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venerdì, Aprile 19, 2024
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Un cieco, una folle e una prostituta salveranno il mondo: Celestini e Laika

unnamedLAURA NOVELLI | Un oratorio laico. Una preghiera pietosa a vantaggio degli ultimi della Terra, quelli più vicini a Dio, ammesso che Dio esista. Può essere letto così l’ultimo, intenso, lavoro di Ascanio Celestini, fabulatore instancabile di una sacralità umana che in “Laika” – debuttato al Teatro Vascello di Roma per il RomaEuropa Festival 2015 – costruisce la storia di una galleria di emarginati per riportarci al nocciolo di quella pietas virgiliana di cui abbiamo smarrito la memoria e la forza.

Un filare di piccole lampade bianche a terra, una tenda rossa che cela una catasta di casse di plastica e il contrappunto musicale della fisarmonica di Gianluca Casadei: basta poco a Celestini per raccontare, col piglio agrodolce di sempre, un disagio sociale che sta sotto gli occhi di tutti e che nella circolarità di una lingua mossa da continue ripetizioni cuce insieme le storie di un barbone, di un facchino di colore licenziato ingiustamente, di una “donna con la testa impicciata”, di una vecchietta e di una prostituta che assumono i lineamenti di visioni concrete, materiche, senza mai perdere però un afflato di elegia, di poeticità.

Cappotto lungo, camicia bordeaux, capelli leggermente ingrigiti, Celestini è un uomo cieco che si rivolge con pacata violenza ai “signori del bar”, silenziosi testimoni di una confessione che parte dal Cielo, da quel Cielo che “si sta abbassando di chilometri anche se non c’è una letteratura scientifica a proposito”. Quel Cielo da cui Dio ci guarda e ci obbliga a piangere della sua assenza. Quel Cielo che un astrofisico di fama come Stephen Hawking ha indagato svuotandolo di ogni trascendenza. In questo stesso Cielo nel 1957 fu lanciata la cagnetta Laika, vittima di una missione spaziale sovietica da cui la povera bestiola non è mai tornata. La sua vicinanza a Dio è dunque direttamente proporzionale alla distanza di Dio dal mondo. O forse Dio non sta in Cielo; prende forma umana ogni qual volta ci sia un povero Cristo che perde il lavoro, che dorme per strada, che esce di senno, che si ubriaca per non sentire la sofferenza del vivere.

Il monologo di Ascanio accosta dunque elementi, personaggi e riferimenti diversi e li fa straordinariamente convergere in una coerenza narrativa che non perde mai di vista ogni singolo anello della catena. Questa caparbia teatralità della scrittura si fa qui forza sociale, supera la storicità di lavori precedenti cui pure somiglia molto (penso a “Radio clandestina”, “Fabbrica”, “Scemo di guerra”) per diventare un’invettiva, una rivoluzione, un bisogno di umanità.

Nel ritmo estremamente musicale della parola si immettono poi le note di una fisarmonica malinconica e ogni tanto l’assolo viene rotto dalla voce di Alba Rohrwacher: incarna Simon Pietro, alter ego di questo Gesù/Ascanio cieco come Edipo (e fitto di rimandi alla tragedia sofoclea è anche il recente fil dell’attore e regista romano “Viva la sposa”) che non compare mai. Ma che c’è o vorrebbe esserci o forse – proprio come il Cielo – non c’è mai stato. E si ride a tratti, si cede all’arguta ironia con cui l’autore descrive e racconta i paradossi appunto di un Dio fin troppo fragile.

E allora, mentre l’Europa vacilla sotto l terrore dell’Isis, questo piccolo capolavoro ricapitola il senso di un messaggio evangelico tradito dalla Storia e dalla realtà. Perché laddove non c’è giustizia sociale può sempre esserci un atto di carità. E laddove il Cielo sembra sordo ai nostri lamenti, c’è sempre un uomo o una donna che può accoglierli. In attesa che Laika torni sulla Terra a raccontarci la sua verità.

“Potrebbe essere una pièce di Checov”? La Veronika di Latella

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MARTINA VULLO | Si apre il sipario e al centro della scena, una donna in vestitino beige e cappotto rosso grida ripetutamente aiuto. Non è pazza, dice. Poi si muove nello spazio e cerca la fonte di un suono immaginario: una radio trasmette la diretta di una corsa di cavalli. Pure il pubblico ora può sentirla. La cronaca di un certo Robert Krohn narra il delirio e il crollo di una bestia che si rivelerà dopata. Non dissimile sarà la fine della protagonista, che con i propri lamenti gli fa da contrappunto.

Questo è l’esordio di Veronika in una scena quasi spoglia. Pochi elementi scenici (un telo di pelliccia bianca alla parete frontale, una fila di sedie ai lati della donna e il binario di un carrello con macchina da presa) svelano subito il contesto di riferimento.

Ti regalo la mia morte, Veronika, messo in scena la settimana scorsa all’Arena del sole, con la regia di Latella, si ispira al film di Frassbinder Veronika Voss (l’acronimo si riferisce a Sybile Smiths: attrice tedesca di cui si rappresenta il tragico epilogo).

La carriera di Veronika è in declino. Lei è sola, insoddisfatta e soprattutto, suo malgrado, morfinomane. Sulle spalle non una, ma sei scimmie bianche che, sedute in differenti posizioni, la dirigono. Sembra che facciano uno strano rap mentre scandiscono il tempo e la vita della loro vittima: cadenzano ogni frase, intonano canzoni (che usano per sottofondo in alternanza al silenzio o al battito cardiaco fuori campo). Evidenziano ogni punto, ogni virgola, ogni sospensione.

Sono registe, scenografe, suggeritrici e persino attrici del film sulla sua vita: hanno annunciato i titoli delle scene, descritto gli ambienti e suggerito le battute e ora si spogliano delle pellicce bianche per incarnare diversi personaggi.

La storia si sussegue in un’indagine che il giornalista Krohn – interessandosi all’attrice – svolge sull’operato della clinica in cui lei è come reclusa. Da qui si scopre che a fini di guadagno, la dottoressa Katz somministra morfina ai suoi clienti, inducendoli al suicidio, se non possono più pagare.

La vicenda è narrata per frammenti. Sono gli stessi personaggi a raccontarsi, facendo capolino dagli abiti scimmieschi, per mostrarsi in una semi-nudità data da calzamaglie ed accessori intimi. Il loro esporsi però resta per lo più esteriore: non dicono di se’ quasi nulla che vada oltre l’esposizione del proprio ruolo. Sono delle caratterizzazioni di persecutori e perseguitati. Fanno eccezione attrice e giornalista (in vestiti casual) non definibili del tutto come vittime o carnefici, perché sono entrambe le cose ed allo stesso tempo. Ma anche loro sono scarsamente approfonditi, in una superficialità che da fastidio.

I personaggi parlano di se’ in vario modo: l’ex deportato, che precederà Veronika nell’astinenza e nella morte, canta il Gam Gam ebreo e questo basta per esprimere la sua sofferenza. Henriette, donna di Robert che morirà omicida per aiutare l’uomo nelle indagini, intona Each man kills the thing he loves di Jean Moreau (il cui testo è tratto, forse non a caso da un altro film – Querelle – di Frassbinder). I personaggi della neurologa e dell’assistente, ricorrono spesso a parole del lessico tedesco, che pronunciate con tono aspro, precedono la loro traduzione in italiano. Alcune scene rendono il senso della dipendenza a cui la psichiatra assoggetta i suoi clienti: si pensi ai baci strappati alla cliente o alla scena di quest’ultima gettata a terra e legata alla sua gamba.

Svariati gli intarsi visivi che sostengono la drammaturgia: il telo bianco in fondo, funge spesso da parete su cui vengono proiettati ora il ritratto di Veronika con firma, ora quello dell’ebreo, ora il numero tatuatogli al campo di concentramento. Durante lo svolgersi della prima scena, qualcuno monta degli apparati frontali al telo: anche queste costruzioni astratte, prima di essere smontate, sono proiettate sullo “schermo”.

Interessante la macchina da presa, che si muove sul carrello proiettando sequenze di abbaglianti colori, sul pubblico, alle pareti o sugli attori. Decisamente psichedelica, con l’intensità delle luci e la loro alternanza al buio, la cacciata di Veronika dal set.

Non mancano altri espedienti finalizzati a focalizzare  l’attenzione, come l’esordio del giornalista dallo spazio della platea o la scena finale che si svolge in una sorta di al di là che ricorda una Colazione sull’erba dai colori vivi. Al centro della scena un albero e vicino un maggiordomo. Sopra l’erba con Veronika ormai morta, la madre che l’ha preceduta e delle amiche: altre protagoniste dei film di Frassbinder.

“La storia è ciclica” dice qualcuno rivolgendosi all’attrice “hai perso i soldi, poi la casa e infine ti sei suicidata.. potrebbe essere una piece di Checov”

Su questa suggestione penso al ruolo importante del silenzio nelle opere di Checov e al suo stimolare la fantasia del pubblico giocando di tagli e sottrazione. Mi chiedo se la donna di cui abbiamo osservato la storia, ci avrebbe commosso di più, se avesse fatto un po’ di meno. Ma in fondo anche se poteva essere una piece di Checov, è una piece di Latella che ancora una volta, a quasi dieci anni di distanza da Le lacrime amare di Petra Von Kant, vuole rendere omaggio al cinema di Frassbinder: probabilmente l’unico vero soggetto della rappresentazione.

Epilogo: manca qualcuno dentro il quadro onirico. Robert Krohn sale ancora una volta sul palco. Ha con se’ una rivoltella, ma nel giardino non è ammesso suicidarsi. Al maggiordomo si affida allora l’ultima azione. È lui che punta la pistola sul giornalista. Spara. E come dicevano le scimmie: “punto”.

Come l’Occidente fu minacciato da Mary Poppins, ovvero la paura del diverso in una società multietnica

FILIPPA ILARDO E RENZO FRANCABANDERA | È di sconvolgente attualità la minaccia che fa traballare il trascorrere tranquillo e protetto della nostra vita: quel vento che viene da Sud Est mette in discussione non solo la nostra sicurezza, ma l’impalcatura stessa del pensiero occidentale e del suo anestetizzante perbenismo.

RF: Ci aveva molto colpito, nei giorni in cui eravamo stati a Messina ospiti di SabirFest, poter mettere il naso nella soffitta al sesto piano del teatro cittadino, dove era al lavoro un gruppo eterogeneo composto da giovani attori del territorio e alcuni adolescenti migranti, selezionati per un progetto di inclusione e guidati, gli uni e gli altri, con grande vigore e intenzione da Angelo Campolo in un laboratorio destinato ad una produzione che ha avuto esito in questi giorni.
Il regista è un giovane di talento, impegnato su diversi fronti nei linguaggi della scena, fra cinema e teatro, ma guidava i ragazzi con grandissima intensità ed emozione, tanto che fu immediatamente chiara sia a me che a chi con me assistette a questa prova aperta di mezz’ora circa, l’intenzione profonda dello spettacolo che ne sarebbe nato. Si parlava di inclusione e accesso alla ricchezza del nostro mondo, lo si faceva giocando sui linguaggi specifici, le aperture e le chiusure di ciascuna forma di società. Lo si faceva attraverso i movimenti e attraverso il ritmo. E si presagiva in modo chiarissimo un’organizzazione di questi due elementi simbiotica: era, in modo leggibile, la spina dorsale dello spettacolo che in poco più di un mese sarebbe nato. I ragazzi africani, nerissimi, ancora parlavano in modo malfermo l’italiano, e il loro francese d’Africa, i loro occhi venati di rosso su pupilla color crema, il loro battere il tempo, creavano davvero un’atmosfera di ingaggio dello spettatore. Uscii da quella soffitta emozionato. E con un odore di Pasolini che mi è rimasto nelle narici. Per questo ho chiesto a Filippa Ilardo di completare il mio sguardo, raccontandoci quello che è successo dopo. In un salto in avanti di un mese rispetto a questo mio racconto e di qualche giorno fa rispetto a chi ci legge, perché racconta dell’esito definitivo.

FI: All’inizio sembra una dedica a Pasolini, invocato per nome da quattro giovani migranti del centro Ahmed e portati in scena da Angelo Campolo in Vento da Sud Est, spettacolo scritto insieme a Simone Corso, andato in scena alla Sala Laudamo di Messina e prodotto da DAF-Teatro dell’Esatta Fantasia.

DSC_9847Poi quel ritmo incessante di chi lascia una vita come se non gli fosse mai appartenuta in un esilio privo di dignità, viene visto da un’altra prospettiva, si fa un battito alla porta, sempre più insistente, sempre più preoccupante, sempre più aggressivo.

Una porta e un recinto-frontiera difesi debolmente da una famiglia stile musical anni ’50 (buono il lavoro di scene e costumi di Giulia Drogo), una famiglia da cartone animato o da Mulino Bianco, che con un sorriso falso disegnato sulle labbra vive una vita improntata ad una falsa rispettabilità.

La famiglia pasoliniana di Teorema per intenderci, riportata però ai nostri giorni, in cui il padre, Luca D’Arrigo, blatera un pensiero leghista mandato giù a memoria, salvo poi essere viene zittito, come in una tv senza volume.

La moglie perfetta, Patrizia Ajello, rinchiusa in un moralismo di facciata, pensa invece che i gay vadano perdonati e questo Papa, troppo progressista, è una prova che manda il Signore per misurare una fede ipocritamente conformista.
Così mentre bussano alla porta, le lasagne si freddano, due voci narranti (Michele Falica e Antonio Vitarelli) spezzano la finzione della messa in scena e con un fermo immagine, inchiodano le coscienze dei protagonisti in taglienti domande.

Il vento che preme fuori è il caos che sta sopraggiungendo, il perturbante che sconvolge le nostre coscienze, la forza di una natura indomesticabile -come non ricordare la pellicola muta di Victor Sjöström-, o forse il vento, più banalmente rassicurante, di Mary Poppins, Glory Aibgedion.

L’ironia della tata, che qui rappresenta il diverso, smaschera una serie di falsi valori che vengono buttati all’aria, fa esplodere problemi nascosti e sopiti, negati.

Una rara intensità e un coinvolgimento emotivo fuori dal comune fanno superare ai giovani attori qualche acerbità. La figlia Odetta, Claudia Laganà, esplode in una ribellione alla ricerca della propria identità anche sessuale, lo fa suonando una batteria invisibile con una forza indomabile che è quella dei giovani e della loro passione.

Attraverso la figura del figlio, Giuliano Romeo, ad essere presa di mira non sono più i valori borghesi di pasoliniana memoria, ma quelli della società di massa, una società malata di egoismo sociale, di individualismo aggravato da mezzi di comunicazione che solleticano un autocompiacimento esibizionista.
C’è un ashtag per tutto nella società delle immagini, una società in cui la condivisione avviene su facebook e il pensiero si conferma sul numero dei like, in cui è meglio fare schifo che passare inosservati.

C’è tanto, forse anche troppo, in questo spettacolo di cui si apprezza la ricerca di nuove forme espressive, il montaggio fatto di giustapposizioni e accostamenti di segni in una struttura narrativa complessa, ma piuttosto coerente. Fra tutte le qualità emerge la capacità di trattare senza pietismi il tema dell’immigrazione e di modernizzare in modo non rassicurante la figura di Pasolini, un intellettuale il cui pensiero fa ancora male a tutti.

VENTO DA SUD EST

diretto da Angelo Campolo

compagnia DAF TEATRO DELL’ESATTA FANTASIA 

drammaturgia dello spettacolo: Simone Corso e Angelo Campolo

movimenti coreografici: Sarah Lanza

scene e costumi: Giulia Drogo 

musiche del maestro Giovanni Puliafito

con: Michele Falica, Patrizia Ajello, Luca D’Arrigo, Giuliano Romeo, Claudia Laganà, Antonio Vitarelli e  i giovani migranti del centro accoglienza Ahmed: Gotta Juan Dembele, Glory Aibgedion , Ousmane Dawara, Moussa Yaya, Camara Mohammud

IN POCHE PAROLE: La stanza dei giochi di Scena Madre

imageRENZO FRANCABANDERA | E’ lo spettacolo vincitore del Premio Scenario Infanzia 2014, una creazione della Compagnia Scena Madre che porta la firma alla regia e drammaturgia di Marta Abate e Michelangelo Frola, che scelgono di guidare in scena due bambini, Elio Ciolfi, Emma Frediani. Parliamo de La stanza dei giochi.
In scena fra molti giocattoli e una casetta di plastica di quelle che campeggiano in molti giardinetti backyard due bambini in 45 minuti di recitato danno vita a dinamiche relazionali il cui confine con le modalità dell’età adulta è invero sottilissimo. Si parte con un patto con cui lei (aggressiva e dispettosa) concede a lui di entrare nella casetta purchè le faccia da servo. E’ un gioco che a volte i bimbi fanno ma che qui sviluppa una dinamica adulta e particolarmente “politically uncorrect”, che è al contempo la ricchiezza ma sotto alcuni punti di vista anche il vulnus di questo spettacolo. E’ un lavoro di cui è stata pustulata la “rivoluzionarietà” rispetto ai paradigmi che il teatro ragazzi ha finora avuto. Gli elementi di particolare novità della creazione sono la presenza in scena come unici interpreti dei due bambini e il fatto che la drammaturgia sia affidata ai bambini stessi pur con un sapore spesso adulto.
Sul primo punto, certamente in Italia esperimenti di stampo professionistico con bimbi in scena sono pochi ma nei paesi nordeuropei sono abbastanza la prassi, tanto che a Vie Modena in diverse stagioni (e anche a Milano a Teatro i) erano approdate le creazioni di gruppi belgi totalmente ideate e interpretate da bambini. Anche il progetto delle Albe su Majakovskij e Lolita di Babilonia portano in scena i ragazzi, anche se questi de La stanza dei giochi sono anagraficamente più piccoli della media.
La logica sottostante lo spettacolo che trasforma il terrain de jeux in terrain de guerre è interessante, ancorchè dal punto di vista drammaturgico mantenga una sua staticità che nella seconda parte in particolare non fa evolvere in maniera rotonda i caratteri. Il finale, in cui si mostra come la guerra porti a creare muri e solitudini, è di fatto un elemento già acquisito da tempo nel plot, mentre resta abbastanza immotivata la spigolatura caratteriale della bambina dal tratto viziatello e dominante, in forma quasi aprioristica. Ciò certamente può  essere in natura, tuttavia questa fissità che solo nel finale si smussa non giova al ritmo scenico che forse nell’orizzonte breve dei 20 minuti poteva essere risultato più compatto di quanto non appaia la creazione nella sua interezza, presentata in questi giorni a Campo Teatrale, Milano.
Non che si sia tifosi del teatro pedagogico, anzi, troviamo spesso bacchettoni alcuni rilievi mossi a proposte per l’età infantile che ne vogliano ritardare il confronto con i grandi temi della debolezza caratteriale umana, ma certamente un carattere infantile che fin dall’inizio si declina nelle modalità dell’inganno, del ricatto e della minaccia ci lascia il dubbio che, pur volendo puntare il focus su queste particolari questioni che avvicinano bambini e adulti, si rischia forse di sottovalutare quanto i bambini siano capaci di azzerare in nulla queste questioni, e questa è la loro vera ricchezza (cosa che altri recenti spettacoli, come l’Hanà e Momò di Principio Attivo, per menzionarne uno ancora in cartellone, hanno affrontato).
Dunque il dubbio che ci resta è proprio che si voglia insistere sull’applicazione di un paradigma adulto su una meccanica scenica che si vuole destinata ai bambini, anche “oltre” le tipicità dei bambini stessi, e che in questa scelta, ovviamente comprensibile ai fini artistici, si rischia di sottacere una parte importante delle dinamiche dei bambini, quella capace di considerare tutto transitorio, passeggero, leggero.
Qui la guerra sembra invece una scintilla drammaturgica preventiva (giusto per usare anche noi un vocabolario adulto), e la pace un’opzione negoziale troppo poco prioritaria nell’agenda dei protagonisti. Oddio, siamo diventati bacchettoni noi?

Vecchia sarai tu: una gemma nella serra

GIULIO BELLOTTO | Il verde del fogliame della serra illumina il palco vuoto mentre Antonella Questa entra in scena attraversando rapida il corridoio tra il pubblico. Pochi secondi dopo, laSONY DSC sua sagoma s’intravede appena sotto un leggero scialle che le copre il corpo e la sedia su cui siede, come un sudario. Come il lenzuolo tirato su una barella d’ambulanza. Le luci si affievoliscono, la pièce – scritta dalla stessa interprete e da Francesco Brandi – sta per iniziare.

La nonna è caduta in casa, ha corso un bel rischio per una donna di ottant’anni. Vive sola per giunta, un’imprudenza a quell’età; la moglie del marito – lui lavora all’estero – l’accompagna a sirene spiegate in ospedale; poi direttamente alla casa di riposo, una da retta a tre zeri mensili, ma senza sirene, in questi casi non servono. E’ ordinaria amministrazione. La nipote non riesce mai ad andare a trovarla, tra lavoro e dottorato non ha proprio tempo. Una storia all’ordine del giorno, quasi scontata, per quanto triste; questo materiale diventa però capace di impressionare nelle mani di un attrice dalle capacità di Antonella Questa. Non tanto per la drammaturgia, ben costruita certo ma quasi scontata nel suo sviluppo e – ve lo posso rivelare fin da subito – “Vecchia sarai tu” finisce bene, è una favola moderna, quasi un pezzo di cabaret frizzante da one-woman-show. Non stupisce neppure il fatto che, come i migliori spettacoli d’intrattenimento, abbia i suoi momenti dedicati al riso; un’ironia ben dosata, mescolata a un sarcasmo molto politically incorrect, impreziosisce la rappresentazione di una (neppure troppo) velata critica sociale ai tempi d’oggi.

Misurata, pulita, sensibile ed efficace, la vera chiave di volta dello spettacolo è però l’interpretazione e l’attrice non si risparmia: tiene brillantemente la scena senza appoggiarsi a nessuna scenografia, vestita semplicemente di nero e avvalendosi come unico oggetto di scena dello scialle/sudario/lenzuolo che nel girandolico alternarsi delle tre donne nelle sue sembianze diventa anche sciarpa e coprispalle. A ciascuno di questi utilizzi corrisponde puntualmente, attraverso la descrizione del personaggio, un’età. A ciascuna generazione spetta il proprio carattere; ecco che quindi “Vecchia sarai tu” smette di essere una storia un po’ pietistica sulla sorte degli anziani nel Primo Mondo globalizzato e si trasforma in un afflato di comune umanità che spira dai bunker montani dove la nonna s’innamorava di un figlio di contadini sotto i bombardamenti tedeschi, fino alla città grigia e senza prospettive in cui vive la nipote, passando per le ville vendute dalla madre. Da quei terrazzi si vede il mare aggredire le coste della Liguria, ambientazione della pièce; in riva al mare la casa della nonna ospita l’amore senile con il figlio del contadino, dopo una vita di stenti e privazioni. Si torna insomma su toni più emotivi, non per forza stucchevoli, che culminano in un atteso lieto fine.

Rimane però la consapevolezza che lo spettacolo non è più solo intrattenimento e leggerezza, ma sottende un’analisi sociale piuttosto interessante che per una volta si impone nei contenuti teatrali e non solamente nei fogli di sala. I personaggi meglio delineati sono evidentemente i più anagraficamente distanti: nonna e nipote sono in realtà unite dalla mancanza di tempo, l’una per via dello spettro della morte, l’altra perché – specchio della gioventù – affonda in una vischiosa rete di incertezze lavorative, ansie generazionali, crisi di identità e paranoie esitenzial-arrivistiche. E’ una resa scenica che non offende e non giudica, ma sorride. Perché alla fine la nipote sorride, il contadino, unico personaggio maschile, interviene provvidenzialmente e salva le cose ristabilendo la situazione iniziale pre-ospizio, proprio come in una favola. E che bello vedere una struttura drammaturgica chiara a servizio di un messaggio e non viceversa!
Le due donne si avvicinano, gli antipodi si toccano, la speranza è nel futuro. Magari è velata di buonismo, ma sotto il velo c’è speranza.
La madre invece resta distante, lontana anche dallo spettatore. Un po’ perché ha caratteri improntati più alla macchietta di una donna vanesia alle soglie della menopausa che alla verosimiglianza di una quarantenne; un po’ perché viene sacrificata sull’altare delle strutture schematiche della fiaba e in quanto antagonista dura e pura fa la fine della Strega dell’Est, infine per via del suo momento di follia, credibile proprio in quanto esagerato: un raptus che brucia il personaggio nella tensione creata dalla fisicità dell’attrice.
A supporto di ciò l’uso accorto della colonna sonora e la musicalità delle parole stesse, amplificata dal fatto che la nonna parla dialetto, fa da sottofondo ad alcuni momenti di teatro fisico e danza, esplicitamente descrittivi ma funzionali.
Poi, quando lo spettacolo si conclude, sull’onda del sentimento anche le foglie in fondo alla serra sembrano più luminose di prima.

Il piede sospeso. Sulla Maria di Michela Cescon e Marco Tullio Giordana

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GIULIA RANDONE | Che nome dare a un genitore che perde il figlio?
Chiamiamo orfani i figli rimasti senza genitori ma non abbiamo ancora trovato un modo per indicare una madre o un padre che perdono il figlio. Come se la nostra lingua fosse refrattaria ad ammettere che chi genera la vita possa sopravvivere alla morte della propria creatura. Il dolore resta senza traduzione. Michela Cescon, invece, costruisce un monologo lento, cadenzato dalla rabbia e rischiarato dall’amore, e a quel tabù dà un nome: Maria. Maria, madre di colui che molti ritengono il Salvatore. Maria, madre di un figlio morto per una missione incomprensibile e inaccettabile. Le ultime parole pronunciate da Cescon prima che cali il sipario escono dritte dalla gola, senza alcuna levigatura, il grido straziato di una voce che non urla mai: “Non potevamo essere risparmiati?”

Il testamento di Maria, il monologo di Michela Cescon diretto da Marco Tullio Giordana che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Gobetti di Torino il 17 novembre, è la veglia solitaria di una donna fuori dal tempo. Perché – per fortuna – a Cescon e Giordana non interessa mostrare una Madonna moderna, magari in versione blasfema o pop, ma dare voce a una donna comune, protagonista di una storia incredibile. Scansata ogni tentazione modernizzante, sulla scena appare ciò che sembra attuale ed è invece, semplicemente, eterno: il complesso mondo interiore di una madre. Con la lingua secca e sferzante di Colm Tóibìn, autore del romanzo da cui è tratta la drammaturgia, Maria rievoca la gioia dei primi anni della maternità, quando viveva all’unisono con il figlio e la settimana era scandita dal riposo dello shabbat, poi il progressivo distacco del suo bellissimo bambino, conquistato da un’idea e per quella stessa idea torturato e messo a morte.

L’impatto della scena è notevole e il merito va a Gianni Carluccio, che con grande sensibilità fa dialogare scenografia, luci e costumi. Michela Cescon indossa una lunga tunica chiara ed è immersa in uno spazio bianco, insieme ampio e raccolto. La stanza – un tavolo appoggiato su cavalletti, due sedie e due finestre – è animata da una sapiente narrazione di luci, che evoca fantasmi e ricordi incancellabili, assemblando paesaggi diversissimi come la brulicante “città del futuro” Gerusalemme e la collina insanguinata del Golgota. Questa scena, che trae ispirazione da un’immagine di Mamma Roma di Pasolini e dalla pittura del Quattrocento, ha la forza delle prospettive metafisiche di De Chirico. Le nicchie ad arco sullo sfondo ricordano i monotoni porticati del pittore surrealista, panorami tagliati dalla luce e percorsi dall’inquietudine che stia per accadere (o sia appena accaduto) qualcosa di sconvolgente.

Michela Cescon attraversa lo spazio scalza, calcando il palco con decisione. I piedi per la verità sono quasi sempre nascosti dalla tunica bianca e appaiono solo a momenti, ma sprigionano un’energia tangibile. Invisibili, sostengono la donna nel suo cammino a ritroso nella memoria e nel percorso circolare lungo una stanza trasformatasi in prigione. Poi, d’improvviso compaiono da sotto l’abito, in un bagliore di carne. Alla notizia della condanna a morte – “a quel punto Pilato lo mise nelle loro mani” – un piede si stacca leggermente dal terreno e la figura statuaria di Maria resta sospesa, in procinto di spezzarsi. Prima che si verifichi il crollo, un’ombra pietosa calerà su quel corpo di dolore, nascondendolo al nostro sguardo. Tale postura precaria, in equilibrio su un piede, fotografa l’anima di questa umanissima Maria: non preannuncia soltanto la sua discesa nel dolore più profondo, ma anche il balzo ferino che è pronta a spiccare contro chi le ha portato via il figlio e ora esige la sua complicità per stenderne l’agiografia.

Lo spettacolo, prodotto dai teatri stabili nazionali di Torino e del Veneto in collaborazione con Zachar Produzioni, trova in Michela Cescon un’interprete appassionata e convincente, a dispetto di un testo che a tratti diventa verboso e di una regia fin troppo discreta, che non approfondisce le proprie scelte. Come quando, verso il finale, proietta su un tulle alle spalle di Maria il volto dell’uomo della Sindone e poi sembra non sapere che farsene.

Se l’Amore riscalda fino al silenzio: intervista a Spiro Scimone

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FILIPPA ILARDO | Capita raramente, ma ci sono volte in cui, lo spettacolo visto ha in sé la necessità di essere narrato, ripensato, ripercorso attraverso la memoria e in questa fase si può aprire a parallelismi inaspettati, a imprevisti vettori di senso. “Amore”, che ha debuttato a Messina al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, lo scorso 5 Novembre, della Compagnia Scimone e Sframeli è uno di questi spettacoli, di quelli cioè che si prestano ad un lavoro di scavo e dissotterramento di tutte le stratificazioni che testo e messa in scena nascondono. In una struttura narrativa di rigorosa simmetria, due coppie, speculari l’una all’altra, una di due vecchietti eterosessuali (Giulia Weber e Spiro Scimone), l’altra di due vigili del fuoco omosessuali (Francesco Sframeli e Gianluca Cesale), in un gioco di allusività dai risvolti amaramente comici e solo velatamente sconci, si dicono per la prima volta quello che mai hanno avuto il coraggio di dirsi. Il coraggio di dirsi tutto è quello di ascoltarsi senza dirsi nulla e può avvenire solo in quella condizione liminare tra questo mondo e il nulla.

Lo spazio-tempo è sciolto da ogni riferimento realistico, due letti-tomba con tanto di croci come abat-jour e lenzuola-sudari (le scene sono di Lino Fiorito) diventano il simbolo della vita e la morte viste come due condizioni marginali, al limite dell’esperienza umana, l’una è il guanto rovesciato dell’altra, la vecchiaia come confine tra vita e morte diventa il negativo in cui si colgono i profili opposti dell’esistenza. Per queste figure-limite, sulla soglia di due mondi apparentemente non comunicanti, la contraddizione morte-vita corrisponde anche all’opposizione finzione-realtà, alla dinamica teatro-vita: allora il gioco teatrale prende la mano e nella regia di Sframeli la comicità assolve alla funzione del paradosso che diluisce nel riso le amare incomprensioni della vita.

Il linguaggio gioca un ruolo di primo piano, diventa quella cerniera provvisoria in cui le parole migrano, si celano, non procedono verso la verità, dicono per non dire e non dicono per dire. Le metafore (l’incendio che rappresenta la passione, il lenzuolo che rappresenta la morte) si fanno miniere di latenza, in una sorta di gioco allo scarto tra detto e non detto, tra l’esplicito e l’implicito. Mentre il martellamento delle battute nel ritmo ossessivo che le incastra, sempre più insistito e compulsivo, sembra iscritto nella voce degli attori, nelle loro sonorità vocaliche. Eppure, a poco a poco, nel cicaleccio dell’incomunicabilità, si fa spazio quel silenzio pregnante e carico di senso e sensualità che è il nulla. Alla fine dello spettacolo, incontrando l’autore, gli rivolgiamo una domanda d’obbligo, partendo dal fatto, in sé abbastanza significativo, che il debutto dell’ottavo spettacolo della Compagnia, ormai affrancata da un’ingombrante appartenenza geolinguistica, avvenga proprio a Messina.

Le nostre origini hanno sicuramente influenzato il nostro percorso artistico. Il linguaggio teatrale dei nostri primi due testi è stato creato con le parole messinesi. I personaggi delle nostre opere appartengono alla nostra cultura, al nostro vissuto, fanno parte del nostro mondo. Un mondo che cerchiamo di raccontare attraverso un teatro essenziale. Essenziale nell’uso della parola, nella recitazione, nella costruzione scenica. Un teatro attento alla cura del particolare. Un debutto assoluto è poi sempre una verifica. Con lo spettacolo “Amore”, questa verifica è andata nel migliore dei modi. Tra la compagnia e gli spettatori, che lo hanno potuto vedere a Messina, c’è stata la stessa condivisione: “Amore” è stato, per noi e loro uno spettacolo necessario.

Si è parlato a proposito del vostro lavoro di teatro testo-centrico. Possiamo definire la vostra scrittura un intrecciarsi di tre livelli di scrittura, quella drammatica, quella performativa e quella registica?

 La nostra è una scrittura teatrale, che nasce dal corpo dell’autore per vivere, durante la rappresentazione, attraverso il corpo dell’attore. Nella rappresentazione è indispensabile la presenza dello spettatore. La relazione tra i corpi – dell’autore, dell’attore e dello spettatore – è per noi il teatro.  Per creare questo tipo di relazione è importante che ci sia sempre tra i tre elementi un vero ascolto. Il teatro educa all’ascolto. In teatro non si può far finta di ascoltare. Il teatro è finzione, ma per conquistarlo bisogna raggiungere il massimo dell’autenticità.

In “Amore” la vecchiaia è una condizione rovesciata della vita, dove tutto si fa ricordo, dove la partita si gioca tra le occasioni mancate e l’estrema possibilità di soddisfare il proprio desiderio.

E’ vero che i quattro vecchietti di “Amore” soddisfano il proprio desiderio alla fine; ma tutti e quattro, attraverso la finzione teatrale, ci suggeriscono di fare l’opposto, ci consigliano di soddisfare tutti i nostri desideri prima di arrivare alla fine. Senza paura…Senza nessuna paura.

Anche in “Amore” c’è una forte riflessione sul linguaggio. Questi personaggi hanno sempre “paura di dire”. Alla fine la speranza è risposta in un escatologico anelito al silenzio. Riscaldarsi reciprocamente “fino al silenzio” è l’unico modo per sentire l’altro.

Viviamo in un mondo che allontana sempre di più i nostri corpi… Spesso non riusciamo più a sfiorarci. La distanza dei corpi genera solitudine, paura, e ci impedisce di apprezzare il corpo degli altri… I personaggi di “Amore” non hanno paura di comunicare l’autenticità dei sentimenti. I quattro vecchietti di “Amore”, si avvicinano e si riscaldano reciprocamente, sotto il lenzuolo, proprio perché sentono il bisogno di amare il corpo dell’altro fino al silenzio.

La presenza femminile sulla scena è una novità del vostro percorso. Un pò come nel cinema di Ciprì e Maresco o nel teatro di Scaldati c’è stata finora un’esclusione della presenza femminile. Maresco, che ha rimesso in scena proprio le opere di Scaldati, ha dichiarato che la mancanza femminile implica la mancanza di speranza, anche per te è così?

Nei nostri spettacoli non c’è stata la presenza dell’attrice per scelte registiche; la presenza femminile c’è stata, La madre è la protagonista dell’opera “La festa”. La mamma in “Nunzio”, la prostituta in “Bar”, la moglie nel “Il Cortile” anche se evocate, hanno un’importante funzione drammaturgica. Siamo d’accordo che la donna è portatrice della vita che si rinnova… La donna è la speranza, proprio per questo nel nostro spettacolo solo lei riesce a dire la parola “amore”.

Nella dinamica tra autorialità dell’attore e attorialità dell’autore, quali sono i passaggi che avvengono nel momento della creazione?

Già in fase di scrittura la parola ha un corpo, anzi è il corpo dei personaggi che trova la parola. I personaggi non hanno un corpo astratto e non hanno nemmeno un corpo naturale. I personaggi hanno un corpo teatrale che, come ho già detto in precedenza, vive solo con la rappresentazione, attraverso il corpo dell’attore. Il nostro lavoro di scena nasce con la creatività, la passione e l’intenso lavoro di tutti i componenti della compagnia.

Compagnia Scimone Sframeli

AMORE

di Spiro Scimone

regia di Francesco Sframeli

con Spiro Scimone, Francesco Sframeli, Gianluca Cesale, Giulia Weber

scena di Lino Fiorito

disegno luci Beatrice Ficalbi

regista assistente Roberto Bonaventura

direttore tecnico Santo Pinizzotto

amministrazione Giovanni Scimone

relazioni esterne e ufficio stampa Rosalba Ruggeri

realizzazione scena Nino Zuccaro

produzione compagnia Scimone Sframeli

in collaborazione con Théâtre Garonne Touluouse

 

IN POCHE PAROLE: la Moda e la Morte di Animanera

imageRENZO FRANCABANDERA | La Moda e la Morte sono sorelle, condividono un appartamento. L’idea generale, prima che di Magdalena Barile nel 2015 è stata di Giacomo Leopardi ne Le Operette Morali. La Barile su questo stimolo letterario apicale inventa un pastiche allegorico trasposto di recente in scena (all’Elfo) da Animanera, compagnia residente in Milano presso il CRT.

La trama: In una scena barocca e un satura sia di oggetti che di cromatismi (Valentina Tescari), che lascia immaginare una sorta di Olimpo pagano e dal sapore un po’ drag, albergano alcune divinità capricciose. La routine di un paio di loro, due attempate ma non anziane signore (la Moda, Natascia Curci e la Morte, Benedetta Cesqui) viene movimentata dalla vita capricciosa di un* loro parente giovane e bizarr*, La Storia (Matthieu Pastore) che irrompe in scena seguita da un umano, un eroe contemporaneo, un guerrigliero, un terrorista (Fabrizio Lombardo). La Storia è un villosissimo gay in tutù, la Morte una vecchiaccia brutta e poco curata, la Moda una stilosissima MILF intenta ad autofabbricarsi, nella miglior tradizione del patchwork 2.0, i suoi capi dal sapore etno-metrosexual, mentre l’eroe è in canotta e pantaloni militari, come da manuale dell’iconografia. Il registro ironico prevale, c’è sempre movimento in una trama che vede via via la Morte perdere forza sugli eventi della Storia, e alla fine la vittoria della Moda sulla Morte nel nostro tempo è inevitabile, sostiene la Barile, per via della forza che la socialità massmediale ha costruito, donando agli uomini la parvenza dell’immortalità. E’ questo in sintesi l’argomento di uscita della drammaturgia, la via di fuga di un intreccio curioso ma che ad un certo punto pare saltare dei passi logici e forzarne degli altri che però non appaiono sostenuti con il giusto vigore. L’ascesa al trono della Moda con cui lo spettacolo si completa, infatti, avviene per passaggi drammaturgici non sufficientemente consolidati, e questo si riflette anche su alcuni caratteri, la cui profilazione rimane solo abbozzata nei momenti cruciali, come un chiaroscuro cui manchi il giusto bilanciamento di saturazione.

Aldo Cassano ambienta la pièce cercando di dare una sferzata ad un’idea che, pur originale, non dipana il potenziale evocativo che incorpora. E questo resta il limite di un allestimento bidimensionale ancorchè bizzarramente interpretato, perché i personaggi evolvono poco e rimangono statici in una dinamica che finisce per avvitarsi pelosa.

Vizioso ma troppo Villoso.

La camera da ricevere: Ermanna Montanari fra biografia e teatro

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MARTINA VULLO | Diverse ragioni spingono il pubblico ad applaudire alla fine di uno spettacolo: il riconoscimento di una piece ben fatta, la lode alla bravura di un attore o la pura convenzione che si traduce in un gesto formale di cui talvolta non si è neanche convinti.
Poi ci sono quei casi in cui gli spettacoli generano un’energia in grado di attraversare il corpo dello spettatore, il quale senza stare a pensarci si ritrova a battere le mani in un automatismo difficile da arrestare.
Quando questi casi si verificano Dioniso ha compiuto il proprio compito incarnandosi nell’attore e facendogli dono della sua forza vitale ambivalente in grado di fare emergere al contempo tutto il sublime ed il triviale che appartiene all’uomo.
“Incarnazione” è una parola che racchiude bene il senso dello spettacolo che Venerdì scorso ha avuto luogo ai laboratori delle arti di Bologna. Ne La camera da ricevere, Ermanna Montanari è il medium di eccellenza dentro cui si incarnano diverse figure del suo repertorio: fondamentali tappe di uno spettacolo che intreccia il racconto alla recitazione e il percorso biografico dell’attrice a quello professionale: poli che del resto sarebbe impossibile dividere.
Il filo rosso che lega i personaggi è appunto la camera da ricevere: una stanza della casa di Campiano – paese in cui la Montanari ha vissuto nell’infanzia – che veniva aperta solo nelle grandi occasioni per ricevere gli ospiti: un luogo magico, nella penombra del quale possiamo immaginare questa bimba rifugiarsi per far vivere le creature nate dalla propria fantasia e dare loro voce… cosa che da allora non ha più smesso di fare.
Ogni personaggio creato o reinventato dall’attrice deve qualcosa a quella stanza. Per questo Fatima l’asina volante, Belda la veggente, Daura de I refrattari, Alcina instupidita per amore, Arpagone, Rosvita canonichessa sassone, Medar Ubu e Aung San Suu Kyi, si manifestano al suo interno.
Penombra. Due sedie laterali. Una grande scrivania su cui è adagiata una lampada da studio e svariati oggetti che verranno usati per la drammaturgia. In avanti, alla sinistra del pubblico, il leggio dal quale l’attrice racconta, spiega ed introduce le figure prima di dare loro vita.
A definire i personaggi pochi oggetti: le orecchie di Fatima, lo scialle di Daura, un giglio bianco, guanti, una falce e una corona. Qualche volta a rendere visivamente un personaggio basta un diverso modo di usare la luce, come il neon puntato su Arpagone o assumere una particolare posizione, come quella di Alcina sulla sedia o ancora più efficacemente un cambiamento di espressione.
Pari alla capacità mimica della Montanari è la sua maestria nell’uso della phonè: il suono che si fa linguaggio ancora prima di veicolare la parola. Se la veggente parla un Romagnolo poco comprensibile, la rabbia e l’odio della donna verso il parroco che ne ha disseppellito la madre, è perfettamente palesato nei suoni che essa emette. Interessante dal punto di vista fonetico, il modo in cui l’asina parlante Fatima, nel riportare le sofferenze del mondo che le sue grandi orecchie accolgono, modula il timbro della voce facendolo tendere in certi momenti ad un ragliare.
Non è un caso che l’asino, simbolo dell’ideologia della compagnia ravennate sia il primo ad esordire. Nell’introdurlo Ermanna racconta la propria parentesi universitaria a Bologna e della tesi su Giordano Bruno affidatale da Meldolesi.
Ogni personaggio ha un personale sfondo sonoro. Qualcuno è avvolto dal silenzio, altri sono accompagnati da suoni o melodie. Un suono breve ed acuto segnala l’esordio di un nuovo personaggio, mentre l’attrice di spalle cambia mentalmente veste.
Andando avanti nel racconto, la Montanari parla dell’incontro con Luigi Ceccarelli: artista di musica elettronica col quale si è creata una forte alchimia. Parla della propria scoperta del microfono con tutte le potenzialità che ne derivano. La voce di Alcina che segue è la sua, ma fuori campo. Lei non parla. Sta quasi immobile sulla sedia forte della sua presenza, ma la voce sembra sprigionare dal suo corpo.
Il concertare di Ermanna ricorda quello di Carmelo Bene (se confrontassimo il video della lettura-concerto di Rosvita, girato dal gruppo Acqua Micans per le Albe e quello di All’amato me stesso di Majacovskij recitato da Bene, anche nelle inquadrature, in certi sguardi e nell’atmosfera ritroveremmo non poche somiglianze), ma la capacità vocale, per quanto forte, è solo una delle diverse componenti che nel loro insieme rendono affascinante lo spettacolo.
Ciò che conquista il pubblico sono i piccoli sorrisi che la drammaturgia riesce a catturare pur nel trattare argomenti tutt’altro che allegri, il mettere a nudo se stessi come fa Ermanna parlando il suo dialetto o raccontando di se, il percepire che l’attore in scena è il primo ad emozionarsi (penso alla commozione palpabile dell’attrice nel recitare i frammenti di Amalia Rosselli ed Emily Dickinson dell’intermezzo di Rosvita) o anche semplicemente le storie che vengono scelte e che commuovono: una fra tante quella del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi e della sua ferma convinzione che un futuro migliore per l’uomo possa venire, anche quando il mondo sembra suggerire il contrario.
La parola chiave è equilibrio. Del resto anche Martinelli attraverso uno degli aneddoti che ama raccontare nel corso dei suoi laboratori, mettendo le parole nella bocca di un intellettuale invitato ad un ricevimento a corte e interrogato su cosa sia l’arte, gli fa rispondere che l’arte è “un pochettino”: un colore un pochettino più chiaro o più scuro in un quadro, un’inquadratura leggermente diversa in una fotografia o una parola un po’ differente in una poesia d’autore. Un gioco di equilibrio insomma.
Ripenso allora ad Ermanna Montanari. Al suo cambiare otto personaggi con relative voci, espressioni, movenze, nell’arco di due ore scarse. Penso al suo passare dal racconto leggero al più impegnato, dal personaggio giovane all’anziano, dal maschile al femminile. Dai personaggi delle cronache attuali a quelli vissuti secoli fa o tratti da altre drammaturgie e riadattati ad hoc. Penso alla naturalezza con cui questo avviene e mi domando se non sia stato il suo spettacolo una gran dimostrazione di questo “pochettino”.

I tentativi di Jan Martens nell’assolo per se stesso

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VALENTINA DE SIMONE | Continua a scattarsi selfie buffi, Jan Martens, mentre gli spettatori prendono posto in sala. Lo troviamo così, in pantaloncini e t-shirt spiegazzata, seduto a giocherellare con il suo portatile in quella che potrebbe essere benissimo la camera da letto di un adolescente, se non ci trovassimo in teatro. Con la testa nello schermo si diverte a cliccare sulla sua immagine che possiamo sbirciare ingigantita dallo schermo sul fondale. Sembra quasi non prestare attenzione a quello che gli avviene intorno ma eccolo, ad un tratto, puntare lo sguardo sulla platea e fissarla.

Ode to the attempt (a solo for meself) di Jan Martens, tassello conclusivo di DNAeurope, il focus dedicato alla nuova danza internazionale del Romaeuropa festival 2015, è uno spazio personale della creazione in cui poter agire solo per se stessi, è un esercizio di libertà, una pagina bianca dell’espressione tutta da testare. Su un file proiettato sullo sfondo sono sintetizzati i diversi tentativi da azzardare in scena, seguendo la cronologia dell’elenco che a mano a mano viene a delinearsi. Lo scrive di suo pugno, il danzatore e coreografo belga/olandese, condendo d’ironia ogni singolo punto che, a sua volta, corrisponde ad un’istantanea di vita da mettere in danza.

Con passi minimi e ripetitivi, poi energici, nostalgici, velati di malinconia o di dirompente energia pop. C’è il desiderio di far breccia sul pubblico nella maestria provocatoria dei suoi contatti, nell’ingenuità corrosiva delle sue reazioni, nella sua ostinata volontà di entrare in relazione con l’altro, al di là di ogni individualismo e solitudine multimediale.

Con una playlist di tracce musicali e la spontaneità di un approccio che scava nell’esistenza Martens, che ci ha abituati alla complessità e al rigore coreografico di lavori precedenti come Sweat Baby Sweat del 2011 o The dog days are over dello scorso anno, in questo a solo si lascia andare ad un esperimento di sottrazione, ad un collage di vita vissuta, ad un ritorno alle origini e all’essenza della performance. Musica, movimento e curiosità di condivisione, per un istante privato che ha la fisionomia di una generazione intera.