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sabato, Aprile 20, 2024
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“Angeli e Demoni”, il Teatro dei Venti fa scuola tra palco e realtà

Angeli e Demoni @ Chiara Ferrin
Angeli e Demoni @ Chiara Ferrin

MATTEO BRIGHENTI | Corpi, corpi stesi sulla sabbia, corpi a perdita d’occhio, onde immobili di un mare che non ha più lacrime. Il petto nudo, le gambe aperte in pantaloni corti e stazzonati, tenuti su con lo spago, la faccia coperta come si fa con i morti di morte violenta. Solo un uomo è in piedi, un muezzin che ha fatto dell’oscurità il suo minareto: salmodia “Allāhu Akbar”, “Dio è grande”. In fondo e in alto, sul palcoscenico, due donne ritmano pesantemente su due tamburi un invito al risveglio, alla forza, alla rivolta. Gli Angeli e Demoni del Teatro dei Venti sono uomini che riemergono dalle viscere del tempo, asce di guerra disseppellite da occhi smarriti: ognuno si alza con il suo andamento che diventa suono, gesto, linguaggio comune a tutti. La tragedia non è che esiste il destino, è non trovare il coraggio di resistergli e combattere per un destino migliore.
La scena è una spiaggia di richiedenti asilo emotivo. Sono i detenuti e gli internati della Casa di reclusione di Castelfranco Emilia e della Casa circondariale di Modena. Il progetto, infatti, è promosso dal Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, con la richiesta di lavorare su La Gerusalemme liberata, a cui partecipano anche gli studenti della V superiore dello Spallanzani di Castelfranco Emilia e la compagnia del Teatro dei Venti. L’opera del Tasso per il regista Stefano Tè è l’occasione di spingersi sul labile confine tra bene e male, e guardare in entrambi gli abissi, essendone ri-guardato a sua volta, come ben spiega Giulio Sonno su Paper street.
La battaglia tra ‘Angeli e Demoni’, i cristiani e musulmani del testo di partenza, è un incontro di suggestioni che procede per fermi immagine, una successione di quadri di perdizione e resurrezione sottolineati e scanditi dall’uscita dal buio alla luce, e viceversa. Gli attori-detenuti, ma bisognerebbe dire semplicemente attori, rispettando quando detto per gli attori ‘sensibili’ di Lenz Fondazione (il teatro è l’eterna sfida del presente per riscattarsi dal passato), sono senza infingimenti, la pelle tatuata, gli occhi fieri e timorosi. Chiedono aiuto, muti, con la sabbia che gli scivola tra le mani. Una volta in carcere, ci ha raccontato Tè, un detenuto per protesta si è cucito la bocca: si capisce allora che Angeli e Demoni è epica della realtà, ci riporta a vite che ci accadono vicino, ma qui non possiamo guardare e passare, dobbiamo guardare e restare.

Foto di Chiara Ferrin
Foto di Chiara Ferrin

Un momento dopo si asciugano le labbra riarse con la rena e poi arrivano gli studenti, calmi, lenti, con delle tazze di metallo in mano, e danno a ognuno qualche dito d’acqua. Sono ragazzi e hanno una gentilezza di latte e scarpe da ginnastica. Conducono le sofferenze di questi uomini sperduti in un luogo ‘altro’ dall’odio, dal terrore di questa spiaggia senza mare dove non c’è un attimo di pace, quiete, serenità.
Se dal loro incontro nascono le frasi della partitura scenica, le attrici del Teatro dei Venti ne sono la punteggiatura: non tutte le creazioni hanno uguale potenza visiva, eppure la convinzione non cala mai e il vigore e la tensione nemmeno. Nella messinscena Angeli e Demoni sconta quindi l’articolazione del progetto, con  le energie e risorse concentrate e concertate unicamente nei momenti di residenza: nel febbraio 2015 alla Corte ospitale di Rubiera, Reggio Emilia, nel giugno 2015 al Teatro delle Passioni di Modena e l’ultima, di nuovo alla Corte Ospitale, nel gennaio di quest’anno, con l’obiettivo del debutto in prima nazionale al Teatro Herberia di Rubiera.
L’ascolto e lo scambio tra i tre gruppi ci sono stati e si vedono, ma alcuni passaggi di stati d’animo e situazione non sono fluidi e lineari, la costruzione per stare in piedi ha bisogno ancora delle impalcature (ad esempio, un uso didascalico della musica, Marilyn Manson, The Cranberries, Šostakovič, a sottolineare circostanze e coloriture emozionali). Ostacoli, inciampi da cui Stefano Tè e Compagnia si devono rialzare, se è vero che il Teatro dei Venti vuole essere rappresentato da e in questa formula sulle assi del palcoscenico, e un domani anche negli spettacoli in strada, nelle piazze e negli spazi della vita quotidiana.
Il passo è comunque di quelli che, attraverso la formazione artistica, fanno incontrare la volontà e l’opportunità con un futuro di crescita individuale e collettiva: in scena, poco prima della fine, i ragazzi chiudono di sabbia le palpebre degli attori e raccolgono in eredità i loro movimenti, nella sorpresa di scoprirsi adulti tra gli adulti.
E poi gli Angeli e Demoni prendono gli applausi tutti insieme, abbracciati.

Angeli e Demoni
Uno spettacolo su La Gerusalemme liberata
con Maria Albamonte, Luca Arnaldo Alduzzi, Nicola Azzali, Giulia Basile, Morena Borrelli, Elisa Carucci, Saverio Casadonte, Oksana Casolari, Emanuele Cassin, Eleonora Cavilli, Laura Dallari, Daniele De Blasis, Massimo Dessì, Giada Di Lascio, Francesca Figini, Lucia Goldoni, Hanna Grahl, Lucio Improta, Karim Morad, Carlo Alberto Lomartire, Francisco Lopez, Youssef Medi, Roberto Milano, Lucia Moreali, Gionata Muratori, Penelope Muratori, Elisa Lucia Onfiani, Ciro Pecorella, Antonio Piccolo, Beatrice Pizzardo, Andrea Rogolino, Antonio Santangelo, Eleonora Segala, Felice Spavento, Valeria Topala, Mersia Valente
regia Stefano Tè
progetto realizzato con il sostegno del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, Comune di Modena, Comune di Castelfranco Emilia, in collaborazione con la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, la Casa Circondariale di Modena e la Corte Ospitale di Rubiera
Visto sabato 23 gennaio, Teatro Herberia, Rubiera, Reggio Emilia.

Il “Faust Marlowe Marionette” di Veggetti/Scarlini

VALENTINA SORTE | La IX edizione di IF, il Festival Internazionale di Immagine e Figura organizzato dal Teatro del Buratto, ha ospitato dal 22 al 24 gennaio un piccolo gioiello firmato da Luca Scarlini e diretto da Luca Veggetti: Non essere, una tentazione.

12654175_10153887250101944_2891753721315087405_nSi tratta di uno studio sul Dottor Faustus di Marlowe, una riscrittura molto libera e coraggiosa del testo originale, “La tragica storia del Dottor Faust” appunto. Luca Scarlini torna all’Ur-Faust e se ne riappropria, condensando la mai-conclusa e la mai-appagata ricerca esistenziale del protagonista (una Sehnsucht ante litteram) in dieci quadri, dieci monologhi interiori che raccontano un Io profondamente diviso e frammentato. Per l’esattezza: Uno studio in rosso; Scrivo, dunque sono? Specchio; Desiderabile; Invocazione; Ritirata strategica; Tentativo di ribellione; Prove di afasia; Canto della resa incondizionata e del silenzio prolungato; Acromo, felice.

Con un’intuizione molto buona Luca Veggetti riesce a intercettare il mondo interiore di Faust e a inserirsi – sviluppandola – nella scia aperta da Scarlini. Se infatti sulla carta, Faust, tutto preso nel suo arrovellamento interiore, si muove e si dimena come una marionetta che, pur vedendo i propri fili, non riesce in realtà a disfarsene, in scena Faust si fa vera e propria Marionetta. E quella creata da Moe Yoshida è di rara bellezza. È una silhouette antropomorfa, la figura stilizzata di un uomo, a grandezza quasi naturale : tanto semplice e leggera nelle linee quanto elaborata e solida in alcune parti, la spina dorsale fra tutte. Ogni anello della colonna vertebrale è infatti rivestito da profili umani che la irrobustiscono e che sono la traduzione “materica” dei mille fantasmi che abitano Faust. La testa al contrario è sottoposta ad un’operazione di svuotamento  e alleggerimento (nonostante il carattere fortemente celebrale di questa creatura). A suggerirla basta il suo profilo e due piume al posto delle palpebre. SuperMarionetta? O meglio Ur-Marionetta? La riflessione rimane ancora aperta. Il teatro di figura non sembra essere per Non essere, una tentazione uno dei linguaggi o delle “semiotiche” possibili, ma LA sua vera e propria deissi.

Non solo durante tutto lo spettacolo la figura di Faust è manovrata a vista da una danzatrice (un’ottima Stefania Tansini), grazie ad una struttura flessibile di lunghe bacchette che consentono un movimento simbiotico tra i due corpi, ma ad un certo punto, un passo a tre tra la marionetta, la danzatrice/manovratrice, e Luca Veggetti – presente in scena nella doppia veste di coreografo e servo di scena – trasforma e infittisce la dicotomia agente/agito, rendendola più complessa – poiché trina –  e autentica cifra drammaturgica del lavoro. La Tansini da manovratrice diventa a sua volta manovrata, e Faust di riflesso un’estensione mobile e intima di un’altra estensione. Agito dall’agito. A muove B che muove C. Da qui, A muove C. La matematica tramite la danza diventa poesia.

E’ sicuramente un lavoro costruito su un forte equilibrio espressivo, in cui cioè ogni elemento è strettamente legato all’altro: danza, movimento, oggetti scenici, corpi scenici, luci, testo, parola, musica e paesaggio sonoro. Ogni dettaglio è estremamente curato e necessario all’interno della creazione. Ne sono una dimostrazione l’attento disegno luci – capace di guidare lo sguardo e suggerire chiavi di lettura – ma ancora di più il progetto sonoro di Paolo Aralla, sia per quanto riguarda i brani di accompagnamento ai dieci quadri (ad esempio la riproduzione di soffi o rantoli elettronici, ricavati da flauti baritono) che per la captazione sonora dello spazio scenico. Al centro del Teatro Verdi un’enorme pedana, inclinata e mobile, grazie a un sistema di microfoni amplifica ogni movimento dei performer. Altra estensione, questa volta sonora, del percorso esistenziale del protagonista.

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Lo spettacolo presenta ancora dei margini di miglioramento (primo fra tutti lo snellimento del testo) ma si dimostra una prova riuscitissima. Lontana certo dal memorabile allestimento di Trionfo/Salveti “Faust Marlowe Burlesque” con Carmelo Bene e Franco Branciaroli nel 1976, ma altrettanto apripista. “Faust Marlowe Marionette”? Potrebbe darsi

Convenzioni e sonagli: il Pirandello di Malosti

ELENA SCOLARI | Siamo al Teatro della Società di Lecco, questo piccolo e accogliente teatro all’italiana ospita Il berretto a sonagli di Pirandello per la regia di Valter Malosti, 4_Caronia_Malosti_Di_Bella_IL-BERRETTO-A-SONAGLI-650x400direttore della compagnia Teatro di Dioniso. La versione scelta da Malosti è quella della prima stesura del testo, in siciliano, che mantiene sfumature di tono più difficili da rendere con l’italiano.

La vicenda della moglie tradita, inviperita, che vuole pubblica vendetta per la sua umiliazione, si consuma in uno spazio claustrofobico, qui accentuato dalle dimensioni ridotte e penalizzanti del palco, specchi (dall’aspetto un po’ cheap, a nostro gusto) che raddoppiano e dovrebbero essere d’impiccio – psicologico – ai personaggi.

Beatrice la tradita, agisce dall’inizio su un piano inclinato irregolare, come un effetto ottico sbagliato, dall’inizio è esagitata ed esibisce la sua rabbia e il suo piano per “sporcellare” il marito davanti a tutto il paese. Anche la sua previsione è un effetto ottico sbagliato, infatti è già chiaro che non avrà mai ragione del torto subìto. Anzi ne sarà doppiamente vittima.
La interpreta una nervosa Roberta Caronìa, impegnata nell’incarnare anche col corpo l’esasperata ricerca di ammissione di colpa del maschio che non ha saputo mantenere la promessa fatta col matrimonio.
Insistito è il fastidio verso gli uomini tutti, complice la Saracena (Paola Pace), mal considerata da tutta la comunità, che spinge Beatrice a mettere in atto il suo piano per ottenere giustizia. Alla Saracena fa da contrappeso la serva Fana (Cristina Arnone), avveduta e timorata, che mette in guardia la padrona dalle conseguenze che inevitabilmente lo scandalo tanto cercato porterà: la rovina delle due famiglie coinvolte, quella di Beatrice stessa e quella di Ciampa (Malosti), dipendente del cavaliere e a sua volta marito cornuto dalla procace Sarina.
Lo stratagemma per beccare in flagrante i due fedifraghi conseguirà l’arresto di entrambi, ma non per il tradimento, altri saranno i capi d’accusa. Il fedele delegato Spanò (Paolo Giangrassoun comico e devoto funzionario della legge), incaricato di dare corso alla denuncia della donna, afferma che “sul verbale il tradimento non c’è”, dunque si dovranno rilasciare cavaliere e signora Ciampa la sera stessa.
La soluzione, subitamente condivisa da tutti, madre e fratello di Beatrice compresi, è farla credere pazza, mandarla in manicomio per soli tre mesi, una villeggiatura… per rimettere ordine nell’onore di tutti.
Non così assurda sembrerà la proposta di fittizia pazzia, data l’incontenibile agitazione della Signora, esibita fin dall’inizio.

Di cosa stiamo parlando? Non di sole corna, naturalmente, ma di stereotipi, della prevalenza delle apparenze, a costo della dignità della vittima, di verità svenduta per amor di convenzioni sociali. Malosti costruisce sapientemente per sé un Ciampa complesso, che quasi ci convince nella sua tirata sull’equilibrio di “corda civile, corda seria e corda pazza” come i tre umori che costituiscono i fluidi della vita. A lui la maggior profondità, spiegatissima: un uomo umile ma rispettato, maturo, che conosce benissimo le tresche della giovane moglie ma le accetta di buon grado purché non siano di pubblico dominio, per mantenere il suo posto di lavoro e il suo posto nel mondo. Senza tanto rumore.
Beatrice crede di poter acquistare la libertà sbertucciando il marito, porterà invece l’onta della follia per lasciare tutto com’è. In Sicilia i gattopardi abbondano, si sa.

Qui vediamo la ricreazione della compagnia di giro con il capocomico, anche nello stile delle uscite per gli applausi. E questa è una scelta, libera. Però i personaggi dai tratti marcati, le parrucche, le autoreggenti in abbondanza, le camminate pesanti, un certo continuo surplus espressivo evidenziano il lato farsesco del testo, a discapito di una più moderna sottigliezza interpretativa.
Nella forma del dramma borghese, il primo Pirandello ha indagato il contrasto di essere e apparire, di codici sociali stantii contro gli slanci vitali dell’uomo (e della donna). Oggi questi temi hanno cambiato fisionomia, nel mondo, Il berretto a sonagli di Malosti è indubbiamente “sonoro” nella sua cifra tradizionale ma ci pare difetti di uno sforzo di “lucidatura” di testo e stile recitativo che lo renda ancora pulsante.

adattamento e regia Valter Malosti
con Roberta Caronia, Valter Malosti, Paola Pace, Vito Di Bella, Paolo Giangrasso, Cristina Arnone, Roberta Crivelli
scene Carmelo Giammello
costumi Alessio Rosati
luci Francesco Dell’Elba
cura del movimento Alessio Maria Romano
macchinista e direttore di scena Gennaro Cerlino
assistente alla regia Elena Serra
Teatro di Dioniso
con il sostegno di Sistema Teatro Torino

Per favore, non portarmi su quel palco: Talarico/Ruocco e il gioco con il pubblico

IRIS BASILICATA | “Era meglio se me ne stavo a casa!”. Quante volte ci siamo ripetuti questa frase quando, durante uno spettacolo, abbiamo sentito la fatidica frase “E ora sceglierò uno di voi per.. ”? Il protagonista delle produzioni di DoppioSenso Unico, compagnia teatrale formata dall’insolito duo composto da Ivan Talarico e Luca Ruocco sembra essere proprio il pubblico.
La compagnia ritorna al teatro dell’Orologio di Roma con una trilogia dal titolo Niente di nuovo sotto il suolo. Perché effettivamente, sotto il suolo che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, nulla è poi così speciale come potrebbe sembrare. Parlare della morte non ha mai fatto ridere così tanto. La variante E.K - ph Manuela Giusto (2) La prima cartuccia delle tre è La variante E.K., in cui un giovane protagonista viene indottrinato da due maestri becchini su vari tentativi di suicidio con la speranza di trovare quello a lui più congeniale. Gli attori non fanno in tempo ad entrare in scena che subito trascinano con loro un ragazzo del pubblico. Per la serie: stasera vado a teatro e mi rilasso. Sarà proprio lo spettatore scelto dagli attori ad interpretare E.K., variante ogni volta diversa protagonista dello spettacolo.
La peculiarità del lavoro del duo, che opera ormai insieme dal lontano ’99 e che ricorda famose coppie comiche della tv degli anni settanta, è quello di coinvolgere i propri spettatori nel vero senso della parola. I “mal capitati” all’inizio sovrastati dall’imbarazzo di essere catapultati in scena, rispondono poi piacevolmente al lavoro attoriale. Grazie alla bravura dei due attori riescono abilmente a passarsi la palla di battute e di giochi linguistici che mai avrebbero pensato di dover fare. Le improvvisazioni danno vita a degli esilarantissimi sketch comici inevitabilmente differenti sera dopo sera sovrastati da un alone di spontaneità che ne è, inevitabilmente, la carta vincente.

Anche g.U.F.O., secondo spettacolo della trilogia, include spettatori per la messinscena. gU.F.O - ph Manuela Giusto (20)I protagonisti sono gufi ed alieni le cui vicende si alternano con quelle di fantasmi storici quali Marx, Darwin, Hitler, Freud, Netwon e addirittura lo stesso Gesù, che mostrano con freddure da brivido in che modo rapiscono gli alieni. La forza del loro rapimento, però, è fragile quanto il retino per farfalle che gli attori utilizzano in scena a conclusione dei loro siparietti. Anche qui gli sketck comici focalizzati su giochi e assonanze di parole si alternano ora con le vicende di due gufi intrappolati in una vita monotona e claustrofobica (maschere di Tiziana Tassinari) che dialogano tra loro con freddure da brividi, ora con alieni militari che si prendono gioco del pubblico.

Dopo l’alienazione si passa alla morte per malattie con Operamolla, solo che stavolta il morto in scena c’è e viene celebrato un vero e proprio funerale in suo onore. Quattro portantini scelti tra gli spettatori portano il cadavere di Ruocco fuori dal teatro. Adagiato sul freddo marciapiede, Ivan Talarico chiede a tutti di ricordare il suo amico e collega con dei pensieri e frasi di circostanza. Operamolla - foto di Manuela Giusto (9)Tra il pubblico che non riesce a smettere di ridere e i passanti increduli, Talarico è l’unico a soffrire per la morte del collega: tutto intorno a lui sghignazzano per la situazione surreale, mostrando quanto un macabro rito funereo possa essere invece motivo di felicità altrui. Lo spettacolo riprende in sala non senza prima aver fatto le dovute condoglianze al distrutto Talarico. Un susseguirsi di continue domande sul come debellare le malattie che portano inevitabilmente alla morte, trovano risposte nei consiglio di santi identificati in accensioni di lampadine o da squilli di un telefono posti in proscenio. Il gioco tra la vita e la morte è composto da pedine di spettatori che trasformano le loro risate in un sorriso stentato quando, abbandonati i giochi e le maschere, il duo svela come alcune vicende da loro realmente vissute abbiano poi portato alla costruzione di quello che fino ad adesso ci ha fatto ridere tanto.
Il teatro di DoppioSenso Unico è farcito di maschere, travestimenti, clownerie, teatro dell’assurdo, parole surreali, assonanze, freddure e black humour senza mai perdere il fulcro centrale dello spettacolo. La trilogia Niente di nuovo sotto il suolo vuole essere un’esilarante quanto amara riflessione sul fatto che solo una cosa è certa nel futuro di ognuno: alla fine della vita sicuramente ci aspetta il buco nero della morte, che è uguale per tutti e non riserva nulla di speciale per nessuno. La morte, raccontata dall’allegro quanto serissimo duo, non è mai stata così digeribile.

Dark Circus e The Best Thing: teatro di figura e muppets al MIME 2016

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Foto : Christophe RAYNAUD DE LAGE

ROBERTA LEOTTI | “Diventate infelici”, è lo slogan provocatorio del Circo Oscuro; la magnifica performance di Romain Bermond and Jean Baptiste Maillet, visual artists della Stereoptik, di recente in scena al Barbican.

I due artisti sono ai lati opposti della scena con due diverse postazioni: strumenti musicali alla parte sinistra per Maillet ed al lato opposto per Bermond, un tavolo con una base di vetro su cui è posizionato l’obiettivo di una telecamera, disegni, sagome di cartone ed ancora, pennelli e boccette varie… sì perchè la loro esibizione è tanto la storia proiettata, quanto il come questa viene creata al momento.

Una sorta di simbiosi, un momento di evasione che il duo vuole condividere con il pubblico, mostrando una storia attraverso la combinazione di tecniche cinematografiche ed altre tradizionali, legate alle abilità di cartonista, disegnatore e burattinaio.

L’attenzione del pubblico passa con curiosità e meraviglia dalla precisione creativa della manualità Romain con l’accompagnamento elettroacustico di Jean-Baptsite allo spettacolo circercense proiettato, nato dalla collaborazione con l’autore francese Pef, nonchè amico degli artisti.

Romain letteralmente strabilia il pubblico riuscendo a creare una sagoma con l’acqua e Jean Baptiste in un altro numero, a dare densità alla stessa, grazie ad un forte contrasto bianco e nero, il tutto utilizzando un piccolissimo acquario, dalle dimensioni di una scatola da scarpe ed arti di porcellana a rappresentare il numero dell’artista del circo che fa immersioni.

Bianco e nero  sono i colori predominanti della proiezione per buona parte della show, come le scene inziali poetiche e malinconiche del paesaggio dove la tenda da circo trova collocazione, ma nonostante i fatti catastrofici proiettati, la storia e’ un crescendo di ritmi e colori.

Sebbene il presentatore del circo mantiene sempre il suo aplomb, non scomponendosi minimamente per la morte degli artisti, il gran finale con la parata degli artisti circensi è un elogio alla vita, tra colori sfavillanti e musiche dalle basi reggae.

Una stupefacente esibizione per perfetta sincronia dei due artisti e la varietà di espedienti tecnici che lasciano innegabilmente lo spettatore indeciso se volgere l’attenzione agli artisti o alla storia.

Vamos Theatre - The Best Thing © alienpen and Graeme Braidwood (1)
Foto: Alienpen e Graeme Braidwood

 

Di tutt’altro genere la seconda proposta del Vamos Theatre che lo scorso fine settimana ha portato in scena lo spettacolo di mimo: The Best Thing al Jackson Lane Theatre.

Il titolo rimanda alla frase spesso utilizzata con le giovani, anche subito dopo aver partorito, per rendere piu’ indolore e veloccizzare il processo di adozione: “it is the best thing for the baby, it is the best thing for you; sign here.”

La scenografia anticipa e svela la tematica della pièce: certificati di nascita e foto di bambini sono incollati a decoupage sui pannelli ai lati della scena e sulla cornice della struttura centrale, leggermente sopraelevata rispetto al resto della scena e chiusa quasi fosse una vetrina di un negozio.

Certamente un accorgimento per dare una diversa dimensione ed enfatizzare maggiormente le vicissitudini della protagonista ed a rimarcare forse, quanto la giornalista Yvonne Roberts denuncia nel suo articolo per il Guardian e spunto della drammaturgia: il dramma delle giovani non sposate che negli anni sessanta furono costrette a dare i figli in adozione.

La drammaturgia si sviluppa in due diversi periodi che si alternano, si contendono o interagiscono nella scena dando un certo movimento ad uno script che forse manca di originalità: il presente con una giovane donna alla scoperta delle sue origini (Lisa) e la storia della madre di questa (Susan) quando fu costretta a darla in adozione.

Gli arrangiamenti scenici, ma specialmente le coreografie di Rchael Alexander con le musiche di Janie Armour, riescono a dare spessore anche a quelle scene carenti di complementi scenografici.

Tra queste, la divertente lezione di dattilografia dove i protagonisti sono seduti su sgabelli e perfettamente coordinati, mimano il battere sui tasti ed il riposizionamento del rullo non appena arrivano alla fine della riga e coincidente con il suono del campanellino di fine battitura.

Gli attori in scena sono ridicolmente sgraziati dalle maschere di Russell Dean; tutte con naso ed occhi sproporzionati e dalle espressioni spesso severe.

Tuttavia non cosi’ grottesche da non riuscire a convogliare il pathos richiesto della scena principe con il padre che prende la mano alla figlia ad “aiutarla” a firmare per l’adozione della nipote.

Questa è anticipata da un’ altra scena comica di due partorienti in travaglio, le cui maschere e suoni associati alle contrazioni sono irresistibili, così come le enormi camicie da notte e pantofole di pelo a completarne il look di scena volutamente esagerato.

In contrapposizione, il parto della protagonista non è associato nessun suono a testimonianza della solitudine del momento, tra la paura e l’indifferenza dei modi frettolosi dell’infermiera di turno.

Ancora più dolorosa a breve sopraggiunge la separazione tra la madre e la figlia; momento decisivo vissuto quasi in un’immaginaria interazione tra le due donne, qui ben interpretate da Angela Laverick  e Sarah Hawkins.

Nonostante la buona coesione tecnica ed artistica della Vamos Theatre, forse la tipologia di arte performativa qui utilizzata non risulta fino in fondo la più appropriata il tema trattato, tanto difficile quanto sentito nel Regno Unito.

 

Sulla morte, senza esagerare. A passo di samba

ELENA SCOLARI | La morte è un uomo e porta un cardigan. Un remissivo cardigan da professore di ripetizioni di latino  (io ne avevo uno che vestiva così), con un buco nella manica, e si porta appresso un piccolo cactus in vaso. Non fa paura, ha l’aria un po’ triste, impiegatizia, scialba. 1452328969_12493657_1518538318442699_4962044112160569733_o
Aspetta chi la deve raggiungere con pazienza, su una panchina, proprio come un pensionato al parco. L’arrivo di un potenziale “dipartente” dal mondo dei vivi è annunciato da uno sgraziato campanello e dalla luce fioca di un lampione. Un protocollo formale prevede che Morte allunghi le braccia in gesto di accoglienza verso il morituro con un sottofondo musicale. E se vi invitasse ad abbracciarla a passo di samba? Vi congiungereste a lei più volentieri che con il sottofondo di un austero canto gregoriano, no?
Ma per questa variazione brasileira interverrà un angelo operaio, più dinamico, con ali e cintura da idraulico per gli attrezzi, una specie di agente controllore che veglia affinché tutto funzioni, tecnicamente parlando.

Tutto ciò avviene senza parole, il Teatro dei Gordi non usa testi ma proietta sul fondo nero della scena alcuni versi della poesia di Wislawa Szymborska che dà il titolo allo spettacolo: Sulla morte senza esagerare. A mo’ di cartelli del cinema muto. Una stampella di senso usata in modo un po’ scolastico, a dire il vero.
I versi scelti parlano di una morte impacciata, imprecisa, che subisce sconfitte,
che non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere: 
né scavare una fossa, 
né mettere insieme una bara, 
né rassettare il disordine che lascia.
E questa morte – con maschera di teschio – ci fa anche un po’ tenerezza, impegnata in un lavoro noioso, in fondo, goffamente costretta ad infilarsi il tipico cappuccio nero per incutere un po’ di timore, ma con quel cardigan…
Prova a fumarsi un sigaro infilandoselo nell’orbita dell’occhio ma viene sempre interrotta. Niente da fare.

I cinque attori (Claudia Caldarano, Giovanni Longhin, Andrea Panicati, Sandro Pivotti, Matteo Vitanza) usano maschere di cartapesta molto belle (di Ilaria Ariemme), che ricordano le caricature, tratti marcati, facce più grandi del vero, con i difetti accentuati. Direi quasi che sono le loro maschere, perché movenze e fisicità sono per tutti fortemente legate all’area semantico/prossemica che la maschera immediatamente evoca: i vecchi tremolanti, la prostituta sguaiata, la donna incinta a schiena inarcata, il giovinastro dall’andatura molleggiata…

La struttura dei 35 minuti di spettacolo (ideatore e regista Riccardo Pippa) è il susseguirsi dei personaggi che dovrebbero morire: il meglio tratteggiato è un buffo e anziano signore in impermeabile, una via di mezzo tra Prodi e Andreotti, che compare in scena con un grosso cappio, molle, al collo. Ha con sé una lettera (forse la propria lettera di suicidio), che consegna alla morte compìto come un compito, ella la legge, gliela restituisce, gli stringe un po’ il cappio e fa capire che ci deve riprovare. Non è il momento. Il signore se ne andrà riarrotolando la sua lunga corda. Ma continuerà a tornare, più volte, prima o poi ce la farà.
I più poetici sono due vecchietti, lei che amorevole gli abbottona la giacca del pigiama perché sia presentabile all’appuntamento, lui che abbraccia Morte e trapassa facendosi sfilare la maschera, qui si ri-svela giovane, e saluta la vecchia moglie con l’aspetto del suo momento più vigoroso, che ora riprenderà. Per sempre.
Molto meno riusciti perché troppo accennati e frettolosamente liquidati sono la futura mamma trattenuta alla vita dal nascituro che la tira verso l’aldiquà, un soldato che corre impaziente verso la fine, e un giovane in tuta che corre troppo in macchina.

Emerge un po’ di meccanicità, che forse anche Morte avverte, tanto da dover cedere il posto ad un sostituta, aver cambiato il golf non è bastato: questa signora della Fine non è eterna.

Kriminal Tango e il suono dei soldi

Kriminal Tango - Marco Cavalcoli_3-kr1E-U1050593881462J7C-700x394@LaStampa.itNICOLA ARRIGONI – Kriminal Tango è un recital, ma è anche tappa di un percorso. Il percorso è quello che porterà all’elaborazione del Discorso Verde di Fanny & Alexander, lavoro sul denaro e l’economia, che arriva dopo quelli legati alla politica (grigio), all’educazione (giallo) e allo sport (azzurro). Dopo il destabilizzante, potente, perfetto Scrooge – visto l’estate scorsa a Drodesera – con Kriminal Tango, Marco Cavalcoli e Chiara Lagani, insieme a Luigi De Angelis si prendono una pausa, si concedono un divertissement. Ed in effetti come tale deve leggersi, anche se non mancano in Kriminal Tango elementi di costruzione drammaturgica che ammiccano a un mondo criminoso, a un passare di mano in mano di denaro e fortune più o meno estorti, flusso di ricchezza e potere che seduce e contamina. In un ambientazione da night con tavolini dove prende posto il pubblico e camerieri che girano per ricevere le ordinazioni Buscaglione/Cavalcoli si diverte, affiancato dall’Orchestrina di Bluemotion. Fred Buscaglione alias Cavalcoli con tanto di paglietta e sigaro non solo sciorina il suo repertorio, ma ne fa – con accenni a volte velati altre volte espliciti – un testo nuovo.

KRIMINAL-TANGO_foto-di-Andrea-Macchia-e1434277263424 Fanno allora capolino – fra una canzone e l’altra – anche il sorriso di Berlusconi, l’attualità, il miracolo economico che fu, le seduzioni del denaro che non basta mai, che non serve ad acquistare qualcosa, ma diviene l’unico e vero fine dell’umana esistenza dei giorni nostri. Suggerimenti, citazioni si rincorrono sulla scia di un recital canoro e musicale raffinato, leggero, intelligente. Come sempre Marco Cavalcoli è perfetto, ironico, divertito e divertente, si assiste con piacere a un’ora di buona musica con un pizzico di sapore vintage.Tutto ciò in Kriminal Tango vive con equilibrio e dimostra di essere proiettato verso un altrove che lascia l’amaro in bocca, che ci fa dire di aver assistito a una parte di un tutto che deve ancora venire. Sensazione questa che non si era percepita in Scrooge, allestimento più complesso, linguisticamente più elaborato e con maggiore energia. Con l’amarezza ma anche la speranza di un Discorso verde al di là da venire, Kriminal Tango offre comunque l’occasione di incontrare e apprezzare il lavoro di Fanny & Alexander, l’intelligenza e la voglia di essere presenti e menti pensanti del teatro di Luigi De Angelis, Chiara Lagani e ovviamente Marco Cavalcoli.

Kriminal Tango di Chiara Lagani, regia Luigi De Angelis, con Marco Cavalcoli e con l’Orchestrina di Bluemotion; ideazione Luigi De Angelis e Chiara Lagani, drammaturgia e costumi Chiara Lagani, progetto sonoro Luigi De Angelis e Andrea Pesce, produzione E / Fanny & Alexander, visto ala Teatro al Parco di Parma, 15 gennaio 2016.

Muti come pietre. Stones, degli israeliani Orto-Da

GIULIA RANDONE | Da dieci anni nel nostro calendario c’è una ricorrenza in più: la Giornata della Memoria. Una memoria che dobbiamo fare nostra, perché non nasce da esperienza, ma è stata ereditata. Una memoria che dobbiamo proteggere sia dal relativismo che dalla strumentalizzazione: minacce che si fanno ancora più acute quando a essere ricordato è lo sterminio del popolo ebraico. Lo spettacolo Stones (Avanim), della compagnia israeliana Orto-Da, nasce proprio dal desiderio dei registi Yinon Tzafrir e Daniel Zafrani di guardare alla Shoah da una prospettiva personale, sfidando i tabù e la sacralità che avvolge la sua narrazione e la sua manipolazione a scopi politici.

STONES_IMG_7289Lo spettacolo, in scena dal 19 al 24 gennaio al Teatro Gobetti di Torino, nel cartellone del Teatro Stabile, inizia al buio sulle note del famoso tema di Così parlò Zarathustra di Strauss, su cui si staglia una voce enfatica. Lo spettatore viene a conoscenza della storia di alcuni blocchi di granito che Hitler, certo dell’imminente vittoria, aveva fatto trasportare dalla Svezia alla Polonia in previsione della costruzione di un monumento che celebrasse il trionfo del Terzo Reich. Le pietre, però, avranno tutt’altra destinazione. Nel 1948, lo scultore ebreo polacco Nathan Rapoport le modellerà per dare forma al Monumento agli Eroi del Ghetto di Varsavia, un imponente bassorilievo eretto in mezzo alle rovine della capitale e oggi meta di pellegrinaggio e commemorazioni. Quando due potenti fari illuminano la scena, appare davanti a noi proprio questo gruppo scultoreo, reso con sorprendente verosimiglianza dai sei attori-mimi della compagnia. Ricoperti di pittura color bronzo da capo a piedi, gli attori incarnano i protagonisti del monumento: giovani uomini armati, una donna e un bambino, esseri umani dai vestiti laceri e impressionanti occhi incavati.

L’avvio della colonna sonora della seconda guerra mondiale – grida in tedesco, latrati di cani, mitragliatrici e sferragliare di treni – infonde vita alle statue, che si trovano catapultate nell’orrore del ghetto e dei campi, preda della fame e delle sevizie dei nazisti. Ma qui interviene la novità degli Orto-Da, capaci di trasformare i momenti più drammatici in qualcosa di diverso. La violenza e l’umiliazione non vengono annullate, ma alla comunità che ne è stata vittima viene in qualche modo offerta la possibilità di reagire. E, con un gesto comunitario, questo affiatato ensemble controbatte alla morte con il gioco. Per un uomo che muore sul filo spinato, altri trasformano quello stesso filo in un pentagramma. Per coloro che sono stati costretti a indossare la stella di David, altri fanno di quei simboli infamanti una costellazione burlesca. E digitando i numeri con cui in tanti sono stati marchiati nel Vecchio Mondo, si avvia una banale conversazione telefonica nella “nuova” terra promessa.

Sempre senza proferire parola, i protagonisti si imbarcano infatti su una nave che, tra i marosi del secolo breve, li guiderà alla costruzione dello Stato di Israele e alla sua difesa armata. L’apparente fine dell’odissea è salutata dalle sonorità di Always look on the bright side of life alternate a rapidi colpi di mitragliatrice, mentre la retorica del sionismo socialista è sferzata dall’arrangiamento di We will rock you. La minaccia antisemita non è estinta, ma temporaneamente fatta detonare dalle risate che suscita la parodia di un Hitler fantoccio impegnato in meditazioni New Age.

La pantomima grottesca di Stones, con il suo accostamento di alto e basso, di musiche pop e richiami ambivalenti alla cultura ebraica, è coinvolgente perché richiama la vitalità della cultura ebraica popolare, che nella prima metà del XX secolo ha creato capolavori letterari e teatrali in lingua yiddish e ha contribuito allo sviluppo del cinema hollywoodiano. Oggi, purtroppo, dei primi resta scarsa memoria, e perfino un paladino del mondo yiddish come Moni Ovadia sembra avere perso la propria vocazione, cadendo nella riproposizione di barzellette che, davvero, non rendono giustizia alla ricchezza tragicomica del mondo ebraico che fu. Stones, invece, in qualche modo ce la fa intravedere.

E anche per questo siamo disposti a scusargli i difetti che uno spettacolo rodato, con alle spalle centinaia di repliche in tutto il mondo, avrebbe potuto correggere. Anzitutto l’eccessiva lunghezza. Sapendo che lo spettacolo esiste anche in versioni da 20’ e da 40’, spesso si ha l’impressione che alcune scene siano state forzosamente allungate. Scene che, ed è questo un altro difetto, trascinano con sé un ingombrante corredo sentimentale. Di certo molti dei quadri drammatici che avevano per cornice la musica de La vita è bella nascono come bersaglio polemico su cui innestare i contrappunti grotteschi, ma il loro sentimentalismo è davvero respingente e andrebbe contenuto.

“Loro” di Maurizio Patella: dal B-movie a Lucarelli

VALENTINA SORTE | Se Gigi Marzullo fosse stato in sala, probabilmente si sarebbe chiesto se “Loro” è la vera storia del più famoso rapimento alieno in Italia o piuttosto la storia “vera” del più famoso rapimento alieno in Italia? La posizione dell’aggettivo non è poi così indifferente. Tutt’altro. Il titolo originale dichiara subito la veridicità dei fatti narrati e il taglio documentaristico dello spettacolo: “Storia vera..”. E’ successo veramente. Ma il carattere fortemente inverosimile della vicenda raccontata, un rapimento alieno appunto, fa sorgere qualche dubbio.

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Loro – Storia vera del più famoso rapimento alieno in Italia, Maurizio Patella
“Loro”, scritto e diretto da Maurizio Patella, gioca in modo originale sulla sospensione dell’incredulità dello spettatore. Da una parte si fa teatro di narrazione, presentandosi come un’attenta e documentata telecronaca: solo in scena, l’attore racconta fedelmente le numerose testimonianze relative ai rapimenti alieni di un metronotte genovese. Dall’altra parte la scena si popola di figure strane: il rigore della narrazione lascia spazio all’ufologia e alla fantascienza, a effetti speciali volutamente grossolani e demenziali. Dove collocarsi quindi?

Tutto inizia la notte del 6 dicembre del 1978, quando il metronotte Piero Zanfretta, durante l’ispezione di alcune ville dell’entroterra ligure, viene rapito dagli alieni. Nonostante le diverse testimonianze degli abitanti del posto, nessuno sembra credergli. I rapimenti però si ripetono e Piero viene sottoposto a diverse sedute di ipnosi regressiva e persino all’iniezione del Pentothal. Diventa un caso mediatico. Una perizia psichiatrica lo dichiara sano di mente. La Procura di Genova apre allora un’inchiesta e nei due anni successivi le sparizioni arrivano a undici, ma a poco a poco la storia viene insabbiata e Piero viene abbandonato al suo destino, finendo per perdere lavoro e famiglia. Tutto.

Patella si muove abilmente all’interno di questa ricostruzione storica, passando dagli anni di piombo, il brigatismo, la lotta armata, Sandro Pertini, la P2 e il sequestro De André che fanno da sfondo alla vicenda a un registro più grottesco, tipico del kolossal demenziale o dei film di fantascienza di quart’ordine. Come un marionettista, l’artista genovese muove, dirige, trascina e dà voce a un’infinità di personaggi (il sindaco di Torriglia, Don Pietro, il brigadiere Nucchi, il maresciallo Toccalino, il tenente Cassiba, il giornalista Rino Genovese…) affollando la scena di giocattoli e soldatini, Big-Jim e G. I. Joe, robot meccanici e Fiat 127, aeroplani e oggetti volanti. Un insolito e curato allestimento vintage dove il teatro di figura si fa affabulazione visiva e sonora.

Come un bambino che crede fino in fondo al suo gioco, Patella trascina il pubblico in una dimensione ludica, nonostante da una parte il senso di realtà/cronaca siano sempre presenti e dall’altra l’artificio/l’effetto speciale siano dichiarati apertamente come tali. Proprio questa confusione di piani – tra umano e non-umano, terrestre ed extra-terrestre, finzione e realtà, normale e paranormale, cronaca-complotto, coscienza-ipnosi – rafforza la “verità scenica” che regge tutto lo spettacolo, tanto che il passaggio dentro e fuori la storia (nei due/tre appelli al pubblico o a parte) non segna affatto una rottura. Al contrario.

Lo spettacolo ha meritato ben giustamente la menzione speciale “Franco Quadri” al Premio Riccione 2013. Oltre alla drammaturgia, che vede la preziosa collaborazione di Antonio Paolacci, un altro punto di forza di “Loro” è l’allestimento scenico che grazie all’uso di semplici scatoloni e oggetti riesce a evocare paesaggi e luoghi, così come l’ottimo disegno luci di Davide Rigodanza e le musiche ricreano atmosfere sospese, a metà tra il poliziesco e lo splatter.

Il lavoro è molto convincente, anche se sicuramente un’ulteriore riduzione rispetto alla versione originale renderebbe ancora più godibile lo spettacolo, senza in alcun modo togliere alla narrazione la sua ricchezza e la sua originalità.

Adriatico, Eva Robin’s e lo schiaffo in faccia di una trans populista

transtdvMARTINA VULLO | E se un bel giorno il politico acclamato di turno fosse una trans decisamente in-trans-igente verso ogni tipo di diversità?

Difficile da immaginare? A questo proposito ci viene incontro lo spettacolo di Andrea Adriatico Delirio di una Trans populista, andato nuovamente in scena ai Teatri di Vita (dopo le rappresentazioni d’esordio di 2 anni fa) dal 13 al 17 Gennaio, dove una formidabile Eva Robin’s si diletta a fomentare le masse con discorsi pseudo-dittatoriali e dal sapore assurdo (visto che le varie frasi oltre ad essere sconnesse, sembrano contraddirsi fra loro).

Per quanto al discorso surreale si accompagni una scenografia molto essenziale (pochi blocchi di paglia a sostituirsi a una pedana e a delle panche, in una sala svuotata da poltrone), siamo decisamente lungi dalle drammaturgie di Beckett a cui l’autore in passato si è più volte ispirato, lavorando con Eva Robin’s al proprio fianco. L’autrice da cui questa pièce ha tratto ispirazione è stavolta il premio Nobel per la letteratura del 2004, Elfriede Jelinek, a cui il regista ha dedicato un intero trittico di cui Delirio di una trans populista costituisce la prima delle rappresentazioni (a seguire Jakie e le altre e Un pezzo per sport).

“Parole, parole, parole”… non è solo una delle canzoni in cui tre adorabili e barbute fanciulle (Saverio Peschechera, Alberto Sarti e Stefano Toffanin in stile Conchita Wurst, la cantante trans austriaca divenuta fenomeno mediatico mondiale) si esibiscono fra il pubblico, ma la sostanza concreta dalla pièce: L’addio. La giornata di delirio di un leader populista, pubblicato nel 2005, è un testo con cui la Jelinek denuncia, attraverso un collage realizzato con frasi tratte dalla campagna promozionale di Haider, il neonazista austriaco morto alcuni anni fa, restituendo la sardonica e contradditoria immagine di un leader totalmente ebbro del proprio potere.

Il testo di riadattamento è naturalmente un ulteriore taglio sulla sequenza delirante, finalizzato ad una pièce di 50 minuti complessivi, in cui la voce dal vivo di Eva Robin’s è intervallata alla sua registrazione fuori campo, oltre che da momenti di danza ad opera delle tre giovani (e qui non manca la citazione a Pina Bausch, cui è stato del resto dedicato il secondo spettacolo della trilogia).

Chi sono le barbute donzellette? Ma naturalmente i “piccoli”, a cui il leader del pamphlet originario si rivolge (ricordiamo a questo proposito la formula di “partito dei ragazzi di Haider”, nata dalle controversie legate al presunto orientamento sessuale del politico). Possiamo osservarle totalmente omologate con le loro gonne nere, camicie bianche e scarpe comode, nell’atto di cimentarsi in essenziali movimenti in serie, che uniti alla voce femminile e disturbata,  che conta fino a quattro fuori campo, ci ricordano gli esercizi imposti alle “belle donne” dell’Italia fascista a inizio ‘900.

Dietro al buffo si fa spazio un quadro inquietante, un po’ come le parole della leader trans (spogliatasi dagli iniziali abiti maschili con parrucca) che ora annuncia: ”loro sono molti… molti di più, ma noi, NOI SIAMO TUTTI”.

E nessuno fra il pubblico potrà sottrarsi al gioco dei tutti quando le tre donzelle, ora in camicia da notte, iniziano a farsi selfie con spettatori a cui fanno indossare parrucche simili alle loro.

Un gesto grottesco dal duplice sapore: estremamente soffocante se colto come l’obbligo (nel gioco della provocazione) ad omologarsi ai tutti, ma allo stesso tempo, come il regista suggerisce, una forma di invito allo spettatore a mettersi nei panni altrui.

Uno spettacolo effervescente e ironico, la cui intenzione può risultare poco chiara in un primo momento, ma che prenderà presto la forma di un grande schiaffo in faccia, che porta il peso dell’improba ipocrisia dei “tutti”, in un 2016 in cui si grida all’uguaglianza, ma molta gente continua a pagare caro il lusso di essere se stessa.12493431_10153819234094618_4613530720765495342_o