sragionano) credendolo il muro portante, per poi ritrovarsi tutto d’un tratto nel secondo filone (quello del Servitore) e scoprire che è questo a organizzare la struttura del primo. E viceversa. Il lavoro procede per disattese e finte agnizioni (drammaturgiche).
L’oggetto scenico che meglio condensa questa “modalità” narrativa è forse la giacca che indossano Abbiati e Capuano. Una giacca bislunga che in realtà ne comprende due, una all’estremità destra e una all’estremità sinistra, e che permette ai due attori/personaggi di arrotolarsi e srotolarsi a tutti gli effetti nelle due storie, nei due filoni. Da questa prendono vita i due Arlecchini, l’omonimo antieroe-e-il-suo-alterego-Pasquale, l’Arlecchino-della-commedia-dell’arte e l’Arlecchino-funambolo-che-abita-oggi-la-scena-contemporanea. Non stupisce allora che il palcoscenico di “Fame”, già affollato di oggetti di scena, si riempia di altri doppi o intrusi: da Anna Karenina a Konstantin Stanislavskj, quest’ultimo chiamato dal fondo di un secchio.
Il duo funziona molto bene e regala delle sequenze surreali e gradevolissime. Oltre alla già citata scena del secchio che mette in comunicazione il “mondo di sopra” e il “mondo di sotto”, anche lo scambio di lettere con Pasquale rappresenta un momento forte di tutto lo spettacolo, e la scelta di ripetere più volte la scena oltre ad esaltare la performance attoriale dei due, diventa chiave di lettura dell’opera . Allo stesso modo è sorprendente la capacità di trasformare semplici oggetti di servizio, in pure invenzioni drammatiche, come quando l’aspirapolvere si trasforma nell’abitacolo di un’autovettura o le pinze del tostapane diventano d’un tratto uno strumento di tortura, o la struttura metallica di un ombrello si fa canna da pesca. Tutto “sta a” qualcos’altro.

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Roberto Abbiati, Leonardo Capuano in “Fame”

 

Forse però gli stessi oggetti o maschere che da una parte sono capaci di creare piccoli quadri autonomi, dall’altra rischiano di saturare lo spettacolo e farlo scappare, soprattutto nella prima parte (la più debole). Sicuramente c’è ancora un largo margine di miglioramento in questa operazione di compressione e riduzione, utili a dare un ritmo più univoco e incisivo a tutto il lavoro. Resta il fatto che “Fame” è già capace di interpretare e muoversi in modo innovativo, poco scontato in questo nuovo sguardo verso la commedia dell’arte.

Fame | Abbiati/Capuano
di e con Roberto Abbiati e Leonardo Capuano
assistenza alla regia Lucia Baldini
Produzione Teatro de gli Incamminati e Armunia
Costumi Patrizia Cangiati
Scenografia realizzate nei laboratori di Armunia
Visto al T.N.T. Teatro Nuovo Treviglio

all’interno di Tagadà 2016, rassegna teatrale Adda e Martesana (Ilinxarium)

“Reality”, lo spettacolo della realtà di Deflorian/Tagliarini

Reality @ Silvia Gelli
Reality @ Silvia Gelli

MATTEO BRIGHENTI | A teatro anche la matematica è un’opinione. Janina Turek, una casalinga di Cracovia, dal 1943, quando i tedeschi arrestano suo marito e lei è al quinto mese della loro prima figlia, al 2000, quando muore d’infarto a 79 anni, ha annotato senza interruzioni tutti i suoi fatti personali. 748 quaderni per una vita di colazioni, pranzi, cene, visite, incontri, persone, regali, programmi televisivi, film, senza opinioni soggettive né facendosi influenzare dalla Storia che le passava accanto. Reality di e con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini rende quella realtà un racconto da mera contabilità che è, perché le dà un punto di vista e un pubblico. L’inchiostro blu scuro e la grafia sempre uguale di Janina nello specchio della scena assumono le sfumature dei successi e degli ironici fallimenti dell’interpretazione di Deflorian e Tagliarini, intendendo qui sia il tentativo di risalire al senso dei quaderni che il modo con cui interpretano la sua parte.
Ispirato da un reportage di Mariusz Szczygieł, Reality nasce nel 2012 all’interno del Progetto omonimo di cui fa parte anche l’installazione/performance czeczy/cose del 2011. Per questo lavoro Daria Deflorian ha vinto il Premio Ubu 2012 come miglior attrice protagonista. Un teatro di narrazione sugli oggetti di una vita e sulla vita di questi oggetti in cui lo spettacolo si fa nel discutere su come farlo: parlare su un palcoscenico è già di per sé agire. Un dispositivo narrativo centrato sul presente, sul qui e ora, sulla contestualità delle esperienze, che ritorna anche nel successivo Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni del 2013 sui sucid(at)i della crisi economica, Premio Ubu 2014 come miglior novità drammmaturgica.
All’ingresso in sala il palcoscenico è completamente illuminato. Daria Deflorian e Antonio Tagliarini sono seduti su una fila di sedie a sinistra. Ci guardano, si guardano e si parlano all’orecchio come facciamo noi con i nostri vicini di posto. Accanto a loro un tavolino basso con tazze e piattini, un tavolo con un vaso di fiori, dei piatti e una mela. Una coperta, una borsa, una busta, uno zerbino e una cassetta per la scopa sono le altre cose che compongono una scenografia altrimenti scarna come i fatti registrati da Janina Turek. La fa da padrone il palco nella sua nuda solennità, punteggiata da 7 piantane che accendono tutte le strade e i modi possibili per ricostruire le settimane della casalinga grafomane.

Foto di Elisabeth Carrechio
Foto di Elisabeth Carrechio

Non c’è il sipario, non c’è per gli attori il momento dell’entrata nel personaggio né per gli spettatori quello del loro ingresso in scena, c’è soltanto la luce in platea che cala fino al buio. È il segnale che l’attenzione deve focalizzarsi lassù, dove accade Reality, mentre noi lo vediamo accadere da quaggiù. Ma, a pensarci bene, anche Deflorian e Tagliarini assistono alla messinscena dello spettacolo, la guardano succedere come ha fatto Janina Turek con la sua vita, dal momento che scriveva sempre in terza persona. La metateatralità è allora uno strumento per farci sentire tutti attori e allo stesso tempo spettatori, per immedesimarci non solo in Janina, ma soprattutto nell’azione di vivere e guardarsi vivere, ripetutamente, per 57 anni.
Si comincia con l’immaginare il giorno della sua morte, ricostruito con una busta per una finta spesa e una coperta a nascondere un cadavere inesistente, per poi passare a quando Janina avrebbe deciso di tenere un diario, nella finzione teatrale sullo zerbino di casa con la borsa in mano. Ogni oggetto è legato a un evento, ogni evento è un frammento di vita da ricordare o inventare, come in Roberta cade in trappola, l’ultimo esito di Cuocolo/Bosetti. La tazza di caffè è una tazza di caffè, ma è anche la mattina in cui Janina l’ha lanciata contro il muro: Deflorian non la lancia, finge di farlo, mentre Tagliarini va a prendere dei cocci, li butta per terra e poi li raccoglie con la cassetta. Un’azione che non si vede eppure c’è, non esiste eppure colma i vuoti delle annotazioni di Janina Turek: questo è il teatro di Reality.
“Vedi – dice Daria Deflorian – uno legge le registrazioni, ma pensa immediatamente al buco”. E Antonio Tagliarini domanda: “Cos’è un buco? È il vuoto? Quella parte scura che non si vede? O è tutto quello che c’è intorno che crea un buco?” Janina scriveva di sé e per sé, nessuno sapeva dei diari (proprio la prima figlia, Ewa, li ha scoperti per caso aprendo un armadio dopo la morte della madre), né tantomeno delle cartoline, mai spedite, a cui rivelava i segreti più reconditi del suo animo: “Vivo o fingo di vivere? Tutti questi appunti, queste statistiche non sono un modo per ingannarmi? Se smettessi di scrivere dovrei ritornare a me stessa”.
La realtà è il mondo che esiste nei nostri occhi. Reality è il mondo di ciò che non siamo, ritagli di possibilità nella ripetizione sempre uguale dei giorni.

Reality
a partire dal reportage di Mariusz Szczygieł “Reality”
ideazione e performance Daria Deflorian, Antonio Tagliarini
disegno luci Gianni Staropoli
consulenza per la lingua polacca Stefano Deflorian, Marzena Borejczuk, Agnieszka Kurzeya
collaborazione al progetto Marzena Borejczuk
organizzazione Anna Pozzali
comunicazione PAV
promozione e distribuzione internazionale Francesca Corona
produzione A.D., Festival Inequilibrio/Armunia, ZTL-Pro
con il contributo della Provincia di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali
in collaborazione con Fondazione Romaeuropa e Teatro di Roma

Visto giovedì 10 marzo al Teatro Cantiere Florida, Firenze, all’interno della rassegna ‘Materia Prima’.

Testori oggi e l’Edipus di Muscato: attori amati e mobilieri agiati

RENZO FRANCABANDERA ed ELENA SCOLARI | RF:  Di cosa parla al nostro tempo Testori? Da diversi anni sono assai numerosi gli allestimenti sia con produzioni importanti sia  nella teatralità diffusa, quella che con gergo anni 70 definiremmo off, che ritornano su questo maiuscolo scrittore, prima ancora che drammaturgo. La figura di Testori, infatti, spogliata dell’infarcitura di carattere politico-concettuale,  focalizzata in questo ritorno di interesse sulla poetica delle sue opere, si staglia con una rotondità che si fa sempre più nazionale, e che, tutt’al più, soffre di quella sindrome per la quale il teatro dialettale o in lingua del territorio, è quasi ad esclusivo appannaggio dell’idioma meridionale. È una forma di razzismo al contrario quasi, in base al quale pare che il  dialetto del Nord Italia non appartenga in alcun modo al patrimonio identitario condiviso al di sotto del Po. Ed è una grandissima lacuna, perché la scrittura di Testori è intimamente, profondamente, concettualmente  meridionale, per la sua capacità di descrivere minuziosamente, ossessivamente, in modo pirandelliano o eduardiano le persone, inteso  questo termine sia in senso psicologico sia in senso etimologico come maschera. Ecco perché la regia di Muscato dell’Edipus di Testori è cosa sulla quale vale la pena spendere qualche parola, proprio perché abbatte le barriere macro regionali per focalizzarsi su questi aspetti della scrittura del poeta.

b49b80_3b58f6502e4e46e98667b1d642e2b5ebES: Non suoni retorico ma per chi vive il teatro e di teatro con amore questo spettacolo è un’affettuosa e malinconica carezza, piena di bravura e di sincero sacrificio. L’Edipus di Testori è un dipinto carnale e insieme lirico di un’arte viva e fragile (come è scritto sul trono del protagonista) quanto vivi e fragili sono gli uomini e le donne che lo abitano.
Edipus è un pezzo della Trilogia degli Scarrozzanti insieme a Ambleto e Macbetto, opere della seconda metà degli anni ’70, ma nonostante la quarantina abbondante risuona ancora di un adamantino tintinnìo, attualissimo per la forza, lucido per la durezza e poetico per la trasparenza.

RF: Andato in scena al Filodrammatici di Milano con la sontuosa interpretazione di Eugenio Allegri, questo ripensamento dell’opera testoriana è finzione teatrale e dramma, eterno camerino, spogliatoio a vista e proscenio della vicenda umana.

ES: Eugenio Allegri è l’attore che si ritrova solo, abbandonato dai colleghi di compagnia, chi per finire a fare l’esecrato ma più redditizio cabaret, chi per sposare un benestante mobiliere di Meda. Il capocomico reciterà quindi tutti i ruoli della tragedia, in scena un guardaroba con i costumi di tutti i personaggi, vestiti e svestiti da Allegri con zelo e un po’ di trascinata stanchezza. La sua è interpretazione consapevole, è il lavoro di un attore che può permettersi di assumere anche un’aria un dimessa, all’occorrenza, perfetta per la figura di un fac-totum del palco, che sta lavorando umilmente nella sua carrellata tra Laio, Giocasta, Edipo… Di rado è tanto evidente quanto la scena sia casa, per l’attore, Allegri ci si muove proprio come tra cose sue.

RF: La recitazione che ibrida naturalismo e antinaturalismo, che si fa tragedia ed irrisione di se stessa, che costringe l’interprete e gli spettatori ad entrare ed uscire dai personaggi, sviluppa una ricchezza che richiama il testo e ricama attorno al testo con un approccio umile e proprio per questo sincero, profondo.  La luce è bluastra, il palcoscenico diviso in due, con la parte posteriore che ospita un camerino e i vestiti, la parte anteriore il trono di Edipo e il letto. Pochi elementi  varcano la soglia della tenda per diventare protagonisti del recitato, insieme all’attore che li muove. Tutto il resto è parola, affidata alla recitazione.

ES: La lingua di Testori è sempre eccezionale per coraggio e capacità di spiattellare anche le brutture, le volgarità, le numerose scene scabrose (e nella storia di Edipo le zozzerie – incestuose e non – non mancano) con un tormento ironico. Non trascura lo sporco della vita, anzi ci sguazza, con un atteggiamento mai ritroso e che colpisce, ancora oggi. Proprio per il misto di latinismi e di dialetto brianzolo italianizzato (i magiostri per magiuster, le fragole, per es.) si crea un effetto di contrasto, anche lacerante.

RF:  sono piccoli gioielli che purtroppo vengono regalati a chi può raccoglierli; ma anche chi non nasce in questa terra può godere di una ricchezza semantica che si sviluppa su talmente tanti piani che è  incredibile che Testori non venga programmato con maggior frequenza nel centro sud Italia. Perché è un peccato che un pubblico che ama così profondamente il teatro come quello  di Napoli, Bari, Firenze, non possa godere di messe in scena e testi di questo grandissimo autore. Anche perché, Testori è una narratore autentico del post post decadentismo, di una società diventata  disumana prima ancora che ultra umana. E il duo Muscato-Allegri rende con grande lucidità questa condizione miserabile.

ES: Allegri si traveste con costumi un po’ smandrappati, parrucche vistose, pellicciacce, è un Laio pontifex che ha la decapitazione facile e giustizia uno dopo l’altro tre imputati sorpresi in pubblico durante vari atti di fellatio omo o di pisciate in Chiesa; è una Giocasta che scopre le gioie erotiche attraverso gli amplessi incestuosi compiuti col figlio; è un Edipo furioso coi suoi genitori. E ne ha ben donde.

RF:  Si tratta di una figura che incarna perfettamente la visione dell’autore sull’umanità, ma questo spettacolo raccoglie anche un altro punto, un’altra questione: interpreta cioè l’idea capocomicale che Testori, pur nel volerlo rivoluzionare nei modi e nella lingua, ha dell’ interprete e del teatro.

ES: Il Capocomico è un uomo che vive sulla scena, tra le quinte, sulle assi del palco e tra gli arredi del teatro, l’attore moltiplica le sue vite un po’ per disciplina un po’ per necessità. Ontologica. E resisterà. Come il teatro. Infino alla fine delle finis.

Kvetch di Barbaros e Società per Attori: la frammentarietà dell’Io secondo Berkoff

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EDOARDO BORZI | Gelida come i fari freddi che la tengono in ibernazione, rigida nel suo spazio scenico a pianta centrale come i fili che pendono dalla tenda-effetto parete, la sala del teatro CometaOff in Testaccio accoglie sullo sfondo una scritta proiettata “-to Kvetch è un verbo inglese, derivato dallo yiddish kvetshn. Significa lamentarsi, piagnucolare, spesso senza un motivo apparente.”. Una produzione Barbaros in collaborazione con Società per Attori, Kvetch, commedia scritta e diretta per la prima volta nel 1986 presso l’Odissey Theatre dall’artista Steven Berkoff, si impone subito all’attenzione del grande pubblico grazie a un plot ammantato da un realismo magico che realizza un’operazione di destrutturazione della forma mentis rivelando una tensione critica verso l’inettitudine di una generazione alienata: paure, paranoie e strani stati di agitazione sono al centro dell’analisi delle dinamiche psicologiche e delle profonde problematiche relazionali insite nella dialettica sociale.

Un tavolo e cinque sedie intorno, una dispensa sul lato sinistro e in fondo un carrello con un nintendo – segno materiale che ritornerà più volte – bastano per dare all’habitat teatrale le fattezze di una dimora domestica. Qui la commedia prende vita: Donna al capo del tavolo si scioglie in una valanga di fonemi, lei casalinga terribilmente angustiata si dispera per ciò che ne sarà della cena in attesa che torni dal lavoro suo marito. Frank, rappresentante di tessuti, in scena ci entra canticchiante e in apparenza felice dopo una giornata intensa di lavoro. In realtà distrutto e incatenato dalla monotonia abitudinaria della sua esistenza, come un cane al suo vomito, dà ben presto in escandescenze per quel pasto frugale, per quel suo malessere così viscerale. Una serata- e una vita- tanto orrida da doverla condividere con qualcun altro per smorzarne quanto meno una parte del peso oberante. Così tra ritrosie ascose e dissensi esplicitati soltanto agli orecchi del pubblico, ecco presentarsi l’occasione per una cena in famiglia al lume della Menorah: sia dunque su Hal, collega di Frank, da poco divorziato, che ricada la scelta di essere partecipe di questo micro-universo in rivoluzione. A slegare i ranghi familiari – e a liberare gas micidiali – ci pensa a fasi alterne la suocera di Frank, che lui stesso definisce “vecchia maiala”, emblema di una senilità conscia e rassegnata della propria condizione caduca e precaria.
Dunque non solo dialoghi serrati tra i personaggi impregnano l’aria mistica della pièce ma soprattutto i rivoli tragicomici generati dalle eruzioni di coscienza di tutte le dramatis personae, abili nel plasmarsi secondo continui quanto repentini mutamenti di partiture fisiche e linguistiche. Il drammaturgo londinese riesce così a ricreare la dimensione conflittuale della ragione umana dando respiro e azione alle parti più recondite del proprio Io. La coscienza prende voce ed impera sulla scena; non più tacitata nel silenzio cerebrale ma resa viva ed autonoma di liberarsi dalla matrice umana nella finzione drammatica che la rende manifesta mediante una commistione di voci interne ed esterne così elaborate ed accurate da divenire reali.
Fungendo da collante tra un atto e l’altro, il proiettore didascalico si riaccende mostrando sul fondale le immagini pubblicitarie della Nintendo su una tv nazionale americana. Sono gli anni delle prime console e dell’avvento di Super Mario, e, ieri come oggi, la tentazione poi divenuta vera e propria dipendenza dei videogiochi faceva man bassa non solo tra i giovani ma anche tra i più attempati. Questa sarà la chiave di volta con cui si apre il secondo atto: due fari si illuminano, in un gioco di luci congegnato da Marco D’Amelio, su Donna e Frank agli estremi laterali del proscenio come fossero ormai vecchi amanti sul letto distanti in attesa di simulare l’atto sessuale mistificando l’avvenuto distacco spirituale.

“Frank, mi dai un bacio?” chiede Donna sicché quasi senza accorgersene ci si ritrova accompagnati dai suoni- pressoché assenti durante la commedia- digitali del videogioco nei meandri fantastici dell’inconscio di Frank in abiti da Super Mario che vede nella Principessa Peach la proiezione della propria pulsione erotica, se non fosse che a vestire i panni della damigella in rosa non è più Donna ma proprio lo stesso Hal, ben lieto di verificare la fantasia omosessuale del collega.

Il ritmo incalzante e frenetico è imperniato sulle forme vertiginose della drammaturgia, un metronomo impeccabile in grado di scandire i tempi della messa in scena. Come un rilevatore sismico il pubblico oscilla a causa di picchi di trivialità comica attenuati dalla retorica drammatica che diviene sempre più opprimente cosicché la vitalità dei primi atti ben presto però lascia spazio ad una lenta e inesorabile acquiescenza ai meccanismi della commedia. In questo senso sembrerebbe che la condotta registica di Giacomo Bisordi funzioni fino ad un certo punto del plot per poi cadere nella risacca stilistica che travolge la costruzione lineare e pedante della parte centrale dello spettacolo fino a farla affogare.
Un’altra proiezione, stavolta in split screen dove gli attori rilanciano le proprie psicosi, si fa trait d’union segnando l’inizio del nuovo atto. Qui si svolge l’incontro tra Frank e George, squallido squalo dell’alta finanza: i due mossi da reciproco disprezzo sviluppano l’alterco nelle loro elucubrazioni intimistiche. Non c’è possibilità per Frank, di liberarsi dai doveri del lavoro, schiavo dello Stato e delle banche, costretto a rintanarsi in una sordida prigione dove regnano l’antinomia e l’alienazione.

C’è ancora il tempo per una cena romantica – quanto mai scolastica- tra George, terrorizzato dall’incubo dell’impotenza, e Donna, desiderosa di essere amata nuovamente nonostante il suo handicap fisico. Sotto questa luce adulterina la pièce si incammina verso la conclusione segnando il definitivo distacco tra i due vecchi coniugi in favore di nuove conciliazioni sentimentali. Il lavoro degli attori di personificazione è autentico e genuino, se non addirittura la conditio sine qua non del lavoro di tutta la messa in scena. Va dato merito in particolare a Daniele Biagini (Frank), capocomico di indiscusso valore, di aver sguainato dal fodero sì tanto talento da assestare con una giusta e ben calibrata metodica colpi diritti al cuore della platea riuscendo a tenere alto il tasso di qualità artistica laddove l’apporto degli altri teatranti sembra essere meno incisivo. Ora Frank, non più un Kvetch, è pronto a vivere in una nuova dimensione di cattività: accende il Nintendo e si fionda nella finzione eroica di un Super uomo, anzi di un Super Mario.

Kvetch di Steven Berkoff

con Alessandro Averone (George), Daniele Biagini (Frank), Vincenzo Giordano (Hal), Cristina Poccardi (Donna) e la partecipazione straordinaria di Ludovica Modugno nel ruolo de la Suocera. Le scene sono di Paola Castrignanò, i costumi di Anna Missaglia, le luci di Marco D’Amelio.

regia Giacomo Bisordi

In scena fino al 13 Marzo presso il teatro CometaOff

Il respiro dell’aristocratico è il rantolo della libertà: la Morte di Danton e quel che ha da dirci oggi

ELENA SCOLARI | Niente è più affascinante di un rivoluzionario. E l’allure dei francesi, girondini, giacobini e sanculotti aggiunge charme ad uno dei periodi più determinanti per la Storia dell’occidente.
Morte di Danton di Georg Büchner è pubblicato nel 1835, rimarrà a lungo irrappresentato ma l’opera rifulge di fulgore ancora oggi. È un testo profondo, riflessivo, filosofico, scritto benissimo e nel quale batte un pensiero infinitamente intelligente non solo sui fatti della Rivoluzione ma sull’uomo, sulla morte, sulla morale, su Dio. thumb_56cd6cc93f3092bc308b4973_default_xxlargeE bene ha fatto Mario Martone a scegliere di metterlo in scena in questi anni di così scarsa abitudine all’analisi seria e approfondita di ciò che accade nel mondo.
Morte a chi sa leggere e scrivere!, si grida contro gli aristocratici. Non suona così anacronistico.

La lucidità delle parole pronunciate dai rivoluzionari (nella bella traduzione di Anita Raja) fa impallidire qualunque discorso politico odierno, Robespierre avrebbe convinto anche me, sì.
Se Robespierre fosse stato Paolo Pierobon: interprete eccellente, vigoroso, sicuro. Più di Giuseppe Battiston, stavolta, che seppur bravo, appare meno calzante e veste forse di troppa indolenza il suo Danton. Tra gli altri attori (in tutto 29!) citiamo Denis Fasolo, Massimiliano Speziani, Roberto De Francesco e Alfonso Santagata, seguaci di Danton, tutti di significativa intensità. Paolo Graziosi ha la bella parte dell’intellettuale inglese Thomas Paine che cita la tesi sull’esistenza di Dio rielaborata dall’Ethica more geometrico demonstrata di Spinoza. Peccato per un evidente incidente di memoria, poi recuperato.

L’impianto dello spettacolo è piuttosto imponente, il Teatro Stabile di Torino non ha badato a spese, a partire dal numero di interpreti, tutti con costumi curatissimi. Le scene sono ricche e ben ammobiliate, il Tribunale della Rivoluzione ricostruito con dovizia. Salottini lussuriosi, baldacchini vellutati, tavoli da gioco… Ma cosa ne è di questo esplicito dispiego di mezzi e persone? L’apparato non giustifica appieno il risultato. Soprattutto i 29 attori sono diretti in modo mai veramente corale, sono sottoutilizzati in un lavoro che dovrebbe, molto più visibilmente, rispecchiare il ruolo che le masse e la loro spinta – anche distruttrice –  ha avuto negli avvenimenti. Il furore del popolo che rischia di uccidere se stesso non si sente, se non nelle orazioni dei singoli. Sfugge allora il senso della trentina che non crea mai un insieme massiccio. Si arriva, per esempio, all’esecuzione finale di Danton con uno sparuto gruppetto di 5/6 sole attrici ad assistervi, come fosse stata un evento poco seguito dai citoyens. Parbleu!
Purtroppo la folla è principalmente presente nei suoni, un brusio prepotente dalle casse, che almeno in balconata, ha impedito di sentire la tirata di Danton al processo. In un’operazione di questo tipo ci sembra di poter dire che una maggior cura negli aspetti tecnici, quando si va in tournée in teatri che non sono il luogo di nascita dello spettacolo, sarebbe doverosa.

thumb_56cd6ceb3f3092ed188b48ec_default_xxlargeL’idea registica più bella è la moltiplicazione dei sipari, quattro diversi piani che aprono e chiudono le scene e separano tempi e luoghi in modo fisico e di grande effetto. Particolarmente riuscito è il momento dell’incubo di Danton che sogna il terribile Settembre 1793 nel quale appoggiò il massacro di 1.600 prigionieri realisti e clericali. Qui i sipari scendono uno dopo l’altro col suono secco della ghigliottina, in una sequenza che si abbatte crudelmente.
Iaia Forte è Julie, la moglie, che qui lo consola. Per quanto si possa fare date le patibolari circostanze.
Decisamente meno interessante è invece la ‘trovata’ di usare la platea come fosse il pubblico del Tribunale e l’aggirarsi di alcuni personaggi tra le file di spettatori, tentativo un po’ frusto di animare l’ambiente. Così come i popolani che recitano in napoletano risultano un cliché poco fantasioso, anche se tutti sono disinvolti nel loro dover apparire grossiers.

La Marsigliese? C’è, c’è. E viene accennata sommessamente, con toni niente affatto trionfali, a fondo scena, da un fronte di cittadini che cita esplicitamente il Quarto Stato. E quel canto timido, non conquistatore, allude forse all’altissimo costo pagato per la Libertà.
I ruoli femminili sono pochi e non centrali, per lo più giovinette libertine o colorite donne del popolo. Segnaliamo però Julie e Lucile, le mogli di Danton e Desmoulins, entrambe amorevoli e fiere, compagne coraggiose di uomini non comodi.

Un aspetto forte della bellezza di Danton personaggio è nel suo cupo desiderio di morte, per se stesso. Dopo aver fatto rotolare tante teste reali giunge ad un disgusto che prima si traduce in una posizione moderata che vorrebbe porre fine alla Rivoluzione e alla violenza, poi in una sconfitta disaffezione alla vita (…non caleranno mai il silenzio e il buio in modo da non sentire più e da non rivedere più le nostre ributtanti reciproche colpe?).
Ha combattuto, senza risparmiarsi, ma ora guarda al Nulla come l’unica tranquillità.
Robespierre/Pierobon è invece un grandioso giustiziere: il fuoco del Terrore, intransigente, incorruttibile e virtuoso, costantemente contrapposto all’antagonista Danton, licenzioso e più incline alla trattativa, che lo accusa di essere “di una rettitudine che fa indignare“. Robespierre dice “punire gli oppressori dell’umanità è clemenza, perdonarli è barbarie“. Capite che con un tipo così c’era poco da discutere. Vedrà la morte di Danton ma finirà sotto le mani del boia poco dopo di lui.

Lo spettacolo si chiude con la scena occupata solo da una ghigliottina che oscilla dall’alto, prima del buio e dell’ultimo sipario.
Un bel finale? Da scommetterci la testa.

 

di Georg Büchner
traduzione Anita Raja
regia e scene Mario Martone
con Giuseppe Battiston, Fausto Cabra, Giovanni Calcagno, Michelangelo Dalisi, Roberto De Francesco, Francesco Di Leva, Pietro Faiella, Denis Fasolo, Gianluigi Fogacci, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Ernesto Mahieux, Carmine Paternoster, Irene Petris, Paolo Pierobon, Mario Pirrello, Alfonso Santagata, Massimiliano Speziani, Luciana Zazzera, Roberto Zibetti, Matteo Baiardi, Vittorio Camarota, Christian Di Filippo, Claudia Gambino, Giusy Emanuela Iannone, Camilla Nigro, Gloria Restuccia, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper
registi collaboratori Alfonso Santagata e Paola Rota
scenografo collaboratore Gianni Murru
si ringrazia per la collaborazione Bruno De Franceschi
produzione Teatro Stabile di Torino -Teatro Nazionale
visto al Teatro Strehler di Milano

Chi ama brucia: il processo di reificazione degli individui e il tema dell’altro da sé

GIULIA TELLI e RENZO FRANCABANDERA | RF: Chi ama brucia. Discorsi al limite della Frontiera nasce dal desiderio di Alice Conti di dare corpo e rendere pubblico il materiale della ricerca da lei stessa condotta nel 2012 sul Centro di Identificazione ed Espulsione per stranieri di Torino. E’ un monologo in cui l’artista è in scena da sola, con una serie di oggetti scenici. Il lavoro, prodotto da Ortika, collettivo artistico estemporaneo nato nel 2011 dalla collaborazione tra la stessa Conti (qui ideatrice, regista e performer), Chiara Zingariello (scrittrice, antropologa e drammaturga), Alice Colla (disegnatrice luce), Eleonora Duse (costumista), Greta Canalis (artista e restauratrice di bambole) e Valeria Zecchinato (assistente di produzione). E’ stato di recente in scena al teatro della Contraddizione di Milano.

GT: All’ingresso, le maschere domandano a ciascun spettatore se ha con sè un documento di identità valido e, mentre ancora è intento a frugare nella borsa o in tasca per accertarsi di averlo, gli viene data in mano una pallina da tennis. E’ un simbolo per chi è recluso nei CIE: spesso è l’unico mezzo di comunicazione Ts_Chi ama brucia (4)possibile con l’esterno per chi è rinchiuso nel recinto della discriminazione.

Durante lo spettacolo, sarà chiesto agli spettatori di lanciare queste palline sul palco, in direzione della protagonista, che si riparerà dietro il pannello-grata mobile di metallo polifunzionale dotato di ruote (prima trasformato in scudo, poi in vassoio, e verso fine spettacolo in una sorta di “papa-mobile”) che funge da scenografia insieme a una scrivania posta in proscenio sulla quale ci sono una radiolina, un groviglio di lucine a forma di alberello natalizio, un mazzo di chiavi, dei fogli sparsi e una zuccheriera, usata qualche volta di troppo.
Sul pannello la piantina del Campo e dei suoi spazi nel quale – come afferma l’attrice e drammaturga del lavoro, insieme a Chiara Zingariello, Alice Conti – “le persone vi sono recluse non per qualcosa che hanno fatto, ma per qualcosa che sono”. Al C.I.E. – centro di identificazione ed espulsione per stranieri – “non c’è data di scadenza, imparate ad aspettare”.
In questa apparentemente semplice frase è enucleato tutto il senso del lavoro; il campo è un non luogo che tuttavia serve a creare una categoria di persone da identificare ed espellere: i clandestini.

RF: Dall’ingresso all’espulsione una sospensione del vivere che la Conti vuole trasmettere. La creazione, nel farsi racconto di questa esperienza contemporanea, è infatti un tentativo complesso e polisemico di narrazione civile.

GT: Lo spettacolo è tratto dalla tesi di laurea della giovane attrice e regista e nasce dal dovere di cui si è sentita investita: illuminare gli angoli oscuri della nostra contemporaneità dando corpo a un materiale che ha sentito l’esigenza di rendere pubblico. Il focus centrale della sua tesi è una raccolta di interviste fatte a diversi personaggi, realizzate nel corso della sua ricerca scientifica all’interno del C.I.E di Torino. Dall’insieme di queste interviste nasce un monologo a più voci dove la parola passa dalla Crocerossina, volontaria che percepisce lo stipendio e lavora nel Campo, alla Lady Garante, parodia di una carica realmente esistente di Garante dei reclusi nel centro e che tuttavia, secondo quanto verificato attraverso molte interviste, nel centro non avrebbe quasi mai messo piede.

RF: Dal punto di vista registico il lavoro si avvale di una sorta di occhio interno che è quello dell’artista stessa e dell’occhio esterno di Alice Colla, capace di creare moltissimi ambienti grazie alle sole luci: un risultato davvero notevole e che consente alla Conti di sviluppare una narrazione che comprende e annoda molti temi, da quello dei reclusi a quello degli operatori assunti a tempo determinato in questi centri, al coinvolgimento delle forze di polizia, fino ai rapporti con la politica e il territorio. Insomma veramente tantissimi spunti, forse anche troppi, se si considera che in un’oretta circa di spettacolo si arriva a due tre possibili finali, ciascuno dei quali avrebbe chiuso in modo dignitoso la creazione, che invece un po’ si allunga inglobando forse più di quanto metabolizza.

GT: Il risultato per questa ragione risulta un po’ frammentario e, se l’intento è quello di limitarsi a offrire una oggettività dei fatti senza vittimismo e indignazione, si può dire in parte riuscito, sebbene il rischio sia quello di restituire una verità che resta ben congegnata nelle intenzioni drammaturgiche ma non del tutto capace di prendere corpo sulla scena. Quel corpo che brucia non si vede forse perché non è così immediato riuscire a tradurre nel linguaggio scenico un trattato scientifico, uno studio antropologico senza restare imbrigliato in un’astrazione scenica.

RF: Mi pare una riflessione pertinente, che trova un suo equivalente anche nella parte recitata: momenti alti e ironia riuscita, come quella del playback sulla radio o parte del lavoro sul corpo, ed altri invece di maschera più didascalica e di movimento più scontato. Insomma un mix di buone idee e di cose che una regia esterna e meno “affezionata” al punto di partenza avrebbero potuto pulire con più facilità.

GT: Infatti. Quando l’urgenza di comunicare un’ingiustizia è così forte, così sentita e indubbiamente sviscerata e approfondita come in questo caso dall’attrice autrice, ci vorrebbe forse una regia esterna capace di estrarre da questa matassa palpitante una direzione più chiara, più incisiva e meno spezzata.
Se il ruolo della crocerossina è ben tratteggiato, quello della garante appare essere solo un abbozzo impreciso di un personaggio che ha la pretesa di essere allegorico, ma che finisce per avere troppa poca forza drammaturgica per essere legittimato a esistere sulla scena. La bravura dell’attrice tuttavia distrae dalle incongruenze e tiene viva l’attenzione dello spettatore.

RF: E qui mi fermerei. Con la semplice postilla che i dibattiti conoscitivi sul tema CIE, per carità, mai più senza, però diamo, a chi vuole, la libertà di poter andare senza dover sembrare “unpolite”. Insomma, direi che l’esperienza del confronto post spettacolo che il Teatro della Contraddizione (*si veda commento all’articolo) e l’artista hanno voluto in queste date come un tutt’uno con la replica sia preziosa, ma io di mio penso che occorra una cesura che permetta allo spettatore di adagiare l’occhio sull’arte senza dover per forza razionalizzare con la conoscenza. Insomma bisogna staccarsi un po’ dalle cose, anche da quelle a cui si tiene particolarmente.

GT: Annotiamo, in calce a questo resoconto il fatto che alla prima dello spettacolo, giovedì 3 marzo, la replica è stata preceduta dal toccante reading “Maria, rifugiata politica”, interpretato con sincera partecipazione dalla giornalista Livia Grossi, accompagnata alla chitarra elettrica da Andrea Labanca. La storia di Maria, nome di finzione per raccontare una storia vera, arriva dritta nello stomaco come un pugno che prima ti toglie il fiato e poi ti lascia lì, un po’ tramortito, confuso e incazzato. Un senso di impotenza pervade ad ascoltare la storia, una pedina senza nome gettata a caso sulla scacchiera del potere, dei suoi abusi e coercizioni. Un capitolo di una serie di letture ed incontri che Livia Grossi terrà anche in altri teatri di Milano, come il Franco Parenti a partire dal 24 marzo, e di cui parleremo prossimamente.

SEGNALIAMO SU PAC ANCHE QUESTA RIFLESSIONE DEL 2014 SULLO SPETTACOLO A CURA DI GIULIA MURONI

http://paneacquaculture.net/2014/10/11/chi-ama-brucia-ortika-al-sociale-di-gualtieri/

Chi ama brucia. Discorsi al limite della Frontiera

spettacolo del gruppo teatrale nomade ORTIKA / Alice Conti
ideazione e regia Alice Conti
testo Chiara Zingariello
luci, audio, scene Alice Colla
costumi Eleonora Duse
assistente di produzione Valeria Zecchinato
una produzione TrentoSpettacoli
con il sostegno di Ministero dei beni e delle attività culturali

Prometeo: il mio omaggio alla Grecia. Intervista a Pasquale Marrazzo

RENZO FRANCABANDERA | Pasquale Marrazzo, il 10 marzo (fino al 20) debutta al Litta “Prometeo incatenato” di cui è regista e produttore con NOI Cinematografica. Istintività e sensibilità soprattutto nella guida degli attori e nella costruzione delle immagini sceniche sono la cifra di un regista che si muove a suo agio fra cinema e palcoscenico.

Un percorso come regista di teatro iniziato qualche anno fa con “Non si sa come” di Pirandello, cui poi sono seguiti “La donna del soldato” di N. Jordan e “Veronica Voss” di Fassbinder; Prometeo nasce ora da un suo intimo bisogno di misurarsi con il mito classico e la tragedia, e di converso con la cultura greca per eccellenza, per parlare della libertà, tema che al centro anche del suo prossimo film.

unnamed-2.jpgQuesto allestimento vede in scena un gruppo di attori interessanti, composto da Riccardo Buffonini, Pietro Pignatelli, Michele Radice e Désirée Giorgetti con le scene di Giovanna Angeli, i  costumi di Lucia Lappola e le luci di Massimo Foletti. Come noto, il dramma eschileo mette in scena il titano Prometeo di fronte a diversi personaggi divini, senza mai presentare un suo confronto diretto con Zeus. Efesto, il Potere e la Forza lo hanno catturato e incatenato ad una rupe. Zeus lo punisce perché ha donato il fuoco agli uomini, ribellandosi al suo volere. Questo porterà ad una serie di conseguenze inevitabili nel momento in cui l’umano si contrappone al divino, in un dramma che sviluppa uno spazio emotivo di grande potenziale, che abbiamo voluto indagare con il regista.

Come è nata l’idea di questo lavoro e in che modo si è sviluppato il rapporto fra allestimento e mito?

L’idea parte da molto lontano, più o meno da quando ho iniziato a frequentare la Grecia, che coincideva con gli studi universitari in filosofia, dove ho tantissimi amici e ho imparato la lingua che mi ha permesso di leggere il Prometeo in lingua originale. Chiaramente in greco moderno. Quando penso agli elleni, non posso fare altro che considerare l’eredità che questo grande popolo ha lasciato all’occidente e ci tenevo a “omaggiarli.”

Anche in una precedente regia teatrale in cui le vicende si svolgevano in Irlanda fra combattenti IRA, il tema della lotta per un ideale e le costrizioni nelle scelte dovute ai legami personali si ponevano in maniera netta. E’ qualcosa che rientra per così dire fra i topos della tua fantasia e del tuo vissuto?

Ci pensavo proprio in questi giorni, effettivamente faccio fatica ad innamorarmi di personaggi che non dimostrino un certo tipo di carattere. Facendo un passo indietro ci trovo un po’ me stesso. Nella mia vita, fin da bambino, venendo da una famiglia del sottoproletariato e terzo di 11 figli, me la sono sempre dovuta cavare da solo e questo aspetto del mio carattere me lo porto dietro anche nel percorso “artistico”. Questo è se vogliamo fare un po’ di psicanalisi da bar. Altrimenti direi che, in questo momento parlare di cose “minime” mi interessa poco. Preferisco gli universali e Prometeo è un mito/eroe universale.

Come si coniugano oggi la tua pratica teatrale e il medium cinematografico a cui pure ti sei sempre dedicato? 

Sono coniugate dall’amore che ho verso la finzione e ambedue mi trascinano in un turbinio di emozioni. Poter trasferire il proprio pensiero e non solo speculativo ma, soprattutto emotivo, mi provoca un sentimento poetico che non mi fa smettere di reiterarlo.

Cosa rende possibile il teatro che a cinema non si può fare? E in questo caso particolare quali sono le scelte più profondamente teatrali che hai dovuto fare?

Il teatro ha l’immediatezza che il cinema non ha. La messa in scena permette di ricreare una situazione specifica partendo da semplici simboli, cosa che al cinema è praticamente impossibile. Tranne se non realizzi un’ opera fantasy. Il teatro ha un’ambiguità che oltrepassa l’immaginazione, basti pensare che ogni sera lo stesso spettacolo non è mai uguale a se stesso.

Che bilancio tracci a questo punto del tuo percorso artistico rispetto al dialogo fra cinema e teatro?

Non sono mai riuscito a fare un bilancio, anche perché dovrei soppesare quello che è la mia vita nella sua complessità e quando ci penso mi dico di cambiare discorso. Il cinema e il teatro, come ti dicevo prima, si condizionano e si nutrono a vicenda. Sto finendo di montare un film e mi rendo conto di quanto il teatro si sia infilato nella pellicola senza che me ne accorgessi.