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venerdì, Marzo 29, 2024
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Macbeth: fra cinema e danza, opportunità e rischi del racconto dell’ambizione

KP_261194_crop_1200x720RENZO FRANCABANDERA | Molti gli appassionati di teatro che sono corsi a cinema a vedere Macbeth, il film del 2015 diretto da Justin Kurzel con protagonisti Michael Fassbender e Marion Cotillard.

La pellicola è l’adattamento della più breve tragedia di William Shakespeare ed è stata in concorso al Festival di Cannes 2015, presentato il 23 maggio. La riduzione filmica del classico shakespeariano dell’ambizione e della brama di potere, della lucidità femminile capace di governare sulla volontà traballante e fragile dell’uomo ed in questo caso specifico le interpretazioni fatte di sguardi di Fassbender e della Cotillard nei due ruoli principali raccontano bene la psicologia di due personaggi fra i più rappresentati sia a teatro che a cinema nell’ultimo secolo, con riferimento al repertorio drammaturgia del Bardo.

Da tempo avevamo anche alcuni appunti per una riflessione su una versione danzata delle ispirazioni che da questa opera capitale si originano: si tratta di Enter Lady Macbeth di Simona Bucci, uno degli spettacoli programmati nelle più importanti vetrine di danza dell’autunno passato, da MilanOltre ad Autunno Danza a Cagliari.
La coreografia, centrata sulla figura femminile della  aspirante regina e meglie di Macbeth nasce da una concezione scenica di Simona Bucci con musiche originali di Paki Zennaro su disegno luci di Gabriele Termine, ed ha come interpreti, in uno spazio vuoto separato dal pubblico da un tulle, quattro donne nella loro semplicità corporea: Eleonora Chiocchini, Isabella Giustina, Sara Orselli, Françoise Parlanti, Frida Vannini.

EnterLadyMacbeth05-470x350Il femminile su cui la Bucci vuole indagare è il nucleo creatore e distruttore degli eventi stessi, incarnazione di una sorta di coesistenza manichea delle pulsioni positive e negative che nell’animo umano, anche quello femminile ovviamente, albergano.
Commentiamo insieme (ed anzi troviamo ispirazione nel pensiero sul film per distillare quanto ci era rimasto sospeso rispetto allo spettacolo di danza) i due esiti di confronto con il Macbeth di Shakespeare perché entrambi ambiscono, con idee di fondo e mezzi diversi a confrontarsi con “il trasferimento dal piano magico e fatale a quello psicologico e umano”, come la Bucci dichiara nelle intenzioni sul lavoro, facendo si che le diverse anime che nella psiche umana si danno diventino creature diverse, ognuna con un suo specifico, un suo movimento, capaci di movimento corale e di azioni individuali, come quando siamo in equilibrio fra le forze o ce n’è una che domina e governa le nostre azioni.

Anche il film a più riprese, e invocando una presunta fedeltà al testo (più volte in realtà tagliato, e aggiunto di particolari anche inutili o inspiegabili, come la creatura fra le braccia delle streghe che dovrebbe essere il figlio mancato di Macbeth), si dilunga nel rapporto fra universo del magico-psicologico e quello reale, nelle sue logiche di volta in volta convergenti ed antitetiche.

Ma entrambi, film e spettacolo, raggiungono alcuni risultati e ne mancano altri. Riescono nella bellezza dell’identità soggettive, nel lavoro sugli interpreti e nella volontà di creare un ambiente immaginario unico e coerente. Riescono invece meno nel rapporto insistito con una musica che si fa spesso didascalia gotica e nelle scene collettive, che nel film sono di fatto un già visto di altri film di epica guerriera in salsa contemporanea come il 300 ispirato al fumetto di Miller, con tanto di rallenti e fiocchi di sangue, dove Macbeth si sovrappone nel nostro immaginario prima al Leonida di 300 e andando a ritroso nell’epic pulp in salsa americana, al Cristo dell’ultima tentazione.

Anche nel lavoro danzato, pur nella cura dei movimenti, prende nella seconda parte il sopravvento un deja vu che cede troppo ad un dialogo fra corporeo e  musicale spesso un po’ oleografico. E quindi in entrambi i casi, tanto a cinema che in sala, sentiamo il venir meno del tratto originale e distintivo, proprio dove si apriva lo spazio per un esito che non flettesse sull’immaginario più facile. 

Per non morire in pace: Una e Tre Istruzioni

MARTINA VULLO | Se, come molti sostengono e come siamo convinti dovrebbe essere, uno spettacolo non si esaurisce nel tempo della rappresentazione, ma vive anche nel prima e nel dopo facendo parlare di sé, la trilogia di Istruzioni per non morire in Pace, respira già da un anno buono.

Il trittico si inscrive infatti all’interno del progetto Carissimi Padri promosso dalla fondazione Ert Emilia Romagna Teatro, che in occasione del centenario della prima guerra mondiale (2014-2018), ne ha approfondito la tematica con laboratori, letture e lezioni-spettacolo, i cui principali temi come pezzi di un grande puzzle, hanno trovato unitarietà nei tre spettacoli finali andati recentemente in scena al Teatro Storchi.

L’ideatore delle pièce è Paolo Di Paolo, che ha presentato in questi giorni il volume omonimo nelle librerie modenesi. La regia è stata invece curata da Claudio Longhi.

Nove attori in scena: Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Olimpia Greco, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia e Simone Tangolo. Ne citiamo tutti i nomi perché il contributo che hanno dato a questo progetto di “teatro partecipato” (sempre proteso alla relazione con la comunità) è stato essenziale: al lavoro di performer, hanno alternato quello di conduttori per alcuni dei laboratori ed è loro pure il merito di aver suscitato la curiosità del pubblico, con immagini, piccoli slogan e video simpatici, diffusi nei propri canali social.

Nove è anche il numero delle ore complessive degli spettacoli (tre per ciascun episodio) e se di fronte a una tale durata, qualcuno potrebbe sospettare che, per non morire in pace, si rischi di morire di noia, gli toccherà ricredersi.

Non che lo spettacolo risulti “leggero” (è anzi molto mentale) e non lavora sul principio di immedesimazione del pubblico nei personaggi ma sulla ricerca di un punto di vista esterno, quasi più razionale, di fronte alla panoramica delle vite, che come frammenti, affiorano per poi essere travolte dallo spietato gioco della guerra.

Non manca comunque la nota della leggerezza, assicurata dalla verve ironica che in più punti diventa elemento centrale della rappresentazione, con le sue luci sfavillanti in avanscena ed i clowneschi showman che si esibiscono in frac. Fra musiche di fisarmonica e di pianoforte, colpi di cabaret e dialoghi buffi, si fanno spazio carte geografiche e venditori di gazzette che (con i volti mascherati e costumi d’epoca) fra la platea e le balconate, annunciano a gran voce le tragedie umane; non ultima la sciantosa prostituta, vestita come una vedette a rievocare l’atmosfera da caffè chantant, che conferisce allo spettacolo l’aria di una grande beffa.

A ben pensarci l’eclettismo degli elementi di intrattenimento, insieme all’abolizione della quarta parete, alla tematica sociale e all’intenzione di stimolare una coscienza critica nello spettatore, ci riportano al teatro epico (del resto non a caso fra i progetti di Carissimi Padri troviamo una pièce dal titolo: “Molte cose sono in una cosa”- Uno straniamento brechtiano).

Gli episodi risultano in continuità fra loro, ma posseggono una propria autonomia se guardati singolarmente. Ad accomunarli è l’alternanza fra i frammenti individuali e momenti di coralità. Anche la scenografia (dinamica ed articolata) rimane tendenzialmente uguale.

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Ph. Luca Del Pia

. Patrimoni

Il senso del primo episodio è sintetizzabile nella scena finale, dove individui profondamente diversi per provenienza, ideologia e fascia sociale, cantano l’inesorabilità del conflitto che ne mescola i destini. L’immagine è inquietante un po’ come il suono delle percussioni di alcuni membri della pseudo-orchestra, probabilmente ignari delle spettrali maschere che indossano… Qualcosa nella loro immagine ce li fa associare a fotogrammi de La classe morta, ma privati della presenza di fantocci.

I diversi personaggi acquistano profondità e completezza col progredire della rappresentazione: sono pittori, attori, prostitute/spie, industriali, generali, clerici ed operai stanchi, accanto ai quali si scorgono figure note, ferocemente ironiche (come il vecchio buffone Freud che disquisisce di soldi e merda seduto sopra un water), o semplicemente tragici come il neutralista Jean Jeures, assassinato nel 1910. Non mancano intarsi con la storia di Castorp, de La montagna incantata di Thomas Mann.

Non di rado si ricorre a proiezioni di fotografie che come dentro a uno stereoscopio scorrono sulla parete frontale. Altre suggestioni che ci trasportano nella belle époque (finita con l’avvio del conflitto) sono i costumi da bagno in stile tuta dei primi decenni del ‘900, gli allora entusiasmanti film sonori e lo stupore di due giovani per il passaggio della cometa di Haley. Di un’epoca così serena, a chi subirà la grande guerra, rimarrà solo il ricordo.

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Ph. Luca Del Pia

. Rivoluzioni

I personaggi rivendicano la volontà di non morire in pace: dopo il rammarico del letterato tedesco Georg Heym, che si cruccia di essere scomparso troppo presto e troppo in pace (nel tranquillo 1912, mentre stava pattinando), il desiderio di morire in grande è rivendicato anche da Berto (giovane pittore bohèmien).

Lo smarrimento insito nel personaggio che si arruola nella campagna in Africa per colmare un proprio vuoto esistenziale, ci riconduce (come suggerisce lo stesso attore Simone Tangolo), al più attuale disagio di certi giovani che ancora oggi si lasciano morire con l’adesione al radicalismo delle organizzazioni terroristiche.

Il passato nello spettacolo odora sempre di presente: le istruzioni messe in scena, trovano infatti il loro senso nel servirsi della storia come di uno specchio, che per somiglianza o per contrasto, permetta all’uomo di ragionare su di sé.

In questo episodio si parla del colonialismo (con l’annessa storia e il triste epilogo di Salgàri) e della conferenza socialista a Vienna del 1915. Torna lo strambo Freud che disserta sulla melanconia e il suicidio prima di fallire in una goffa tentata impiccagione. Al solito intarsio con il romanzo di Mann, segue l’apparizione della grande Sara Bernhardt: una piccola anticipazione sulla tematica del teatro.

L’argomento principe è però quello delle rivoluzioni: scientifiche, come la scoperta dell’ipnosi a cui ci si riferisce a lungo, ma anche politiche (pensiamo all’idealista Trotsky che parla di rivoluzione permanente senza sapere che sta per morire).

L’ignaro compiacimento dei nostri personaggi, viene spezzato anche qui dal concertino dell’orchestra macabra, che canta della moralità, dell’etica e dell’eroismo umano: piccole cose di fronte alla fame e alla miseria imposte dalla guerra.

.Teatro

Gli orologi, onnipresenti nella scenografia, mettono agli spettatori l’ansia che fin ora è mancata ai protagonisti della pièce. Se strutturalmente rimane l’alternanza di diversi quadri, c’è una maggiore compattezza rispetto agli episodi precedenti.

La famiglia Gottardi è mostrata in un interno nel giorno del 23 Maggio 1915. Sembra il tipico soggetto di una commedia borghese e per la diversità dei componenti, mette in risalto i differenti modi di intendere il conflitto: i fratelli industriali Fernando e Marcello sono con la loro fabbrica, le madri Coraggio della situazione che vedono nella guerra un’occasione commerciale. A differenza della negoziante brechtiana, non sembrano però poter contare su tutta la famiglia.

I quattro figli di Fernando hanno ben altri progetti: Maria, la suora, non fa che pregare ma più che illuminata dalla fede, sembra soggiogata da una morale imposta. Di lei si fa allegramente burla Lelo, l’attore che incarna quella generazione di figli che non riconoscendosi nell’insegnamento dei padri, fa del teatro il proprio mezzo di eversione. Diversa la ribellione dell’operaio socialista, scoperto in flagrante con un’altra figlia (Tina), in una delle scene più esilaranti della pièce.

Berto non c’è. Sussurra distante su di un palchetto laterale da dove adesso può osservare la sua famiglia: è “il Gregor Samsa” della vicenda a cui si sostituisce nel nome, quando esordendo da una botola sul palco, legge l’incipit de Le metamorfosi kafkiane.

A intervallare il quadro familiare è uno showman che fornisce dettagli sulla giornata del 23 Maggio, in cui l’Italia ha dichiarato guerra all’Austria.

Anche qui vecchi personaggi convivono coi nuovi: tornano Freud e Castorp che abbandona il mondo a sé del sanatorio per arruolarsi nell’esercito. Nuovo è l’esordio dei politici Salandra e Sonnino, che fra palco, platea e palchetti, leggono la propria corrispondenza antecedente allo scoppio del conflitto.

Considerato il titolo, non può mancare il teatro nel teatro: quello nel quale si esibisce Lelo e in cui la gente accorre per distrarsi: vi si rappresenta un fotografo nell’atto di immortalare la regina Vittoria coi nipoti e vi si pratica la satira che mette al centro Shimoi (il “camerata samurai”) e Mussolini con la sua incoerenza rispetto agli esordi da socialista. Sulla musica di “Santa Lucia” si canta poi della nave Lusitania.

Ma gli spari come al solito, interrompono le distrazioni: un generale arresta lo spettacolo puntando la rivoltella sugli attori. A poco servirà l’incombere dei socialisti coi manifesti rossi lanciati dai palchetti ed arrecanti le frasi di Turati. La guerra, che non ammette idealismi, schiaccia l’uomo. È quella di un vinto, l’immagine che conclude lo spettacolo: si tratta del nostro attore Lelo, che indossa adesso una divisa. Anche prima di morire continua a vagheggiare scrivendo al padre di un futuro che aspetta, ma non avrà il lusso di vivere.

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Ph. Luca Del Pia

Allo spettatore tornato a casa resta la viva traccia di una grande energia cinetica (data dall’estremo dinamismo dei performer), il pensiero dolce-amaro di alcuni sketch che propongono il sorriso nel tragico ed un accumulo incredibile di aneddoti ed informazioni. Quasi impossibile metterle tutte in ordine e del resto non ce n’è neanche la pretesa. Quello che conta sono i pensieri che affiorano nel dopo, via via, un po’ come piccoli semi piantati per dare modo di riflettere. Perché qui non occorrono lacrime di commozione: questo è un teatro che, nel suo ampio svolgersi, racconta, un teatro a suo modo didattico, un teatro che – per dirla con i social, ma con un’altra sfumatura, meno banale – ci piace.

“Expiry Date” al London Mime: la vita ha una data di scadenza

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Foto di Sophie Glossin

ROBERTA LEOTTI | Come ci spiega la drammaturga della compagnia Baba Fish, oltre che interprete della perfomance, Anna Nilsson, la pièce è stata concepita come un esperimento, nato dall’idea di rappresentare “What Makes a Life”, quelle piccole cose ed effimeri momenti di estasi che danno, e sono, il senso della vita, ma che sono da cogliere per poterla vivere pienamente.

Per sua stessa ammissione, questo progetto di recente al Barbican di Londra in occasione del London International Mime Festival, presenta forti richiami biografici. La parte della Nilsson infatti, è pensata e costruita sulla malattia che ha colpito la madre (cancro), che drammaturgicamente diviene motivo della morte del protagonista: il vecchio Joseph, interpretato magistralmente da Jef Stevens.

In scena l’ultima ora di vita di Joseph, solo con le sue memorie che prendono forma grazie al suo giovane alter ego, il talentuoso giocoliere Thomas Hoeltzel, ed all’attrice e contorsionista Laura Laboureur nelle vesti della moglie scomparsa.

Inoltre le vive coreografie sceniche di Hun-Mok Jung utilizzano parte degli allestimenti quasi fosse un ulteriore componente del cast. Ci riferiamo in particolare alle piste di domino, mille tasselli allineati con precisione lungo il pavimento o i complessi congegni meccanici, ideati da Jan Nilsson e realizzati da Raimon Comas Franch con l’Atelier Devenirs.
Per effetto del movimento a catena, questa apparentemente inutile “accozzaglia” di oggetti riesce a trasformarsi in un elemento vivo ed affascinante, reminiscente di un preciso quanto inquietante conto alla rovescia del tempo che separa il protagonista dalla morte.

I ricordi che di tanto in tanto riaffiorano alla memoria, sono passaggi comici che sdrammatizzano un soggetto così difficile e complesso.
Così il rapporto di coppia simboleggiato inizialmente dall’armonia di un passo a due, si deteriora fino allo scontro  in una concitata lotta greco-romana, con tanto di campana a scandire la fine di ogni round, come se la scena fosse un ring di pugilato o ancora in un’altra con la Laboureur vestita da sposa che canta sulle note dell’Habanera della Carmen.

Le scelte del suono (Raimon Comas Franch) spaziano dalle arie classiche del requiem a minacciosi techno beat a presagire la fine imminente.
Anche la luce gioca un ruolo altrettanto importante: nei momenti più tormentati per Joseph, Philippe Baste (responsabile luci) concentra i punti luce solo sul protagonista e tutto il resto nell’ombra. Stessa cosa vale per il sistema di suoni: esemplare il caso del battito cardiaco, suono a cui spesso associamo persone in stato di incoscienza, in bilico tra la vita e la morte, che viene qui snaturato della propria tragicità, attraverso un gioco sonoro interessante; il ritmo diventa sempre più veloce, viene poi mixato con basi tecno-dance finendo per scatenare il cast in un party dove l’anziano in fin di vita, diventa un arzillo acrobata che se ne sta agevolmente in equilibrio a testa in giù su una sedia.

Il continuo alternarsi di passaggi tragici e comici per tutta la durata della performance è un abile espediente per condurre il pubblico alla riflessione più filosofica ed esistenziale che lo spettacolo fra dolore e sorrisi portan con se’ e che potremmo riassumere con il “Carpe Diem”.

Campo Teatrale: la narrazione sociale a Milano

RENZO FRANCABANDERA | È un tipo di teatro accessibile ma con un peso specifico poetico assai particolare e calibrato quello che da anni ormai propone al pubblico milanese Campo Teatrale.Con la direzione artistica di Donato Nubile e il trasferimento nella bella sede in zona Lambrate, il teatro sta conoscendo una stagione davvero positiva, pur fra le difficoltà dell’economia culturale.

E d’altronde Nubile stesso e promotore di altre iniziative e start-up legate all’economia culturale e alla possibilità di una sua modernizzazione al di là del sistema che fino a questo momento la ha governata.

E così Campo Teatrale è diventato davvero un polo particolarissimo non solo di offerta culturale ma anche di piccola produzione, capace di farsi testa di ponte per la circuitazione di progetti assai peculiari.

Ospiterà, ad esempio, a febbraio una rassegna che porterà a Milano i lavori vincitori di Teatri del Sacro, una delle vetrine divenute significative della proposta scenica a tema in Italia. Molti, però, gli artisti succedutisi già in questa prima parte di stagione: solo nell’ultimo mese siamo stati spettatori di due lavori di particolare interesse.

Parliamo di Open, di e con Mattia Fabris, liberamente tratto dal best seller omonimo di Andre Agassi in cui il tennista americano racconta la sua vita e il rapporto di odio amore con lo sport che lo ha reso celebre. Parliamo anche di capatosta, scritto e interpretato da Gaetano Colella, in scena con Andrea Simonetti per la regia di Enrico Messina.

mqdefault.jpgOpen è uno spettacolo che supera la dimensione del reading teatrale per strutturarsi come una vera e propria narrazione che di fatto condensa il primo e l’ultimo capitolo del libro di Agassi ovvero L’infanzia nelle grinfie paterne con le scelte del giovane condizionate dalla figura dominante del padre e l’età matura, l’ultimo incontro, la battaglia finale di una carriera incredibile. Intreccio sonoro unito alla recitazione rendono il tessuto drammaturgico vivo. Attraverso pochi mezzi lo spettatore, come nel libro, ripercorre l’avventura del protagonista e in molti momenti il pathos è vivo ed il ritmo serrato. E possibile si tratti di un inizio di un polittico che potrà avere i prossimi capitoli all’interno della vivissima biografia di Agassi, magari favorendo il percorso di teatro fuori dai teatri caro all’interprete.

Le palline pesanti come di cemento, che arrivano come cannonate. Le urla del padre, il campo cone prigionia: la narrazione ha il tipico vigore dei racconti di Fabris, che da anni si è ricavato una specifica abilità nella narrazione teatrale, fatta di intrecci di suono (assai interessante qui la musica eseguita dal vivo dalla chitarra di Massimo Setti), parola ed emozione. 

Dal punto di vista tecnico  lo spettacolo è  quasi diviso in due parti, la prima che racconta l’infanzia, in cui la figura paterna irrompe come un incubo; la seconda che salta di fatto tutta la vita sportiva del protagonista, dandola quasi per scontata e assunta, sottacendo l’esperienza che porta a quel finale (qui forse c’è una pecca drammaturgica, comprensibile per la ricchezza del libro ma non per la necessaria indipendenza da questo del testo teatrale, che nella seconda parte soffre un po’ la mancanza del conflitto), e si conclude passando direttamente all’ultimo match della carriera. L’apice dello spettacolo arriva un po’ presto, così che quasi il finale, nella versione proposta nel reading strutturato proposto a metà dicembre a Campo Teatrale, si scarica un po’ prima del necessario di tensione, ma sicuramente il piccolo tratto di strada che manca fra questo reading strutturato ed una versione definitiva può consentire di sistemare quel poco che occorre per arrivare ad un esito robusto in ogni sua parte.

Capatosta è una drammaturgia originale distillata da Colella attraverso una serie di interviste ad operai attivi nello stabilimento dell’Ilva, gigantesco mostro industriale unito e al contempo separato dalla città di Taranto, che condiziona in maniera pesante l’economia del territorio ed i suoi abitanti. In quasi tutte le famiglie c’è un parente dipendente Ilva, e in quasi tutte le famiglie c’è qualche ammalato di patologie gravi direttamente o indirettamente collegabili al lavoro in quest’azienda dall’altissimo impatto ambientale, le cui vicissitudini sono quotidianamente in evidenza nelle pagine di cronaca economica e giudiziaria per via del sequestro e delle vicende proprietarie.

Capatosta-660x330.jpgLo spettacolo ho tuttavia un pregio particolarissimo che è prima di tutto nella costruzione testuali: si confrontano due personaggi uno giovane, figlio di un ex operaio (Andrea Simonetti), ed uno più anziano (lo stesso Colella), che lavora nello stabilimento da vent’anni. Il primo ha i tratti rivoluzionari e crede in una lotta di classe di ritorno, che dovrebbe ricompattare le classi sociali che stanno subendo la pressione della crisi economica. Il maggiore invece dei due, è un personaggio drammaturgicamente molto riuscito e che delinea una psicologia complessa delle classi povere, una sorta di egoismo degli ultimi, che è il tratto più raffinato e pregevole di questo spettacolo. Il conflitto psicologico fra i due infatti risulta quanto mai vivo e intrigante, sviluppando un inatteso duello fra ultimi. Unico particolare un po’ sforzato, a nostro avviso, è il finale in cui questo conflitto trova elementi di premeditazione ed un esito finanche eccessivo.

Per il resto, la regia esperta di Enrico Messina, unita alla bella ed evocativa scena realizzata da Massimo Staich e al bel disegno luci di Fausto Bonvini, conduce positivamente in porto un esito scenico interessante e vivo.

Omini alle prese con lo scazzo della provincia

GIULIA MURONI | “Forse coglioni è sinonimo di stupidi!” – si chiede uno. La postura è spanciata, l’incedere trascinato e l’approccio chiaramente filosofico.

Si tratta di uno dei personaggi cui danno corpo gli “Omini”, personaggi che riassumono precisi esemplari umani della provincia, sospesi in un tempo rarefatto e abulico. Archetipi di un’umanità delle piccole comunità dove il tempo si dilata indefinitamente e lo spazio divide noto e ignoto con una separazione netta e vicinissima, “La famiglia Campione”- visto al Teatro Fassino di Avigliana (TO), nel cartellone curato dalla Piccola Compagnia della Magnolia-  mette in scena il chiuso di un interno domestico in cui si avvicendano tre generazioni.  Sulla scena una porta dietro la quale si cela Bianca, rinchiusa nel bagno da una settimana. Riceve da mangiare dal resto della famiglia che, di fronte a quella porta, s’incontra, chiacchiera, tenta di entrare in contatto con lei, confessa dubbi e perplessità. La drammaturgia è scarna, composta di battute taglienti, dialoghi che non dicono tanto ma raccontano con efficacia e ironia la provincia nostrana, le contraddizioni dentro al nucleo familiare, le ansie generazionali e le piccolezze dell’essere umano.

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Attraverso uno sguardo di osservazione partecipante la compagnia ha portato avanti per anni un’opera di interrogazione ma soprattutto ascolto tra le piccole realtà locali, compiendo la pregevole operazione di prendere ma anche restituire umanità e presenza, trasfigurata dalla forma peculiare del teatro. La scena è essenziale, la porta funge da fulcro attorno al quale ruotano i personaggi. Poche luci, pochi significativi costumi (“gileino” a rombi per tutti) qualche mela da trangugiare sputazzando e una panca in legno su cui la più longeva generazione si racconta.

Gli Omini arrivano ad essere poetici senza lirismi, mostrando uno sguardo sincero, disincantato e profondamente onesto di un’antropologia stracca a cui tutti un po’ apparteniamo. Un po’ come il Benigni dei tempi migliori che, nella celebre trafila di bestemmie (https://www.youtube.com/watch?v=7YCVSePryPo)  compendia un quadro di toccante disperazione, di una cifra tutta umana che non riesce fino a fondo a spiegarsi l’accaduto, a dare parole e foggia all’insensato. Così gli Omini riescono a tenere insieme il medesimo disallineamento di forma e contenuto, miscelando uno spettacolo efficacemente sardonico, dalle tinte dolorose e divertenti e il gusto amaro di ridere di se stessi.

Fish&Chips: Eros va a cinema – videointervista a Chiara Pellegrini

unnamedALESSIO DEGIORGIS – BRUNELLA FERRARIS | Il cinema come preoccupazione costante per la rappresentazione dei corpi. Corpi come immagini in movimento che, intrecciate, generano innumerevoli combinazioni. Il cinema come punto d’osservazione privilegiato. Luogo imprecisato dove si manifesta l’urgenza e la necessità di una liberazione da sempre annunciata e spesso fraintesa.

A Torino, dal 14 al 17 gennaio, si è svolta la prima edizione di Fish&Chips – International Erotic Film Festival. L’evento non può essere giudicato come una semplice rassegna dedicata al cinema erotico e pornografico. Si tratta piuttosto di un progetto ambizioso, capace di attirare un pubblico eterogeneo, incuriosito da una proposta fresca e originale. Chiara Pellegrini, direttrice del festival, ci ha raccontato l’evoluzione di un’idea che ha preso forma nella presentazione di pellicole di sicuro interesse, sostenuta da un calendario ricco di dibattiti e arricchita dalla mostra fotografica “Eros absconditus”.

Realizzato grazie a una campagna di crowdfunding, Fish&Chips si è rivelato esperimento in grado di ridiscutere la classica struttura proposta da una kermesse cinematografica. Buona la prima. Ed ora è lecito immaginare che la manifestazione possa diventare un appuntamento fisso della stagione festivaliera.

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Dall’assurdo al thriller: se Valerio Binasco rifà la Lezione a Ionesco

LaLezione-Generale-3237-1VINCENZO SARDELLI | La versione iperrealista di una tra le più rappresentative opere del teatro dell’assurdo. Dopo aver inaugurato il 2016 al Binario 7 di Monza, La lezione di Ionesco, diretta da Valerio Binasco, approda al Verdi di Milano, nell’ambito di un gemellaggio fra la storica sala del quartiere Isola e il Teatro Menotti.

In questa messa in scena prodotta da Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse, Binasco rilegge il testo ponendo l’accento sui toni più autentici e naturali della vicenda. Ridefinisce anche i caratteri dei personaggi, conferendo – attraverso la regia – un’icasticità sconosciuta all’originale.

Il soggetto è la lezione privata di un professore a una nuova alunna.

Luci deboli sul palco e in platea, disegnate da Matteo Selis. Lampade a muro accese a metà. La carta da parati ingiallita, cadente, evidenzia l’alone di un quadro rimosso. In questo interno domestico trasandato, realizzato dallo scenografo Emanuele Conte, campeggia un antico grammofono a manovella. Lo avvia un vecchio professore (Enrico Campanati) gobbo e tremolante, barba bianca e abiti lisi. Il professore accompagna il sottofondo del grammofono suonando goffamente un violino. Sedutogli accanto, un altrettanto attempato e imbolsito maggiordomo (Franco Ravera) gli gira le pagine dello spartito, mentre rammenda un paio di pantaloni.

Suonano alla porta. Si presenta un’allieva (Elena Gigliotti) cappellino e occhialoni, allegro abito a pois, l’aria scanzonata e un po’ ebete. Ripete come tormentone «va bene professore» con la “s” strascinata siciliana. Richiede non meglio precisate lezioni di cultura generale.

In apparenza comprensivo e ammiccante, di fatto aggressivo e nevrotico anche quando rivolge parole gentili, il professore mette in scena una lezione che parte da banali domande di matematica e approda a improbabili dissertazioni filologico-linguistiche. È un climax che da ilare si fa grottesco, per approdare allo psicodramma e alla tragedia. L’incomunicabilità degenera in tensione, frustrazione e follia. Fino alla perdita totale del controllo da parte del professore. Che con furia omicida si accanisce sulla ragazza.

Ionesco non offre una soluzione agli interrogativi che pone. Testimonia paure baroccamente e infantilmente atteggiate. La sua comicità, i suoi toni esasperati, hanno il carattere dello sberleffo. I contenuti palesemente metafisici rivelano il vuoto di realtà che si nasconde dietro la società umana. Il rovesciamento di ruoli tra i protagonisti, il tono caricaturale che risuona fino all’epilogo della pièce, esorcizza la disperazione grazie a una costante tensione sperimentale nella struttura e nei modi dell’azione teatrale. Lo spettatore si riconosce in questa comicità raggelata. Ride perché nei buffi personaggi in scena ritrova le mille banalità della vita ordinaria, le convenzioni scontate del rapporto con gli altri.

La versione viscerale di Binasco scolpisce invece in altorilievo i protagonisti, esaltando le magnifiche qualità interpretative degli attori (in primis lo spiritato Campanati). D’altra parte, senza l’ironia di fondo voluta dall’autore, tale virata drammatica si risolve in gravame sinistro. Il crescendo di tensione, fino all’epilogo violento, si traduce in smarrimento senza catarsi.

Azzerata la componente surrealistica del teatro dell’assurdo, resta un profondo senso d’angoscia. Affiorano nudi e crudi, un rapporto docente/allievo vessatorio e il femminicidio come delitto esecrabile.

In questa scelta di asservire la portata universale del messaggio di Ionesco a un’ottica parziale (pur attualissima) di denuncia delle derive maschiliste e misogine della nostra società, rientra anche la sostituzione della più rassicurante governante femmina con un maggiordomo maschio, spalla e alter ego del professore, complice inquietante e altrettanto abietto. Tutte scelte autoreferenziali, alla lunga opprimenti, che finiscono per dissolvere il brio e la genialità dell’originale.

Virgilio Sieni alla ricerca del gesto perduto

IRIS BASILICATA | Quando il 29 maggio del 1913 Igor Stravinskij sentì le risate e le prese in giro del pubblico durante la prima rappresentazione de Le sacre du Printemps, coreografata da Nizinskij, abbandonò la sala. L’opera è stata poi definita un vero e proprio scandalo artistico per le aggregazioni sonore e il ritmo dinamico utilizzati come non era mai stato fatto prima, ampliando così gli orizzonti e l’approccio alla danza. Virgilio-Sieni-Le-Sacre-photo-©-Rocco-Casaluci-2015-1
Il famoso balletto racconta di un sanguigno rito propiziatorio alla primavera, in cui un’adolescente eletta dovrà ballare fino alla morte per la benevolenza degli dei. I più grandi coreografi del Novecento come Maurice Béjart, Pina Baush, Marta Graham, hanno dato le loro personali interpretazioni al balletto in cui per la prima volta veniva mostrato al pubblico il potere evocativo della musica. Virgilio Sieni conclude la rassegna Il teatro che danza, organizzata dal Teatro di Roma, riprendendo in mano il capolavoro stravinskijano arricchendolo di un Preludio iniziale. In questo pre-rito, sullo sfondo di un palcoscenico spoglio ed illuminato da una luce rossa che lascia presagire un senso di morte imminente, sei ballerine si esibiscono in movimenti netti, riscoprendo i gesti primitivi e originari dell’essere umano. Accompagnate dal contrabbasso di Daniele Roccato, le sei ballerine attraversano tutto lo spazio del palcoscenico come fossero dei manichini snodabili, eseguendo movimenti all’apparenza confusi per poi ritrovarli chiari e spigolosi quando ha inizio il rito vero e proprio. Il sestetto di donne, perso nella sua inafferrabilità della forma, tenta di cercare nei movimenti la capacità dell’uomo di rinnovarsi attraverso un percorso dell’umanità che diviene percorso della memoria stessa. Infinitesimali movimenti che hanno permesso all’uomo di stare al mondo come quelli di alzarsi, chinarsi, toccarsi, cadere, fanno riscoprire il senso archeologico e geometrico del gesto che parte sempre dalle articolazioni dei ballerini.
Dopo una pausa decisamente troppo lunga dodici ballerini vengono immersi nel pieno del rito in cui i corpi cercano sempre il contatto gli uni con gli altri, cancellando il binomio individuo-comunità che li separa. L’attenzione al rito, infatti, non è focalizzata tanto sulla scontro tra l’eletta e la tribù quanto sulla sacralità e sull’essenza viscerale della natura e della terra. I ballerini alternano movimenti dolci a movimenti più duri che fluidamente si intersecano, si lasciano, si riprendono, si dividono, per poi ritrovarsi in un unico corpo sulle note dell’inquietante partitura stravinskijana. Il bellissimo disegno luci di Fabio Sajiz crea sul palcoscenico un vero e proprio effetto di profondità degno di un quadro di Caravaggio.
I performer sono coperti solo da leggings color pelle, fatta eccezione per la vittima prescelta (interpretata dalla storica ballerina della compagnia di Sieni, Ramona Caia), che con leggings scuri e viso ricoperto da una pittura color oro, si trova all’interno di un flusso di energia fatto di ritualità e di gioco. Schiere e cerchi vengono creati e distrutti in un moto in cui il corpo coreografico viene continuamente frammentato e ricomposto.
L’importanza del gesto e della sua infinita scomposizione pervade tutta l’opera di Sieni elogiata da un pubblico entusiasta che si abbandona a lunghi e scroscianti applausi. Contrariata solo una bambina sui sei anni e dai capelli rossi: forse un po’ troppo piccola per capire il profondo significato del lavoro di Virgilio Sieni.

Preludio
regia e coreografia Virgilio Sieni
musica di Daniele Roccato
luci Fabio Sajiz, Virgilio Sieni
interpreti Ramona Caia, Claudia Caldarano, Patscharaporn Distakul, Vittoria Sapetto De Ferrari, Giulia Mureddu, Sara Sguotti

La Sagra della Pimavera
regia e coreografia Virgilio Sieni
musica Igor Fedorovi Stravinskij
interpreti Ramona Caia, Claudia Caldarano, Patscharaporn Distakul, Vittoria Sapetto De Ferrari, Giulia Mureddu, Sara Sguotti, Jari Boldrini, Maurizio Giunti, Rafal Pierzynski, Davide Valrosso
luci Virgilio Sieni
costumi Giulia Bonaldi, Virgilio Sieni

Campanale e quel vestito che Pirandello cucì per Eduardo e mai più indossato

Compagnia_abito_nuovo-1RENZO FRANCABANDERA | Una chanteuse nel senso più equivoco del termine. Anni 30. Una donna sceglie il divorzio e la vita libera, lasciando all’ex marito una giovane figlia. Diventerà una equivoca star dello spettacolo ma tornerà a sconvolgere la vita dell’uomo, della ragazza e degli abitanti del paese con la suaovvisa morte e con un’eredità materiale e morale assai pesante.

“L’abito nuovo” è un testo scritto da Eduardo De Filippo e Luigi Pirandello che debuttò a Milano nel 1937 mai più rappresentato fino a oggi. È l’incontro tra il regista pugliese Michelangelo Campanale e l’attore napoletano Marco Manchisi, da anni in Puglia all’interno del gruppo di lavoro del Teatro Kismet, ad aver favorito l’occasione per un ritorno di questa drammaturgia in scena.

Come testimonia Eduardo stesso in un interessante video disponibile in rete e utilizzato anche nell’ allestimento come legame con la genesi dell’opera, intorno alla metà degli anni Trenta Eduardo e Pirandello coronarono il loro desiderio di collaborazione artistica, desiderio nato in Eduardo dopo l’incontro con Pirandello che aveva assistito ad un suo spettacolo.
Il progetto si coagulò sulla riscrittura anche attraverso inserti dialettali  de L’abito nuovo, l’omonima novella di Pirandello che Eduardo individuò come adatta ad una trasposizione teatrale.
Ne nacque nel 35 una partitura in due atti e tre quadri concertata da Eduardo De Filippo, che andò in scena nel 1937, al teatro Manzoni di Milano. Le tematiche care ad entrambi gli autori, la morale di famiglia, le figure parentali assenti e presenti, i lasciti morali e i giochi delle parti, sono qui intrecciati in modo che la genesi testuale sia effettivamente ibrida. E anche l’allestimento di Michelangelo Campanale prova in qualche modo a mantenere questa leggibilità.

03_abitonuovoDal punto di vista puramente tecnico l’allestimento rispetta filologicamente la scansione del testo, proponendo tre ambientazioni, con la prima più onirica e degna dell’ultimo Pirandello, ma quasi kafkiana.

In un mondo sotterraneo, uomini piccoli come topi non sono in grado di sostenere, nel bene e nel male la grandezza di un personaggio, la Celie Bouton che lo scenografo immagina simile ad una Laura Antonelli ante litteram, che comunque compie la sua scelta di libertà senza veli e incertezze. Non è lei infatti a uscire sconfitta da questa vicenda, ma il formicaio di uomini mediocri incapaci di separare la bramosia dalle buone intenzioni, e tutti armati di una doppia morale, quella che alla fine si piega alla ricchezza. Ecco dunque che il Michele Crispucci protagonista interpretato da Marco Manchisi, diventa emblematica ed antieroica figura di una società la cui corruzione non è fuori ma dentro di sé e a cui, amara morale di questa vicenda, è impossibile opporre resistenza.
E’ tutto il piccolo e miserabile insieme di figurine che popolano una scena che o le schiaccia o le sovrasta, annullandole, ad essere sempre inadeguato, incapace di quello scarto umano di fronte al sistema di scelte che a ciascuno spetta.
Questa coralità di copione trova esito in una resa scenica cui contribuiscono 11 interpreti (Marco Manchisi, Nunzia Antonino, Salvatore Marci, Vittorio Continelli, Adriana Gallo, Paolo Gubello, Dante Manchisi, Olga Mascolo, Tea Primiterra, Antonella Ruggiero, Luigi Tagliente) sotto la direzione di Campanale che firma anche le luci e le scene, facendosi sostenere per le musiche niente meno che da Giuseppe Verdi, di cui sono frequenti gli inserti tratti da La Traviata, opera menzionata nel testo. I costumi di Maria Pascale riportano effettivamente ad una prima metà del Novecento i cui connotati sono molto chiari: una società vittima della morale piccolo borghese che in Italia di fatto costituirà il blocco sociale che  aveva portato al potere il fascismo, ma il cui governo è continuato ininterrotto anche dopo la seconda guerra mondiale. Le tre scene portano questa umanità prima in un mondo piccolo piccolo, poi nella sfarzosa reggia veneziana, per finire in una sorta di non luogo, un paesaggio domestico privo di personalità, totalmente contrapposto al così marcato ambiente da boudoir del secondo movimento scenico.

La piccola borghesia che la regia immagina, fatta quasi di marionette, personaggi a tratti un po’ burattini, ha equilibrio recitativo più forte soprattutto quando la maschera non viene calcata, quando la recitazione resiste alla tentazione di scadere nell’archetipico dei caratteri della tradizione, cercando una loro modernità di gesti e dinamiche.  D’altronde il testo stesso ha delle caratteristiche di più spiccata prevedibilità nella parte finale, tanto che potrebbe quasi essere uno spettacolo muto, senza perdere la sua assoluta leggibilità. E questa cosa, probabilmente assieme ai dissidi fra i fratelli de Filippo che caratterizzarono il debutto di questa pièce sono forse le ragioni per cui il testo non era stato più ripreso. Ma questo allestimento riesce a restituirgli una forza ed una attualità che vanno sottolineate. Campanale riesce in un’operazione equilibrata, d’insieme, in cui bene si comporta tutta la compagine degli attori, che da anni lavorano per la compagnia La Luna nel Letto di Ruvo di Puglia, specie quando al volume viene preferita l’intensità, considerazione che sempre dovrebbe essere il faro per questo genere di allestimenti che si confronta con un passato drammaturgico il cui recupero diventa capacità di valorizzare un patrimonio culturale enorme del nostro teatro.

L’Ulisse di mezzo di Lo Monaco – Approdo ad Agrigento

sebastiano_lomonaco_ulisse_21MARTINA VULLO | Kundera scriveva in uno dei suoi più bei romanzi, che la luce rossastra del tramonto, illumina col fascino della nostalgia persino la ghigliottina. Ne facevamo pensiero una volta accomodati nei palchetti  del Teatro Pirandello di Agrigento (dove ho frequentato le scuole), sia per il sovvenire delle memorie degli impegni scolastici sia e soprattutto  per il soggetto della messinscena che si rappresentava: Il mio nome è Nessuno: L’Ulisse, con la regia di Alessio Pizzech, l’adattamento drammaturgico di Francesco Niccolini, protagonista Sebastiano Lo Monaco.

Un’ispirazione fondamentale, per la messinscena della vicenda di questo eroe vagante, sono stati due libri della trilogia di Valerio Massimo Manfredi dedicata ad Ulisse che in scena non è l’antico eroe dell’Odissea, ma un uomo moderno e pacifista, preclaro per valori, saggezza e intelligenza.

A distinguere lo spettacolo dall’antologia studiata nelle scuole è l’ininterrotto fascino esotico delle suggestioni: l’Ulisse qui odora di salsedine, come suggerisce il telo color sabbia su cui poggia la barca in scena, ed intriga con i giochi d’ombra che si manifestano dietro le tende bianche sul fondale. Ancora sorprende con le entrate dei componenti dell’orchestra sax in progress di fiati e percussioni e seduce come i veli rossi della misteriosa Atena dal volto coperto.

Qui l’antico si fonde al moderno e questo mix risulta congeniale: apparizioni sporadiche di compagni d’avventura e fantasmi del passato stemperano la pesantezza a cui rischia di esporsi l’ora e mezza buona, per lo più riempita, come nel poema del resto, dal cunto del protagonista monologante.

Certo, Lo Monaco conosce il suo mestiere e questo gli permette di dosare sapientemente i propri strumenti: colpisce la modulazione della voce che supera nella forza espressiva anche la mimica del volto. Di tanto in tanto ci sfugge qualche parola, ma il suo personaggio è quello di uomo che si racconta…

Dà invece più all’occhio la parolina che qui è lì manca dalla Dea Atena (la pur bravissima Maria Rosaria Carli), i cui connotati  sono più onirici, le apparizioni più rare, la voce modulata dagli effetti eco e le parole gravi, come il timbro della sua voce.

L’Ulisse approfondito di Lo Monaco con l’ampio ventaglio di emozioni che sfoggia, si contrappone ai caratteri a volte anche infantili che lo circondano: la dea è eterea, le donne sembrano bambine ed Achille non si separa mai dalle sue armi.

Anche Cristina Da Rold nella sua scelta dei costumi, gioca di creatività e contaminazione: il dolente Patroclo la cui figura ossea insanguinata è ricoperta da uno straccio a coprirne i glutei, sembra l’immagine iconografica del Cristo crocifisso, mentre c’è un che di androgino nell’Antinoo dal trucco sbavato ed il sontuoso mantello sopra i boxer neri. Gli stracci di Ulisse e la tonaca di Laerte si contrappongono poi all’abbigliamento nel finale di Penelope e Telemaco degno quasi di un red carpet.

Come non menzionare infine, parlando di costumi, le armature antiche e pendenti dal soffitto, come un esplicito omaggio alla tradizione siciliana dell’opera dei pupi?

E’ davvero furbo questo Ulisse di mezzo: eroe quanto basta per affascinare, ma anche abbastanza umano per emozionare, antico a sufficienza per dare luce alla tradizione, ma al contempo sfrontato e intraprendente nei giochi estetici di luci, suoni, scene e costumi. E’piaciuto molto al pubblico del Pirandello, un pubblico appassionato, caloroso, ma cui manca ricambio generazionale: pochi i giovani spettatori. Quanto sarebbe stato più esaltante, poter notare in sala, la stessa contaminazione che dominava in scena?

A margine di questa riflessione una nota ambientale: sorprende, dando un occhio al cartellone la presenza insistita di famosi attori, spesso televisivi e ben sottolineati dal carattere maiuscolo a dispetto dei titoli delle stesse opere segnate in basso.

Mi domando come mai non si provi ad aggiungere accanto ai titoli che attirano gli abbonati, altre proposte, magari più simili a questo Ulisse, che rinnovino il pubblico e abituino al contempo quello attuale anche ad altro teatro.

Penso ancora con un certo orrore omerico al telefono che ha iniziato a squillare in piena declamazione del lamento per la morte di Ettore, con conseguente boato del pubblico, interrompendo l’orazione funebre. Lode all’attore che ha ripreso prontamente un momento di pathos così delicato dopo la bizzarria del momento, ma indizi del genere dovrebbero fare riflettere sulla necessità del teatro di farsi più presente e attento, per chi lo programma e per chi lo frequenta.