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venerdì, Aprile 19, 2024
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Gratosoglio: fermata Bello Mondo

ELENA SCOLARI | Un taccuino nero legato alla vita, come un breviario ad un saio, un abito nero un po’ monacale, gli occhi limpidi che guardano il pubblico, così Mariangela Gualtieri abita il palco della Serra Lorenzini di Milano per la seconda data della nuova rassegna Gemme e Tempesta, organizzata dalla Cooperativa Sociale I Percorsi Onlus con la direzione artistica di Monica Morini (Teatro dell’Orsa).

Serra Lorenzini, Milano (2)Dietro la pedana una grande vetrata lascia vedere i moderni tram che attraversano il Gratosoglio. La vita e le persone transitano in una domenica pomeriggio di periferia, in uno strano contrasto tra la vegetazione fitta dell’interno e l’autunno dell’esterno.
Mariangela Gualtieri è poeta, non poetessa, e già questa volontà essenziale ci piace molto, perché è libera dall’inutile esigenza di affermare la femminilità per definizione nominale.
Qui l’amore è per le parole nel loro essere capaci d’incanto, per la bellezza di saper schiaffeggiare e accarezzare. L’autrice ringrazia le parole e lo fa nel miglior modo: usandole con cura, con attenzione, con passione e con sincerità.

Fate piano,
ch’è delicato tutto, nel suo esile
canto d’esserci, fate piano, per carità, fate piano.

C’è uno spintone sgarbato sulle
venature d’ogni colore, c’è un
passo pestatore che fa
lo schianto delle primavere.

Questi versi ci hanno colpito e ci sono sembrati i più giusti per provare a descrivere il carattere di Gualtieri, che con una fermezza dolce, trasparente sa fare della poesia un mezzo diretto, non ellittico, per dire la sua sul mondo, scuote i pensieri con una grazia decisa.

L’abitudine ad ascoltare la prosa e la rara frequentazione della poesia hanno prodotto un pregiudizio sulla fatica di seguire testi in versi, ma Bello Mondo è un itinerario di parole chiare, un sentiero che si segue senza sforzo. La poesia che abbiamo ascoltato è una radura dove trovano spazio situazioni e sentimenti che possono esserci più o meno vicini, ma ognuno dei presenti si sarà sentito toccare dalla voce di Mariangela, il cui timbro è rasserenante anche quando sollecita punti dolorosi: la pena di assistere al decadimento di una madre, l’incapacità di accettare la morte ma al tempo stesso una visione positiva perché …grazie ai nostri morti, che fanno della morte un posto abitato.

Bello Mondo è descritto come un “rito sonoro” (con la guida di Cesare Ronconi), la musica, sempre lieve, è intervallo di respiro tra un componimento e l’altro, a volte accompagna la recitazione, dando una cadenza calma, francescana, e lasciando allo spettatore il tempo di riprendersi. Sì perché se si è entrati in quella radura, per quell’ora si è stati messi di fronte, con sana franchezza, a molto di quello che nella vita attraversiamo e sentiamo forte ma non riusciamo a dire. Però lo riconosciamo, lo riconosciamo nitidamente nelle parole che sanno descriverlo.
Crediamo alle parole di Mariangela Gualtieri perché lei assomiglia a loro.
In questa bellissima poesia d’amore si chiede gentilezza, e guardando la poeta sappiamo che quella gentilezza è la sua.

Sii dolce con me. Sii gentile./ E’ breve il tempo che resta. Poi/ saremo scie luminosissime./ E quanta nostalgia avremo /dell’umano. Come ora ne/ abbiamo dell’infinità./ Ma non avremo le mani. Non potremo/ fare carezze con le mani./ E nemmeno guance da sfiorare /leggere./ Una nostalgia d’imperfetto/ ci gonfierà i fotoni lucenti./ Sii dolce con me./ Maneggiami con cura/… Sia placido questo nostro esserci,/questo essere corpi scelti/ per l’incastro dei compagni/ d’amore.//’

In quel taccuino nero è custodito un sapere altissimo: deve essere sfogliato lentamente per cercare la via e poi lasciato cadere.

Se la verità sta nel dialogo

hannah_arendt_portrait_300NICOLA ARRIGONI | «Nell’estate del 1956, Hannah Arendt scriveva all’amico e maestro Karl Jaspers di un conflitto millenario tra filosofia e politica emerso alle origini della tradizione occidentale, più precisamente a partire dal processo di Socrate, cioè da quando la polis processò il filosofo», scrive Ilaria Possenti nell’introduzione a Socrate di Hannah Arendt, un testo intenso e che ci interroga sul senso di democrazia, sulla necessità di avere punti di riferimenti fissi e immutabili: le idee platoniche?, sulla liquidità di Socrate. In tempi in cui in nome della sicurezza si vorrebbe sacrificare un po’ di nostra libertà, il testo di Arendt ci aiuta a capire che questo rischio non vale la pena di essere corso, perché poi ripercorrere la strada inversa sarebbe difficile, se non impossibile. Arendt non si limita a raccontare il rapporto di Socrate con la polis che non lo comprese e lo lasciò morire, non si limita a mettere in evidenza come il rapporto con il suo allievo, Platone finì per metterlo in ombra, ma soprattutto racconta di «una visione socratica della condizione umana, in qualche modo intesa come condizione ‘politica’, che dovrebbe aiutarci a ripensare da capo il senso della vita della polis, i suoi rapporti con l’etica e la conoscenza, i tanti dualismi della nostra tradizione (verità e opinione, pensiero e azione, mente e corpo) e l’oggetto stesso della ‘meraviglia’ filosofica – la pluralità – che ci unisce, ci distingue e ci attraversa».

Socrate la morte di Louis David 1787 E’ in questa prospettiva che il testo di Hannah Arendt ci interroga al di là della figura di Socrate, ma recuperando nel volatile Socrate una capacità di dialogo, un’attività dialogica che porta nel confronto con l’altro alla definizione di una verità possibile, verità comunque non assoluta che trova la sua necessitata possibilità metamorfica nell’azione continua del dialogare. Ecco secondo Arendt Platone tradisce questa fluidità dialogica e dialettica del maestro Socrate per inaugurare un approccio metafisico alla verità, soprattutto con l’elaborazione del mito della caverna.

MIN-132-Arendt-S-800x800E pare sintomatico in merito quanto scrive Arendt: «Il fatto che Platore raffiguri gli abitanti della caverna come congelati, incantati di fronte a uno schermo, senza alcuna possibilità di fare qualcosa o di comunicare l’uno con l’altro, rientra fra gli aspetti enigmatici dell’allegoria. (…) L’unica occupazione degli abitanti della caverna è fissare lo schermo; è chiaro che amano il vedere fine a se stesso, indipendentemente da ogni bisogno pratico. (…) Platone li rappresenta come potenziali filosofi, impegnati a fare, in condizioni di oscurità e ignoranza, la stessa cosa che il filosofo fa alla luce del sole e con cognizione di causa». La suggestione offerta da questo passaggio è tutta contemporanea, è la condizione dell’homo videns di oggi, ma è anche una sorta di estatica contemplazione e di ricerca di icone che forniscano verità imitabili ma non discutibili con la morte della polis, ovvero di quel confronto fra cittadini che è nucleo fondante della democrazia, dell’utopia della democrazia. L’estatica contemplazione contrapposta al dialogo socratico nella convinzione che «quando pensiamo, ci rapportiamo a noi stessi come se fossimo in due in quell’uno che appare agli occhi degli altri, che grazie a questa esperienza riflessiva possiamo articolare l’esperienza filosofica della meraviglia, e cominciare a dubitare, contraddirci, farci delle domande; che, infine, la solitudine del pensiero, in quanto animata da rappresentazioni, è ancora in contatto con il mondo comune e parte integrante del nostro essere e vivere con gli altri». È questo aspetto che rende interessante e assolutamente utile la lettura di Socrate di Hanna Arendt, una lettura che ci incoraggia ad aprirci al dialogo in tempi che paradossalmente poterebbero nella direzione opposta.
Hannah Arendt, Socrate, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, pagine 128, 11 euro.

Una storia sbagliata: l’emarginazione di “Gianni”

FRANCESCA GIULIANI | La solitudine di un uomo che tenta di riconquistare la sua mente persa fra fantasmi e utopie, fra presente e passato alla ricerca di un futuro nel quale non riesce a trovare una possibile via di fuga. La vita e la morte di quell’uomo, raccontata attraverso la testimonianza diretta di registrazioni audio tradotte dalla voce e dal corpo dalla nipote attrice. È Gianni, lo spettacolo di Caroline Baglioni, prodotto da La società dello spettacolo, vincitore del Premio Scenario Ustica per il teatro 2015, visto in questi giorni in residenza all’Arboreto Teatro Dimora di Mondaino ed oggi e domani a Teatro Litta di Milano per la rassegna Scenario.

L’attrice è in scena vestita di un lungo abito viola, travolta e nascosta da una gigantesca montagna di scarpe che tiene strette tra le braccia. Dopo averle gettate a terra si ferma e inizia a cercarne due da indossare. Una scarpa da uomo e una da donna faranno traballare quell’esile corpo rispecchiando anche fisicamente l’ambivalenza di una mente fuori centro, in cerca di un prima e di una normalità che non si sa bene poi quale sia. In quell’alternanza di genere misto, dove la donna e l’uomo si confondono, l’attrice porterà in scena quadri viventi dello zio mentre registra i pensieri su quelle audiocassette che verranno ritrovate anni dopo e faranno da drammaturgia allo spettacolo.

ph. Francesca Giuliani
ph. Francesca Giuliani
I racconti di vita – gli amici immaginari, il vasto repertorio di cantilenanti canzoni italiane che segnano gli anni a cavallo tra fine anni settanta e inizio anni novanta, la ricercata normalità, le donne mai avute e una madre spesso ingombrante – si rincorrono attraverso le drammatiche coreografie corporee della Baglioni. Uscendo per piccoli attimi da quel personaggio così potente quasi per prendere di nuovo fiato si toglie quelle scarpe spaiate per cercarne di nuove. La scelta drammaturgica è chiara fin da subito. Due stanze della memoria sono sulla scena, disegnate da confini immaginari ben precisi. Una è giocata dalla Baglioni che ricrea con lo spostamento delle scarpe geometrie di luoghi vivibili dal suo corpo svuotato di personaggio. L’altra quella abitata dallo zio è lei stessa a descrivercela precisamente durante lo spettacolo, facendocela vedere. Si entra e si esce continuamente da questi due spazi seguendo la precisione ritmica e gestuale dell’attrice. Un attimo di buio, un respiro e siamo di nuovo dentro. È l’automatismo di gesti ripetuti tra un tiro di sigaretta, una tosse e la schiena ricurva, a far rivivere sulla scena quel corpo assente. Sono le parole comiche e tragiche allo stesso tempo che nel misto di italiano e dialetto umbro ci assalgono potentemente replicando i discorsi precisi e ripetitivi fino all’assurdo di quel personaggio che non si capisce bene chi sia. È suo zio ma potrebbe essere il brandello infinitesimale di ciascuna delle nostre vite gettate a capofitto in un mondo sociale e politico nel quale spesso non è facile trovare un punto in cui aggrapparsi.

La solitudine performativa dell’attrice in scena rende pienamente l’idea di quella vissuta dal personaggio in un crescendo che porta alla bellissima danza finale di liberazione che se da una parte segna il momento di fine vita dello zio dall’altra travalica nell’aperta dichiarazione poetica della nipote attrice, solo ora totalmente libera di quel corpo scenico del quale non resta che una scarpa e una voce re

Romaeuropa: Un flamenco che si chiama desiderio

34-quest2IRIS BASILICATA | Ai posti 10 e 12 della fila E del teatro Vascello non c’è nessuno. È sabato sera, la città è vuota ed è inutile che ci giriamo intorno: i fatti di questi giorni hanno inevitabilmente condizionato il nostro quotidiano. Si esce di meno e per le strade o sui mezzi pubblici si respira una strana atmosfera. Il palco, invece, non è vuoto: una ballerina è lì per noi, per danzare la sua storia. L’artista in questione è Stéphanie Fuster, ballerina di origini francesi approdata in Andalusia nel 1996 per un corso di flamenco diventando una delle bailaora più ambite dalle compagnie internazionali. Aurélien Bory le dedica la coreografia Questcequetudeviens? La Fuster racconta, attraverso il suo corpo, il sogno di diventare una danzatrice di flamenco. Lo studio, la fatica, la tenacia e il rigore del voler riuscire nel suo intento vengono rappresentati in una piccola stanza in cui si esercita quasi convulsamente, per cucire su se stessa una storia che non le appartiene ma che vorrebbe acquisire. Sulle note di una chitarra suonata dal vivo (Josè Sanchez) accompagnata dalla voce di un cantaor di flamenco ((Alberto Garcia) assistiamo alla trasformazione di un desiderio in vera e propria ossessione. Il titolo della coreografia, letteralmente da tradurre con Che cosa diventi?, è la domanda che l’uomo si pone quotidianamente di fronte ai propri bisogni e desideri. Cosa facciamo per raggiungere i nostri obiettivi? Cosa siamo disposti a diventare? Il corpo di Stéphanie racconta senza fronzoli il difficile viaggio per raggiungere il suo scopo. A mano a mano la si vede diventare sempre più brava e capace, i piedi battono veloci il tempo sul legno del palcoscenico, delimitato da una stanzetta che funge da palestra. Il suono sia in assolo che accompagnato diviene sempre più incalzante, preciso e insistente, si teme quasi che l’artista sbagli qualche passo, che si arrivi ad un intoppo. Ma tutto questo non accade: improvvisamente non c’è più il corpo, non c’è più neanche l’artista stessa ma solo il ritmo incessante dei passi eseguiti, che sembrano avere la forza di poter abbattere i muri di una scenografia che ingabbia la Fuster per un tempo infinito. La costanza premia e ormai padrona assoluta dei passi nessuno la ferma più, neanche i due elementi che Bory mette in scena come ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo: l’aria e l’acqua. Nella piccola stanza, infatti, l’artista sembra quasi essere risucchiata dall’aria che appanna vetri e specchi, mentre imperterrita continua a tenere il ritmo con i piedi, oppure dall’acqua che non le è nemica, ma anzi l’accompagna nel ballo anche quando la fa scivolare. In un ritmo sempre più vorticoso la metamorfosi avviene, trasformando la Fuster in questi elementi stessi, ormai governati e comandati dalle sue scarpe da flamenco. Ciò che le si può leggere sul viso è lo strazio, la paura di non riuscire, la fatica del viaggio che è tanto lungo da affrontare prima di arrivare al raggiungimento del sogno. Nel ritmo incessante del “Cosa diventi?”, che martella proprio da domanda insistente qual è, anche il pubblico trasforma gli applausi in un ritmo eseguito coi piedi, ringraziando così degnamente l’artista per aver dimostrato non di certo cosa si può essere nella vita, ma di sicuro l’impegno che si può investire per diventare qualcosa o qualcuno.

Sull’insensata caducità del vivere: Castellucci a viso aperto con un Cristo silente

GIULIA MURONI | La luce si solleva su un interno domestico. Fredda, illumina un anziano sul divano, ipnotizzato di fronte al televisore. Lungo tutto il fondale capeggia enigmatico il volto di Cristo, nelle fattezze del “Salvator Mundi” concepito da Antonello da Messina.

“Sul concetto di volto nel figlio di Dio” opera di Romeo Castellucci ha goduto della spiacevole concentrazione mediatica dettata da un nugolo di bagarre molto poco interessanti. Anche a Cagliari, a distanza di qualche anno dalla prima parigina al Théâtre de la Ville, c’è stato qualche sparuto tentativo di polemica, morto per inedia. Tra gli eventi di punta della programmazione 2015/2016 di Sardegna Teatro questo spettacolo ha invece trovato nelle tre serate di replica un’ottima ricezione da parte del pubblico, numeroso e partecipe.

Tra le mura del nido familiare si consuma la quotidiana tragedia di un’umanità sulla soglia del collasso. L’anziano padre si ritrova vittima del proprio corpo, sempre più inadatto alla vita e sempre meno autosufficiente, dipendente nei più elementari bisogni dalle cure del figlio. Uomo sulla quarantina, il figlio indossa la divisa del professionista in carriera, tuttavia si trova imprigionato in un ruolo di cura tanto fondamentale quanto insopportabile. Il suo amore e la sua attenzione sono distillate nei gesti e nelle parole per accudire, nei toni forzatamente lievi, nella pazienza esagerata dalle circostanze, nell’enfasi sul superfluo dentro un tentativo costante di distogliere lo sguardo dal dramma che lentamente si consuma. Non ci sono donne in questo quadro, quasi a voler acuire il peso dell’assistenza, a renderlo ancora più stridente.

È un’incontinenza imbarazzante, ripetuta e quindi parossistica a scandire l’incontro cui assistiamo. L’esplosione incontrollata di feci imbratta il vecchio e ciò che lo circonda, il figlio pulisce dagli escrementi prima con pazienza e rassegnazione, poi con crescente sgomento e infine con manifesta insofferenza. È qui che per pochi secondi si staglia una crepa sulla sua maschera efficiente, facendo emergere un’umana disperazione, presto ricomposta. Uno sconforto che aumenta in modo esponenziale con il deflagrarsi ingestibile delle feci che, incontrollato, macchia un quadro irrimediabilmente tragico, in cui la domanda sul senso diviene scottante e si riverbera fra le parole singhiozzanti del vecchio “Non è più vita questa, non sono più io”.

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Tutto accade al cospetto del volto di Gesù, davanti al suo sguardo che supera la scena e invade la platea. Cala la penombra, la scena si sgombra e il fondale cristologico viene squarciato dal suo interno. La parete sul fondo viene attraversata da alcuni climber a corda doppia che sembrano assaltare l’immagine ma invece finiscono per svelarla di nuovo, dotata però di una scritta luminosa “You are not my shepherd”. Come in un detournement situazionista , l’opera d’arte decontestualizzata vive significati inediti, incalzanti.

“Dio mio perché mi hai abbandonato?” è Gesù sulla croce ad aprire alla questione della teodicea: se Dio  esiste, da dove proviene il male? E se invece non esiste, da dove deriva il bene? L’imperturbabilità dello sguardo di Cristo sulla scena elude un interrogativo cocente mentre assiste impassibile nel suo ruolo di Salvatore del Mondo. Il martirio umano lentamente si dipana, brancolando nei meandri dell’insensatezza, cercando un qualunque perno esterno su cui reggersi ma trovando vaga risposta soltanto dentro le cose stesse. Tutta quell’energia rivolta verso il trascendente rimbalza indietro, nelle cose umane, si schianta nell’impatto con la materia.

La nitidezza della scena iperrealistica iniziale si capovolge in un assalto onirico per poi rarefarsi nel volto di Cristo. Romeo Castellucci firma uno spettacolo che non lascia scampo, aggredisce lo spettatore a quesiti insolubili senza graziarlo con espedienti estetici, ma anzi pungolando l’olfatto con l’acre puzza di escrementi diffusa sulla platea e la vista attraverso il ripetersi e lo spargersi dello sterco sulla scena. Un teatro che attiva i sensi della platea – non soltanto quello critico-  e, scavando nelle viscere delle questioni di senso, resta avvolto in una spiritualità profonda, senziente e viva. Sul crinale tra la necessità e la resa della fede sta l’umano, sembra dirci in modo atroce e meraviglioso Castellucci.

Intervista a Giacomo Ferraù e Giulia Viana: quando il mito incontra l’attualità

IRIS BASILICATA | Conversazione con Giacomo FerraùGiulia Viana (rimasti chiusi dentro il Teatro dell’Orologio di Roma), dopo lo spettacolo Orfeo ed Euridice per la regia di César Brie.

unnamedCome mai l’idea di accostare il mito ad un tema d’attualità?

È un tema che ci interessa molto, come alla maggior parte delle persone che si occupano di qualcosa che sia vitale. Nei nostri spettacoli parliamo spesso della vita, della morte e dell’amore. Potrebbe sembrare banale ma è molto importante trovare un grande equilibrio tra l’amore e le sue varie declinazioni. Ci sembrava che in questo caso l’amore fosse visto come un atto veramente estremo e associare il mito a questo poteva dargli un grandissimo spessore. Per la realizzazione di Orfeo ed Euridice si sono unite le forze di due giovani compagnie, quella di Eco di fondo con quella di Teatro Presente. L’intento del nostro lavoro è sempre quello di associare i miti e le fiabe a temi di attualità di cui sentiamo la necessità di parlare. Abbiamo, ad esempio, riutilizzato la storia del mago di Oz per raccontare il tema dell’immigrazione. Parte della nostra produzione è rivolta al teatro ragazzi.

Nello spettacolo parlate della volontà di voler rappresentare il diritto a poter perdere la salute, per morire, appunto, secondo le parole di Euridice “sola, nuda e degna”. Cosa è accaduto con l’incontro con Brie?

All’inizio avevamo pensato ad una storia molto vaga, volevamo soltanto associare il mito all’eutanasia senza una storia precisa. Avevamo però solo un’idea e non sapevamo come realizzarla. César Brie poi ha messo l’ingrediente più importante, ossia quello dell’accanimento terapeutico spostando il fuoco sul caso Englaro. Abbiamo deciso di proporgli questo tema dopo la sua richiesta a Teatro Presente di avanzare proposte sulla creazione di piccoli spettacoli che affrontassero temi d’attualità. La realizzazione di tutto ciò è solo grazie a lui perché è riuscito a tenere lontani alcuni rischi che una compagnia giovane come noi avrebbe potuto incontrare. Con il suo occhio esperto ad esempio siamo riusciti a dosare i vari passaggi di drammaticità passando attraverso una serie di livelli che non danno allo spettatore la sensazione di una botta che arriva improvvisa. Ci sono state diverse discussioni di confronto e sicuramente César ha dato allo spettacolo una linea più precisa: la storia di Giacomo e Giulia che diventano Orfeo ed Euridice passando per il caso Englaro. Un’altra delle questioni che abbiamo affrontato con Brie è stato appunto,rifacendosi al caso Englaro che in scena ci fossero un padre e una figlia. Nelle prove però alla fine si è convenuto che su Giacomo (Giacomo Ferraù), funzionava di più un personaggio giovane e giusto per la sua età. Da lì poi è nato il testo. Ci sono voluti due anni di preparazione d’immagini in laboratori, che si sono incontrate poi con le nostre ed è nato lo spettacolo. Dietro il lavoro c’è stata una profonda documentazione.

Dopo il debutto dello scorso anno a Campo Teatrale di Milano cosa è accaduto? Com’è stato accolto lo spettacolo dalla critica?

Siamo stati molto fortunati: dopo il debutto a Campo Teatrale sono uscite delle buone recensioni, poi siamo arrivati finalisti al Premio Inbox 2014 e in quella occasione abbiamo avuto la possibilità di fare delle repliche che ci hanno permesso di portare lo spettacolo in posti diversi. Quasi tutte le repliche sono andate bene. A volte magari il pubblico può essere più distante, però dipende da tantissime cose, dal tipo di spazio in cui ci troviamo soprattutto. Siamo super felici!

Orfeo ed Euridice è rimasto uguale alla prima messa in scena oppure ci sono stati dei cambiamenti nel corso del tempo?

Delle piccole cose sono state cambiate e ovviamente lo spettacolo è cresciuto replica dopo replica. È normale che all’interno dello spettacolo ci siano dei punti più critici di altri e la reazione del pubblico la intuiamo dalla scena: è l’empatia che si crea col pubblico, che può a volte sorridere per quello che vede altre volte infastidito da alcune scene. Non esiste per noi una reazione “obiettiva” del pubblico.

Progetti per il futuro?

Sono due: quello di Teatro Presente è un progetto con la regia di Adalgisa Vavassori che si chiamerà The hard way to understand each other, uno spettacolo che affronta il tema di come le persone si relazionino tra loro. Con Arturo Cirillo, invece, stiamo preparando La sirenetta, spettacolo che debutterà a maggio a Campo Teatrale, lo abbiamo già presentato a Next e abbiamo avuto un discreto successo!

L’Esodo della Confraternita: una polifonia di frontiera

unnamed-1.jpgRENZO FRANCABANDERA | Lo sciocco è quello che davvero crede che il batter d’ali della farfalla possa provocare un tifone dall’altro lato del pianeta. Il saggio quello che ne nutre un ragionevole dubbio, che non ne esclude aprioristicamente la possibilità; piuttosto la analizza attraverso la Storia, senza rassegnarsi, come essere umano, ad essere di quest’ultima solo un passeggero senza biglietto, ma allevando nel frattempo bachi da seta per prepararsi ad essere protagonista del cambiamento.
La bellezza della Storia è che la maggior parte delle cose interessanti non succede al centro, ma in periferia. E nonostante tutti si ostinino a vivere il centro come precipitato del proprio tempo, in realtà è quanto avviene ai bordi che conferma se e quanto il centro sia tale. E questo si dà anche in geometria. Solo alcune figure geometriche regolari (quindi l’astratto) al mutare di dimensione mantengono intatto il proprio centro. Per non parlare del fatto che esistono talmente tanti centri possibili, incroci di altezze, vie tangenti, vie mediane, che persino un crepaccio lungo il confine fra Italia e Slovenia, o una barca in mezzo al Mare di Trieste da cui due passeggeri osservano un’esplosione distruggere una spiaggia possano diventare Storia.
E può diventarlo un giovane inglese ventenne che sogna di giocare nell’Arsenal ma si trova impegnato nella naja su un fronte di guerra, o un prete doncamillo, dai ferventi ideali. O un giovane 15enne che va a puttane a perdere la verginità in una casa chiusa, servito da una maitresse mezza sdentata. Perché davvero la Storia non ammette esclusioni.
Esempi di bella costruzione letteraria di questo teorema sono stati per molti anni i romanzi del collettivo Wu Ming (Luther Blissett), in cui questo senso della Storia come intreccio di vicende piccole che tutte insieme costruiscono il mosaico si respira fortemente. O le graphic novel di Gipi.
E’ stata quindi una piacevolissima sorpresa immergersi per un’ora e venti in sala al Verdi di Milano per il debutto di Esodo, il secondo atto del progetto Pentateuco de La Confraternita del Chianti, un episodio creativo originato da un monologo di Diego Runko (che era stato premiato nel concorso Giuseppe Bertolucci per la drammaturgia civile), ripreso e riadattato da Chiara Boscaro con Marco di Stefano, che ne firma la regia.
Pentateuco è un progetto ideato e realizzato da La Confraternita del Chianti, compagnia milanese – fondata dalla drammaturga Chiara Boscaro e dal regista e autore Marco Di Stefano – da tempo attenta ai temi della contemporaneità affrontati con un particolare sguardo drammaturgico che coinvolgerà cinque attori e altrettanti partner internazionali (più il Teatro Verdi, collaboratore dell’intero progetto) per raccontare cinque storie di migrazione che si concentreranno su diversi aspetti di questa caratteristica dei popoli biblici come del nostro tempo: la differenza linguistica (Genesi), l’esodo degli italiani dall’Istria (Esodo), la disciplina come modello di vita (Levitico), la clandestinità (Numeri), la legge nella società occidentale (Deuteronomio). Dopo Genesi, Esodo è il secondo movimento di questo polittico.
Parliamo per Esodo tecnicamente di un monologo, ma il talento e la fortuna poliglotta di Diego Runko (istriano di Pola) trasformano questa costruzione in un meccanismo scenico con notevoli variazioni tonali, che prende per la giacchetta lo spettatore e lo sbatte qui e lì nel tempo e nello spazio, in un ping pong fra oggi e ieri al confine fra Giulia, Istria e Dalmazia, fra l’indomani della seconda guerra mondiale e l’oggi, fra il prima e il dopo della Jugoslavia.
In scena c’è lo stesso Runko, che con grazia e ben guidato da una regia pulita, con piccoli ma incisivi movimenti racconta queste storie, cambiandosi e trasformandosi in tutti questi personaggi a turno, in sequenza, e parlando italiano, inglese, dialetto friulano, sloveno, croato. E noi a leggere e un po’ a perderci nei sovratitoli, come chi si trova in quei posti di frontiera oggi come allora pericolosi, ma in cui passa il treno della vicenda umana.
E’ quindi lecito non riuscire a leggere tutto, affannarsi per capire, come chi cerca di aggrapparsi alla singola parola, senza comprendere che il senso è nel discorso generale. Ma poco alla volta questo ci viene disvelato dallo spettacolo e se ne rimane progressivamente avvinti, perché è una Storia. Un nipote racconta la storia del nonno, storie di guerra, di esodi al di qua e al di là del confine. Il filone è lo stesso di Italianesi di Saverio La Ruina, storie di muri e barriere, di fughe e liberazioni, di stermini di massa e prigionie; guardati attraverso lo sguardo di un adolescente bacchettone che qui sogna l’America e chissà se la vedrà mai.
Il costrutto teatrale funziona per quattro fondamentali motivi:
1 – mantiene la barra dritta su un testo ben scritto e non cerca barocchismi scenici che distolgano dalla parola, mantenendo quindi coerente l’impianto da inizio alla fine.
2 – il ritmo narrativo e l’interpretazione corrono paralleli per tutto lo spettacolo con l’attore che manovra il ritmo pur nella fissità del tempo scenico legato anche alla proiezione dei sovratitoli.
3 – Esodo si compie in sé, non cerca rimandi e concetti esterni. E’ un’opera compiuta e che segna un passaggio di maturità di un gruppo tenace, in crescita, che ha scelto anche per la pratica scenica una dimensione non facile, come la residenza nella periferia della cintura milanese.
4 – si inizia a malapena ad avvertire la sazietà e il viaggio termina. Ma senza terminare veramente, perché come tutte le opere dal sapore vagamente pasoliniano, con quel gusto per il primo piano sul sorriso sdentato del miserabile e per lo zoom sugli orizzonti del tempo in cui l’uomo si perde, accompagna chi vi ha assistito fuori dalla sala per un bel pezzo di strada.

E a distanza di qualche giorno, a differenza di certi spettacoli che usciti di sala iniziano ad evaporare a velocità imbarazzante, ricordo ancora molte cose della pièce: l’ironia, il dramma, il dolore, l’umanità, il profumo della vita, il fetore della morte. E non è poco.

Esercizi di statica – “Il Furioso” di Lenz al Festival Natura Dèi Teatri

FRANCESCA DI FAZIO | Ogni personaggio è un’isola che cerca senza sosta di accorciare la striscia di terra che, metri e metri sott’acqua, lo collega all’altra isola. Perdute monadi in perpetuo moto di attrazione e repulsione. Si corre rimanendo fermi sul posto nella nuova creazione di Lenz, Il Furioso.

Come il palazzo di Atlante – labirinto dove i cavalieri restano intrappolati, in un vorticoso meccanismo di specchi e di inseguimento di immagini vane e inafferrabili – il luogo dove più di ogni altro l’uomo contemporaneo si sente prigioniero di un incantesimo – la malattia – è l’Ospedale”.

Lenz Fondazione, Il Furioso - © Francesco Pititto (12)

Dentro il padiglione Rasori dell’Ospedale di Parma – sede del Diagnosi e cura fino al 2012 – si è aperta la ventesima edizione del Festival Natura Dèi Teatri, sotto la direzione artistica di Lenz Fondazione. Nelle stanze ospedaliere svuotate dei letti, nudi spazi a separare il fuori dal dentro, sono andati in scena alcuni episodi tratti dal monumentale Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, rielaborato in una nuova ricerca drammaturgica curata da Francesco Pititto e in una chiave estetica ideata da Maria Federica Maestri, curatrice di installazione, elementi plastici e regia. Come già in altri spettacoli di Lenz, sono gli attori “sensibili” – con disabilità psichica e intellettiva insieme agli attori storici della Compagnia, ad abitare gli evanescenti personaggi di questa storia di amore, eroismo e follia.

Dopo una prima assoluta realizzata lo scorso giugno nelle stanze del Museo Guatelli a Ozzano Taro di Collecchio, in provincia di Parma, ciò che è andato in scena nell’ala ospedaliera è parte di un più ampio progetto, da realizzarsi in due anni e composto di otto episodi scenici per spazi non teatrali, sul grande poema cavalleresco dell’Ariosto. I primi quattro, La Fuga, L’Isola, L’Uomo, Il Palazzo, sono stati presentati durante questa edizione del Festival come un tutt’uno, un continuum visuale a riempire uno spazio insolito.

Il padiglione Rasori si trova all’interno di un ampio complesso ospedaliero ed è circondato da alberi e da un giardino. Quando arriviamo è sera e l’edificio emana un’aura poco rassicurante. Si entra nel palazzo, si salgono scale bianche dal corrimano rosso e si è nell’ampio corridoio adibito a sala-teatro del Furioso. Poche sedie (si può entrare solo 15 alla volta) disposte a semicerchio di fronte a una scena divisa da un pannello semitrasparente dal cui retro compaiono gli attori, e sulla cui superficie sono proiettate le immagini filmate da Francesco Pititto, proiezioni che accompagneranno gli attori in ogni episodio, sfondo mobile e assillante di presenze inconsistenti.

C’è, infatti, molto poco di eroico in questi personaggi, pur tutti vestiti da guerrieri del ring, con casco da pugile adorno di un boa piumato dai colori sgargianti. Ognuno sembra perso in sé stesso. I versi di Ariosto sono stati scarnificati, ridotti all’osso, e sono intonati dagli attori con la loro forte cadenza dialettale.

Nel primo episodio, La Fuga, è Carlotta Spaggiari, affetta da disturbo dello spettro autistico e già presente come Ermengarda in un’altra recente creazione di Lenz, l’Adelchi di Manzoni. Qui interpreta la figura di Angelica, la bramatissima Angelica di Orlando, che fugge senza sosta da tutti i suoi spasimanti e rincorre l’unico desiderato, eppur assente, Medoro. Corre davanti e dietro il pannello, sfugge alle mani di Orlando, alle sue parole d’ amore folle, grida agli oggetti che l’assillano poiché le ricordano la serialità dei suoi pretendenti.

Il secondo episodio, L’Isola, si svolge in una delle tre stanze a cui si accede dal corridoio principale. La stanza è vuota, solo un tavolo, una sedia e una lettiga. Alle pareti le immagini proiettate sono primissimi piani degli oggetti di vita quotidiana conservati presso il Museo Guatelli. Colpisce la vista un quadretto vivente al centro della stanza, formato dalla regina Alcina e dalle due sorelle, tutte vestite con fascianti kimono rossi e azzurri. Alcina, interpretata da Delfina Rivieri, è una fata maligna che trasforma in piante e animali gli uomini che si innamorano di lei. Dietro le sembianze di una giovane affascinante si nasconde il suo vero corpo di vecchia, invisibile a chi cade vittima dei suoi incantesimi. Il tempo s’interrompe in azioni e frasi ripetute, la fuga del primo episodio diviene sterile stasi di una regina vicina alla morte. 

Il terzo episodio, L’Uomo, racconta della storia di Doralice, promessa sposa a Rodomonte, che viene rapita da Mandricardo, con cui nascerà subito l’amore. Il quarto, Il Palazzo, è l’interno del labirinto, quel Palazzo di Atlante che attraverso giochi di specchi ed evanescenti apparizioni intrappola i cavalieri al suo interno. La stanza è illuminata da una gelida luce blu; fuori dalla grande finestra a vetrata è la notte. Tutti i personaggi sono presenti ma avvolti in matasse di tessuto lanoso, a renderli invisibili. Ogni azione è impedita dal freddo di una costante glaciazione, fino a che Astolfo non riuscirà a spezzare tutti gli incantesimi attraverso un anello magico.

Rispetto al lavoro presentato alla scorsa edizione del Festival Natura Dèi Teatri, l’Adelchi, quest’ultima creazione di Lenz fatica ad aggiungere un di più agli usuali ingredienti: si ha anche qui un testo classico del tutto rivisitato e ridotto all’essenziale, una scena scarna, bianca, arricchita da immagini proiettate, un’azione recitativa agita dagli attori “sensibili”, un disegno sonoro elettronico e complesso. La visionarietà di alcune scene e l’interpretazione a suo modo intensa non riescono tuttavia a dare fisicità, nerbo e capacità di coinvolgimento allo spettacolo.

A 4 MANI: il Bonatti di Luca Radaelli

carta-geoRENZO FRANCABANDERA E VINCENZO SARDELLI | RF: Capita nella vita di non interessarsi mai di una cosa, forse persino di tenerla in qualche modo lontana dai propri interessi e poi di finirci dentro mani e piedi senza volerlo e di rimanerci affascinato. Di solito capita per incontri con quelli che Peter Brook, e prima di lui Gurdjieff, definiva gli uomini straordinari.

E non c’è dubbio che Walter Bonatti sia uno di questi. Lo scopo dell’avventura è trovare l’uomo, così avrebbe detto una volta il grande alpinista ed esploratore italiano scomparso da non molto. E la sfida di Luca Radaelli, attore nato e vissuto in quelle terre dove Bonatti volle costruire insieme alla compagna Rossana Podestà con le sue stesse mani la casa della sua vita, la sfida di Radaelli, dicevamo, è finita per diventare quella di costruire una sua particolare avventura su questo personaggio, quasi che vivendone le vicissitudini come si faceva con Salgari da piccoli, si possa tornare a sognare, da grandi e pur disillusi sulla vita, di imprese e paesaggi inesplorati, di sogni, di purezze, di vette. Quasi viene in mente che prima di tutto, prima di ogni altra cosa, dunque, Federico Bario e Luca Radaelli nello scrivere il testo abbiano voluto prima di tutto ricreare una terra vergine di emozioni. Sentirsi davvero bambini contro l’ignoto, e guardare alle avventure di Bonatti quasi a bocca aperta. Un po’ con gli occhi dei piccoli e un po’ con gli occhi dei grandi. E infatti il testo è un po’ costruito come contrapposizione fra queste parentesi di indole purissima e contatti con una società contaminata fino all’irragionevole di tutto quanto l’essere umano non dovrebbe essere. Emblematico il racconto degli ultimi giorni di vita di questo eroe contemporaneo, e delle assurde vicende che li connotarono.

VS: Bonatti, una vita per l’avventura. Credo che questo sia meritevole: fare ricerca partendo da una suggestione; mettere al centro dell’arte persone come noi, fragili, vulnerabili, però con un sogno. E quel sogno l’hanno realizzato perché animate da un’immensa passione. Il Bonatti di Radaelli ci ricorda l’insensatezza della mentalità comune, che contrappone il sogno alla realtà, la fantasia alla pratica. I geni sono tali perché non pensano secondo questa distinzione. Qui capiamo, già dalle letture di Bonatti, da quella carrellata sui suoi libri da bambino (London, Stevenson, Salgari) che tutti i bambini sognano, ma che i sogni li realizzano solo gli adulti che non smarriscono l’ardire fanciullesco. E non smettono di amare, che so, la geografia o la storia. E affrontano il pericolo con l’equipaggiamento e un pizzico di follia. Questo in scena lo vediamo. Come pure vediamo le profonde fragilità umane: meschinità, invidie, ripicche, di cui Bonatti fu vittima da parte talvolta dei suoi stessi compagni di cordata. Immagineresti che lassù, sul Cervino o sul K2, tali bassezze non ci siano. Invece sono insite nel genere umano, come una condanna. Chissà che adesso, che è ancora più in alto del K2 o dell’Everest, Bonatti non se ne sia finalmente emancipato.

RF: Cosa funziona e cosa meno secondo me in questo lavoro: a me sono piaciute proprio le avventure, la parte in cui il narrato diventa evento, recitazione. Più deboli sono invece gli appoggi, gli argomenti, l’amalgama. Lì dal punto di vista drammaturgico e di recitato non arriva la stessa potenza. Bene poi la creazione sonora di Maurizio Aliffi. Non è mai colonna sonora, ma emozione ambientale, tanto che come tutte i contrappunti sonori ben fatti, pare quasi sparire, per come si interseca bene e diventa un tutt’uno

VS: Sì, la musica è davvero flebile, mai invasiva: la apprezzo quando diventa partitura drammaturgica lieve, e non semplice accompagnamento, o intermezzo, o commento. Poi ho gradito le luci, così vere che ti pareva d’essere in montagna, la notte quando congelavi o la mattina quando il sole ti rimetteva in circolo il sangue restituendoti la vita. Ho ammirato le immagini proiettate stavolta sì in maniera invasiva: sequenze di deserto o d’acqua, di bosco o di cime innevate. E l’attore a muoversi dentro, in una fusione panica. Quanto alla drammaturgia, io ho trovato il testo bello, a tratti poetico, con le varie citazioni da Giobbe a Luzi e Montale. C’è qualche eccesso narrativo che lo rende a volte dispersivo e pletorico. Se manca qualcosa sul piano recitativo, io lo trovo compensato dalla voce di Radaelli, sorprendentemente calda e musicale. Poi chissà, tu hai visto il debutto, e può darsi che fino all’ultima replica che ho visto io, il lavoro sia salito di temperatura, e un poco ne abbia guadagnato proprio l’amalgama.

RF: Come è giusto che sia per una storia di montagna. Se non sale… Che montagna e’?

Un cieco, una folle e una prostituta salveranno il mondo: Celestini e Laika

unnamedLAURA NOVELLI | Un oratorio laico. Una preghiera pietosa a vantaggio degli ultimi della Terra, quelli più vicini a Dio, ammesso che Dio esista. Può essere letto così l’ultimo, intenso, lavoro di Ascanio Celestini, fabulatore instancabile di una sacralità umana che in “Laika” – debuttato al Teatro Vascello di Roma per il RomaEuropa Festival 2015 – costruisce la storia di una galleria di emarginati per riportarci al nocciolo di quella pietas virgiliana di cui abbiamo smarrito la memoria e la forza.

Un filare di piccole lampade bianche a terra, una tenda rossa che cela una catasta di casse di plastica e il contrappunto musicale della fisarmonica di Gianluca Casadei: basta poco a Celestini per raccontare, col piglio agrodolce di sempre, un disagio sociale che sta sotto gli occhi di tutti e che nella circolarità di una lingua mossa da continue ripetizioni cuce insieme le storie di un barbone, di un facchino di colore licenziato ingiustamente, di una “donna con la testa impicciata”, di una vecchietta e di una prostituta che assumono i lineamenti di visioni concrete, materiche, senza mai perdere però un afflato di elegia, di poeticità.

Cappotto lungo, camicia bordeaux, capelli leggermente ingrigiti, Celestini è un uomo cieco che si rivolge con pacata violenza ai “signori del bar”, silenziosi testimoni di una confessione che parte dal Cielo, da quel Cielo che “si sta abbassando di chilometri anche se non c’è una letteratura scientifica a proposito”. Quel Cielo da cui Dio ci guarda e ci obbliga a piangere della sua assenza. Quel Cielo che un astrofisico di fama come Stephen Hawking ha indagato svuotandolo di ogni trascendenza. In questo stesso Cielo nel 1957 fu lanciata la cagnetta Laika, vittima di una missione spaziale sovietica da cui la povera bestiola non è mai tornata. La sua vicinanza a Dio è dunque direttamente proporzionale alla distanza di Dio dal mondo. O forse Dio non sta in Cielo; prende forma umana ogni qual volta ci sia un povero Cristo che perde il lavoro, che dorme per strada, che esce di senno, che si ubriaca per non sentire la sofferenza del vivere.

Il monologo di Ascanio accosta dunque elementi, personaggi e riferimenti diversi e li fa straordinariamente convergere in una coerenza narrativa che non perde mai di vista ogni singolo anello della catena. Questa caparbia teatralità della scrittura si fa qui forza sociale, supera la storicità di lavori precedenti cui pure somiglia molto (penso a “Radio clandestina”, “Fabbrica”, “Scemo di guerra”) per diventare un’invettiva, una rivoluzione, un bisogno di umanità.

Nel ritmo estremamente musicale della parola si immettono poi le note di una fisarmonica malinconica e ogni tanto l’assolo viene rotto dalla voce di Alba Rohrwacher: incarna Simon Pietro, alter ego di questo Gesù/Ascanio cieco come Edipo (e fitto di rimandi alla tragedia sofoclea è anche il recente fil dell’attore e regista romano “Viva la sposa”) che non compare mai. Ma che c’è o vorrebbe esserci o forse – proprio come il Cielo – non c’è mai stato. E si ride a tratti, si cede all’arguta ironia con cui l’autore descrive e racconta i paradossi appunto di un Dio fin troppo fragile.

E allora, mentre l’Europa vacilla sotto l terrore dell’Isis, questo piccolo capolavoro ricapitola il senso di un messaggio evangelico tradito dalla Storia e dalla realtà. Perché laddove non c’è giustizia sociale può sempre esserci un atto di carità. E laddove il Cielo sembra sordo ai nostri lamenti, c’è sempre un uomo o una donna che può accoglierli. In attesa che Laika torni sulla Terra a raccontarci la sua verità.