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venerdì, Aprile 19, 2024
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DNA Appunti Coreografici 2015. Visioni di giovane danza italiana

1002361_1189587784401786_4435735965100128326_nANGELA BOZZAOTRA  Lo scenario che si presenta agli occhi di chi studia e osserva la nuova coreografia italiana è alquanto complesso. Da un lato, ritroviamo l’ormai evergreen della danza concettuale, dall’altro una svolta performativa che interagisce con le esperienze della body art e della performance art. Una terza via si oppone parzialmente alle due, ed è la linea neo-rinascimentale, che vede nella figuratività il basamento della propria estetica e della composizione coreutica. Ma talvolta ritroviamo anche il teatrodanza d’antan, sotto la cui definizione si assimilano esperienze spesso non proprio ortodosse.

Tali linee divergenti e dissimili sono racchiuse in una serata dedicata alla giovane coreografia italiana, tenutasi all’Opificio Romaeuropa, nel consueto spazio/foyer dedicato a performance e incontri. Giunto alla sua terza edizione, l’appuntamento DNA Appunti Coreografici costituisce un evento favorevole alla sperimentazione, radicatosi sul territorio in misura maggiore con l’entrata in campo di Cango/Compagnia Virgilio Sieni, Gender Bender di Bologna e Uovo Festival di Milano, che vanno ad ampliare il network di riferimento che ha la funzione di trovare talenti e promuoverne uno solo, ossia il vincitore della competizione (negli anni precedenti vinta da Claudia Catarzi e Annamaria Ajmone, presente quest’anno nell’ambito della rassegna DNA con il solo Tiny).

Durante la serata, sono presenti ben sei giovani coreografi con i propri studi preliminari per una coreografia futura, da mostrare al pubblico in un quarto d’ora per ciascuno. Si parte da Paradise di Francesco Marilungo, dove il coreografo, già danzatore per Enzo Cosimi, dà vita a un incubo di estasi e martirio. Un loop video – dove scorrono alcune sequenze virate in bianco e nero e a ralenti di un film del regista austriaco Urlich Seidl Paradise:Faith (2012) – fa da sfondo alla performance live di due performer. Il primo, lo stesso Marilungo, si avvolge in un sacco nero da cui un vacuum – attrezzo utilizzato comunemente nelle pratiche SM – risucchia l’aria, asfissiandone il corpo in modo coercitivo, lasciandolo respirare a malapena, posto sul pavimento con le braccia ripiegate dietro al capo. L’altro performer, l’ “officiante” del rito, si occupa di azionare la macchina e manipolare gli altri oggetti (vediamo sul perimetro scenico una brocca e un piatto neri, che non verranno però utilizzati). Mentre l’immagine-video ci restituisce la figura sbiadita di una donna che si flagella di fronte a un crocifisso, la figura nera/Marilungo si contorce e si posiziona lentamente in verticale; iniziando un contatto fisico con l’altra presenza, di cui rappresenta l’alter-ego oscuro, la parte rimossa che riaffiora.

La seconda coreografia di Aurora Pica, The authentical perception in mutations, vede due danzatrici delle quali la Pica danzante e un’altra che l’insegue con un esile cordicella nella quale la prima si imbraca per poi liberarsi. La partitura esibisce una serie di movimenti a scatti, inframezzati da un battito di mani, e numerosi spostamenti lungo il perimetro scenico in orizzontale privi di qualsivoglia ratio, altresì dell’”autenticità di percezione” del titolo di cui sopra. Nel silenzio tombale (da danza concettuale appunto) non risalta alcun segno di vita né uno sparuto barlume di senso drammaturgico.

Cercare coraggio/Proteggere innocenza è lo studio di Lara Russo, la quale dirige tre danzatori alquanto difformi tra loro per peso e altezza, interagenti con dei tubi di rame, generalmente usati per l’impiantistica idraulica. Il tappeto sonoro che li accompagna è una registrazione effettuata dal vivo delle prove di un artista, ed è costituito da un insieme di rumori, che si mescolano a quelli provocati live dallo spostamento dei tubi da parte dei danzatori. In un gioco di acrobatismo e geometria di traiettorie nello spazio, il trio diventa un bassorilievo sullo sfondo nero della scena, ponendosi ora di profilo, ora in pose plastiche. I danzatori sembrano muoversi come rotelle di un orologio, compiendo delle rotazioni ognuno in senso differente, usando i tubi come lance. Il finale vede la comparsa di altri oggetti di legno, (un triangolo, dei piccoli pesi) che vanno a formare una composizione di richiamo pittorico, in un crescendo dove ambiente sonoro e spazializzazione dello stesso si uniscono creando un tono di attesa e abbandono.

Più minimalista l’Affleurer di Michela Paoloni; duetto tra uomo e donna sommersi da una caterva di fili colorati, groviglio che ne nasconde inizialmente i corpi. Anche qui il sound è decisamente ben curato, e contribuisce a creare una sorta di bolla temporale dove tutto scorre lento, e la figura umana lascia il posto al figurale: frammenti di corpo che affiorano lentamente fino a far emergere la figura intera, che mostra al pubblico una lingua rossa e gesti scomposti. Non rassicurante, ma nemmeno insensato.

Con Floor Robert siamo invece nell’ambito del teatrodanza, laddove la performer ci narra con una sorta di pantomima regressiva la storia di un’Influenza, di cui si ammala una non più giovane donna la quale però si muove e si abbiglia come una bambina. Aggrappata ai suoi palloncini verdi, e accompagnata da un amico con la faccia dipinta dello stesso colore (un elfo di periferia?), incontrerà poi un uomo-giornale con il quale intratterrà un dialogo fatto di libere associazioni, dove si erigono le figure improbabili di una “paperella in mezzo ai cani”, lasciando la curiosità di saperne di più, di questa follia con metodo dove risalta una certa delicatezza poetica, soprattutto nei momenti di affetto tra l’uomo in verde e la giovane non più giovane e la sua influenza.

La maratona di appunti coreografici termina con un surreale quarto d’ora di videodanza, Yaku shin in a hall di Eugenia Coscarella, introdotto da una voice off che recita una breve silloge introspettiva, maldestra nella ritmica e nel senso. A seguire una coreografia per tre danzatori, registrati proprio nello stesso spazio dell’Opificio, immersi nel nero e di tale colore abbigliati, che eseguono una partitura di movimenti ossessiva nel suo avanzare in continuazione per poi puntualmente indietreggiare, con un suono ambient ad accompagnarli. L’espediente del video rende asettico e freddo l’evento non-scenico.

Al termine della serata, la giuria di esperti decreta il vincitore, che risulta Lara Russo, il cui studio pare avere “più potenzialità” degli altri. Il Paradise di Marilungo però, nel suo spingere l’acceleratore, era forse l’“appunto” più riuscito, in quanto dotato di una struttura concettuale convincente e ben salda sul piano visivo e performativo. D’altro canto, l’impianto coreografico della Russo è oggettivamente inattaccabile e rappresenta in potenza, se ben curato nei dettagli e nell’esecuzione, una visione dall’estetica delicata, che ricorda le installazioni di Kounellis e danze di alt(r)o respiro.

Verdi e Lenz Fondazione: il teatro di voci di “Re Lear”

Rocco Caccavari in Verdi Re Lear @ Francesco Pititto
Rocco Caccavari in Verdi Re Lear @ Francesco Pititto

MATTEO BRIGHENTI | C’è un Verdi che non c’è sul pentagramma della lirica. È il Re Lear da quel William Shakespeare che permise al cigno di Roncole di Busseto di dimostrarsi grande oltre lo spirito del suo tempo, il patriottismo, i moti rivoluzionari del ‘48, l’Italia e gli italiani da fare. Esiste il libretto, mentre la musica è “il fantasma di un’opera”, come dice Mario Lavagetto, che infesta e informa di sé, come un desiderio o forse un’inquietudine, Nabucco, Luisa Miller, Rigoletto, Trovatore, La forza del destino. Qui, in questa ‘casa stregata’, dove i lenzuoli sono sipari, le catene sono note musicali, e la volontà prende sempre le misure di un qualche palcoscenico, sono entrati Francesco Pititto e Maria Federica Maestri, cioè Lenz Fondazione di Parma, e insieme al compositore di musica elettronica Robin Rimbaud aka Scanner e ai cantanti del Conservatorio “Arrigo Boito” hanno trovato, scoperto cercando, o più precisamente sono giunti alla meta del Verdi Re Lear. Dopo la Premessa nella scorsa edizione del Festival Internazionale Natura Dèi Teatri, l’ambizioso progetto di teatro musicale è stato proposto nella sua forma definitiva nell’ambito del Festival Verdi 2015. Un’impresa che poteva nascere, crescere e realizzarsi solo con Lenz, forte della propria esperienza nel liberare tutte le opportunità di bellezza chiuse nella mancanza, nell’assenza, come dimostra il lavoro con gli attori ‘sensibili’ – con disabilità psichica e intellettiva –  e la pluriennale collaborazione con il Dipartimento assistenziale integrato di salute mentale dipendenze patologiche dell’Ausl parmense.
La tragedia della paternità nell’intimo del re/padre/folle, delineata da Salvadore Cammarano, già autore del Trovatore, e portata a termine da Antonio Somma, librettista di Un ballo in maschera, si divide nelle sale dello spazio post industriale di Lenz Teatro, la Sala Majakóvskij e la Sala Est: agiscono e si ripetono, contemporaneamente, inizio, svolgimento e fine, la divisone del regno, l’esilio di Cordelia, il conte di Gloucester e i suoi figli, la pazzia e morte di Lear. Il pubblico di una sala, al termine della performance, si sposta nell’altra: la non presenza di una linearità narrativa è lo specchio dell’impossibilità di ricostruire un’opera mai composta, se non appunto interpretandola, inventandola attraverso cambi di posture mentali (e fisiche), luoghi, sguardi, gli stessi che si chiedono anche al pubblico, qui autore più che mai. Il virtuale e il reale della scena resi dalla drammaturgia, imagoturgia e regia di Francesco Pititto e dalle installazioni e dai costumi di Maria Federica Maestri, sono i molteplici frammenti linguistici ed espressivi a cui lo spettatore è chiamato a dar la forma dell’incessante ricerca creativa di Verdi. La musica è quella di Scanner, le arie e i duetti selezionati dal M° Carla Delfrate, secondo una griglia di affinità e rimandi al rapporto padre-figlio e ai temi dell’inganno, del potere, della vecchiaia, dell’incomunicabilità, sono a cappella, perché del Lear restano solo le parole, è un paesaggio di cui esiste soltanto la mappa, un territorio che non riusciremo mai a trovare, pur sapendo dove andarlo a cercare.

Barbara Voghera in Verdi Re Lear @ Francesco Pititto
Barbara Voghera in Verdi Re Lear @ Francesco Pititto

Sala Majakóvskij

Tre schermi grigi e trasparenti, uno dietro l’altro, e in fondo il trono ricoperto di mantelli neri e pelosi, sono la radura selvaggia tra sogno e realtà aumentata, tra azione e immaginazione, in cui Lear chiede alle tre figlie chi lo ama di più. Il Re è una voce (di Rocco Caccavari) che cade dall’alto e l’immagine di un corpo-mondo, nudo, che non ha più nulla, che ha perso il peso di tutto. Questa proiezione diventa porta e finestra, la siepe oltre cui guardare il canto del fato inesorabile di Cordelia “pellegrina e orfana” come ne La forza del destino. Immobili e ferme, le voci dei cantanti preparati dalla prof. Donatella Saccardi vibrano le note nell’aria fino all’ultimo, estremo addio. Assonanze magnetiche, quasi magiche, guidano una sovrapposizione di piani d’ascolto e confronto concentrici come cerchi nell’acqua. Luce e lamento, sensualità paurosa e lo sguardo verso chi non c’è, più. La solitudine è inferta a Lear e il cordone ombelicale è un cappio stretto al collo del Fool interpretato dell’attrice ‘sensibile’ Barbara Voghera: ciò che è nella testa non esce se non a costo del dolore.

Sala Est 

Una teoria di 10 lettini ospedalieri, 5 per lato, ricoperti dei soliti manti neri e pelosi, uno schermo trasparente grigio a chiudere la scena e uno più piccolo in fondo, sono il labirinto dell’infermità, il limbo, la tempesta dei sensi reduci dalla guerra interiore dell’anziano re. Si ripercorre la genesi del dramma, il processo istruito da Lear alle figlie Nerilla e Regana, e l’incontro, non presente nel libretto originario, con Gloucester nella brughiera, accomunati da cecità reale e cecità paterna. Le liriche verdiane e il live electronics di Scanner incontrano un ritmo concitato, di corsa contro il tempo, apocalittico, senza speranza. Ultimo uomo sulla Terra, Lear è assiso sul suo trono, una carrozzina. Roberto Caccavari, presidente onorario di Lenz Fondazione, ha una barba in chiaroscuro che pare scolpita nel ghiaccio e nel vento. La sua presenza si avvicina, si sovrappone e quasi entra dentro la sua immagine proiettata sullo schermo. Il volto, ripreso nel dettaglio, sembra solcato dai crateri della Luna, la bocca vera nella bocca filmata, che spalanca e spezza di luce il respiro come fa il faro con le onde nella notte. Resta lì, le figlie o i loro spettri accanto, e lancia i suoi occhi oltre la livida cortina: veniamo al mondo e piangiamo, “all fools”, tutti matti. La malattia umana è una tragedia cosmica su lidi affetti dal rimorso.

Per approfondire, leggi anche:
Laura Bevione, L’opera che non c’è: su Verdi Re Lear di Lenz, su amandaviewontheatre.
Andrea Alfieri, Verdi reloaded. Il Re Lear secondo Lenz Rifrazioni, su Krapp’s Last Post.
Rossella Menna, Verdi Lenz Re Lear, su Doppiozero.
Daniele Rizzo, L’eccedenza e il sublime, su Persinsala.

Verdi Re lear
Lenz Fondazione per il Festival Verdi 2015
da Re Lear di Somma-Verdi prima versione con le varianti e King Lear di William Shakespeare
Ricerca, drammaturgia e imagoturgia, regia | Francesco Pititto
Music + live electronics | Robin Rimbaud aka Scanner
Installazioni e costumi | Maria Federica Maestri
Consulenza musicale | M° Carla Delfrate
Consulente al canto | Prof. Donatella Saccardi
Performer | Valentina Barbarini – Cordelia/Delia | Barbara Voghera – Fool/Mica
Giuseppe Barigazzi – Lear in immagine
Cantanti | Haruka Takahashi – Regan/Regana soprano
Ekaterina Chekmareva – Goneril/Gonerilla mezzosoprano
Gaetano Vinciguerra – doppio Lear baritono
Lorenzo Bonomi – doppio Lear/Edgar/Edgardo baritono
Andrea Pellegrini – doppio Lear basso
Adriano Gramigni – Gloucester
Voce over | Rocco Caccavari
In scena | Rocco Caccavari, Paolo Maccini, Franck Berzieri, Carlo Destro, Paolo Pediri, Carlotta Spaggiari
Cura | Elena Sorbi
Organizzazione | Ilaria Stocchi
Comunicazione | Violetta Fulchiati
Ufficio stampa | Michele Pascarella
Direzione tecnica | Alice Scartapacchio
Assistente alla regia | Valeria Borelli
Équipe tecnica | Gianluca Bergamini, Gianluca Losi, Stefano Glielmi, Marco Cavellini
Produzione | Lenz Fondazione
In collaborazione con il Conservatorio di Musica “A. Boito” di Parma e Teatro Regio di Parma
Visto sabato 10 ottobre, Lenz Teatro, Parma.

A un certo punto si spengono le luci: la nuova Aurora di Sciarroni

GIULIA MURONI | A un certo punto si spengono le luci. Si fronteggiano due squadre. Ripetizione e sospensione.

L’aurora: la prima luce, un attimo rarefatto, preliminare a qualcosa che si svilupperà nel tempo, in questo caso l’alba.

“Aurora” è il nome dell’ultimo lavoro di Alessandro Sciarroni, visto in prima assoluta alle Fonderie Limone nel cartellone di Torinodanza. Terzo momento della trilogia “Will you still love me tomorrow?”, consiste in una partita di Goalball, disciplina paralimpica, una sorta di pallamano concepita per i non vedenti e gli ipovedenti i quali, grazie a uno specifico sistema di segni acustici, riescono a registrare con precisione i movimenti della palla.

Si fronteggiano due squadre, ciascuna composta da tre giocatori, sdraiati in modo perpendicolare rispetto al campo- e in questo caso la ribalta- così da essere in grado di difendere dagli attacchi dell’altra squadra la lunga porta alle proprie spalle. Il gioco procede così, orchestrato da gesti atletici sapienti, dai ticchettii sul ferro della porta, i battiti delle mani, i rimbalzi chiassosi del pallone, le grida degli arbitri ai lati del campo. Movenze riprese da un contesto sportivo che in ambito scenico diventano coreografia, pratica  performativa di attraversamento nel tempo di uno spazio, con un ritmo. Senza quinte, il bianco del pavimento si colora delle luci, numerose tra frontali e controluci, che alternano intensità e tonalità. A un certo punto si spengono e la partita prosegue nel modo in cui la vivono i suoi giocatori, come una sorta di concerto immerso nel buio.

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Ciascuno di loro indossa una maschera sugli occhi, necessaria a creare il buio totale e annullare le differenze tra ipovedenti e non vedenti. Sono gli arbitri a controllarle  e farle indossare. È una temporalità densa ad abitare questi momenti, facendo affiorare per analogia quel gioco di sguardi in “Untitled” al seguito della caduta delle clave. O quell’inspirazione corale nelle pause del Schuhplattler, in “Folk-s”.

Partecipazione collettiva ad un rito, ad una socialità altra in cui finalmente la narrazione della disabilità oltrepassa l’antropologia del “nonostante” (Sloterdjik) e lo svantaggio di un’anomalia diventa virtù acrobatica. In “Devi cambiare la tua vita” Sloterdjik annovera tra gli esempi di ascesi moderna proprio lo sviluppo di un modo di vivere in cui l’evidenza patologica sappia trasformarsi nel presupposto di un felice adattamento, in cui i disabili si rivelino in quanto maestri eccellenti della condizione umana poiché capaci  di virare in direzione opposta agli ostacoli, inseguendo con ostinazione quella convergenza di coscienza della propria specifica unicità e del necessario atteggiamento combattivo nella vita.

Il primo capitolo della trilogia, “Folk-s”, svelava una nota crudele in cui il pubblico, tra l’incredulo e l’inconsapevole, dettava la durata di una danza di manate sui corpi dei danzatori; la seconda parte, “Untitled” suggeriva un’atmosfera lieve, pittorica dove la ripetizione del lancio delle clave diviene mantra poetico in un percorso del tempo come fluire leggero. Questa terza fase sembra una riuscitissima sintesi dialettica di aspetti inconciliabili e perfetti dell’azione, della ripetizione e della sospensione. Il gioco di traslare l’agone in un agire performativo schiude all’ipnosi del ripetersi, magnifica il movimento, accende le tifoserie fra le posture composte del pubblico di teatro. “È anche uno spettacolo sul rapporto con il pubblico e questa cosa l’abbiamo scoperta oggi”, rivela Sciarroni al microfono di Castellazzi. Nella seconda parte della serata viene proiettato il film di Cosimo Terlizzi, “Aurora. Un percorso di creazione”. Non si tratta di un documento atto a riconsegnare in modo neutrale il percorso creativo di Sciarroni, è un’opera che, pur sottendendo la familiarità con quel cammino, lo scruta in modo impressionistico e al contempo lo aggira, dà un’altra versione, non meno bella, non meno sincera, della stessa storia.

Serata di livello alto, apre una via insperata di comunicazione con il pubblico, passando per un sentiero altro. Anche questo è un elemento della poetica di Alessandro Sciarroni che, insieme ad una visionarietà coerente nella gestione del rituale artistico, lo riconferma come realtà autenticamente creativa.

Romaeropa 2015: di domenica al Vascello non c’è volo per nessuno

IRIS BASILICATA | La piccola E. è vestita a festa: oggi è domenica e la mamma le ha permesso addirittura di mettersi lo smalto sulle manine. È seduta sulla sua poltroncina del teatro Vascello e prega il papà di montare per lei la sorpresa uscita dall’ovetto kinder, una girandola colorata, che però non gira quando prova a farla roteare usando come base il foglio di sala di Le mouvement de l’air. Domenica è stata l’ultima giornata per la compagnia Adrien M/ Claire B per il Romaeuropa Festival che ha visto tra il pubblico un numerosissimo numero di bambini. Due sono le cose: o il teatro sta facendo super sconti ai più piccoli oppure questo significa che qualcosa si sta davvero smuovendo. Il pubblico alto per lo più sul metro e venti prende posto trovandosi davanti ad un parallelepipedo rosso aperto su due lati. È questa la “scatola” che ospita la videoperformance di Rémi Boissy, Farid-Ayelem Rahmouni, Maëlle Reymond, performer che si muovono nello spazio sulle note della sonorizzazione dal vivo di Jérémy Chartier. Quest’ultimo, come un orologiaio, dà vita a tutto ciò che accade nel video: batteria, violino, chitarra e addirittura bicchieri d’acqua scandiscono il tempo con cui si muovono non solo gli attori ma anche le immagini proiettate. I fasci luminosi del digitale si muovono, si combinano e si trasformano in base al ritmo della musica e dei movimenti di performer. Il pubblico è completamente catturato dalla fluidità che scorre sul video e nei corpi e la piccola E. chiede alla mamma di poter stare in braccio per vedere meglio ciò che accade. Non una parola, non un “quando andiamo via? Voglio il gelato”, etc.”, i piccoli spettatori sono totalmente catturati dalla meraviglia di come un corpo possa stare in un’immagine che un attimo fa era una spirale e ora è già diventata fumo per poi ritornare ad essere un pixel del video.
I corpi si confondono con le immagini in digitale che ne fanno da sfondo inghiottendoli: gli effetti ottici di tridimensionalità del video tentano di rispondere alle domande che almeno una volta ci siamo posti da bambini “Che forma ha l’aria? Com’è fatta?”. È tutto come all’interno di un sogno: sbiadito quanto possibile. I corpi sembrano non avere materia né consistenza e proprio come all’interno di un sogno si cambia rapidamente scenario: se i corpi non hanno materia, forma, peso e consistenza, allora, possono sicuramente volare. Forse è proprio questa la vera grande pecca dello spettacolo: alla fine, su uno sfondo di cielo e nuvole, i tre performer fluttuano nell’aria appesi a dei fili abbastanza evidenti sotto le note di una canzone francese che parla di libertà. I corpi che dovrebbero librare in volo muovendosi con e nell’aria, però, sembrano soltanto intrappolati alle funi che li sostengono. Grandi funi e poco volo. La magia alla quale ci siamo preparati svanisce e non si vede nessuno volare, solo i tre appesi e nessuna libertà. La piccola E. lascia la sua poltroncina rossa un po’ delusa, non ha visto nessuno volare come il finale preannunciava. Forse fuori dal teatro la sua girandola colorata, si.

Un secolo in dieci quadri: la Storia è compromessa?

ELENA SCOLARI | Raccontare un secolo di storia italiana in una sola serata è un programma vasto, come avrebbe detto il generale De Gaulle. Angela Demattè e Carmelo Rifici, rispettivamente autrice e regista de “Il compromesso”, ci provano con uno spettacolo costruito per i neodiplomati dell’Accademia del Teatro Filodrammatici.
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Il lavoro ha un prologo, un intermezzo e un epilogo musicali, cantati a cappella dall’intero gruppo di attori : Che cosa sono le nuvole (musica di Modugno, testo di Pasolini), Amara terra mia (ancora Modugno), Lamento per la morte di Pasolini (Giovanni Marini), queste tre belle scelte formano un circolo di rimandi e nelle canzoni c’è molto dell’intento dello spettacolo, forse più che nello spettacolo stesso.
Spieghiamo: in dieci scene, di compromesso in compromesso, dalla Prima Guerra Mondiale all’avvento della repubblica, passando dal PCI di Togliatti e dalla DC di De Gasperi, dalla morte di Aldo Moro alla caduta del muro di Berlino fino ad oggi, senza dimenticare il primo circo mediatico intorno alla disgrazia di Alfredino Rampi a Vermicino e il disastro della Caserma Diaz durante il G8 di Genova, si offre un maxi bigino storico, arbitrario, degli ultimi 100 anni in Italia.
Gli undici attori sono inscatolati in una scena bianca e vuota, volutamente asettica, ci sono solo alcune  lampade a muro bianche, i costumi accennano alle epoche, giacche, camicie e gonne portano alcune parole e frasi simboliche ricamate (il muro, io non so niente, a Cesare quel che è di Cesare…), niente musiche e nessun piano luci particolare. Le due ore e mezza passano senza affaticare grazie a una regia con un senso del ritmo ineccepibile. La mano di Carmelo Rifici è molto pulita e rivela un’incisività che qui non emerge come potrebbe.
Quanto agli interpreti il livello complessivo è equilibrato e buono, senza punte di talenti già prorompenti, un tantino piatto per uniformità di stile, la cifra della scuola è ancora forte, ognuno troverà il proprio carattere col tempo. Del resto ogni attore riveste più ruoli all’interno dello spettacolo, e questo rende più difficile lavorare in profondità sul personaggio, infatti si rimane emotivamente piuttosto distanti, nel seguire il susseguirsi dei fatti. L’uso di alcuni dialetti o accenti come il romanesco o il veneto servirebbe a scaldare l’atmosfera se non fosse incerto nel risultato.

L’intenzione, ci sembra, è quella di dichiarare un’infinita superficialità, lunga un secolo, che in Italia ha impedito di analizzare il passato in modo fruttuoso. L’assenza di una memoria consapevole e il vizio di uno schematismo riduttivo avrebbero reso impossibile ai giovani il potersi orientare nella situazione odierna, sarebbe stata loro negata la possibilità di conoscerne e comprenderne le ragioni. Colpa della scuola che non spiega, delle famiglie che non raccontano… Bene. Poniamo di essere d’accordo (e non lo siamo del tutto), ci aspetteremmo che nello spettacolo ci sia uno sviluppo, che porti dalla facile semplificazione ad uno scavo più approfondito, man mano che si procede negli anni della finzione teatrale, invece quello che sentiamo dire ai personaggi si allontana raramente da frasi fatte e cliché privi di sfumature. I dialoghi sono piuttosto banali, talvolta anche poco credibili. Pur accettando che gli elementi delle famiglie Ferrari e Carboni siano archetipi di caratteri, di maschere, troviamo che il testo pecchi di eccesso di zelo: per dimostrare che siamo colpevoli di pigrizia intellettuale, impoverimento di linguaggio e analisi si mette in scena proprio questo, ma senza smarcarsene.
Su ognuno dei quadri storici scelti come pietre miliari, anzi, secolari, ci sarebbe da spendere studio e fatica per una ricerca proficua. E non esistono impedimenti a farlo, solo costa impegno, ai giovani come ai maturi. Qui si sorvolano dall’alto soldati, statisti, onorevoli, comunisti, brigatisti, no-globalisti, black block, in un catalogo di commenti ordinari che ci insegna poco.
Manca, appunto, un compromesso utile tra esposizione del problema e proposta di una soluzione.

Dobbiamo sottolineare l’eccezione del personaggio di Caterina (Camilla Pistorello), la quale torna per la chiusura con la stessa identità dell’inizio e vive un processo di maturazione durante lo spettacolo. Anche se è prevedibile che la ragazza “tocca” sia più savia degli altri, si sente che le sue parole, il suo calore e la sua parlata risultano sinceri.

“Il compromesso” è un’operazione ambiziosa, che ci pare non aver chiuso il cerchio, ma si sa: il passato è un tempo imperfetto.

Interpreti: Ermanno Rovella, Michele Basile, Antonio Valentino, Alessandro Prota, Daniele Profeta, Ilenia Raimo, Alice Bignone, Camilla Pistorello, Eleonora Cicconi, Gianpiero Pitinzano, Camilla Violante.

Remote Milano: peripatetici urbani

ELENA SCOLARI | Un percorso a rovescio dalla morte alla vita passando per viaggi, luoghi di cura e guarigione. Come si può guardare e occupare la propria città da una prospettiva diversa, arrivando fino a grattare il cielo? Partecipando a Remote Milano, esperienza tra performance e teatro, ideata dal gruppo berlinese Rimini Protokoll, portato in Italia dall’Associazione Culturale Zona K. Prima di Milano le camminate si sono tenute a New York, Berlino, Tallinn, Parigi, San Pietroburgo, ecc.

Remote-Milano-corsa_ZONAK-667x444Un gruppo di 50 persone si ritrova all’Ossario centrale del Cimitero Monumentale di Milano, tutti vengono forniti di cuffie, tramite le quali una voce sintetica – che si presenta come Fabiana – darà istruzioni su cosa fare e porrà domande con lo scopo di stimolare riflessioni durante la camminata. Si scopre così che una voce sintetica di donna (proprio come quelle dei navigatori) è la somma di più voci femminili sovrapposte, e le parole sono formate da sillabe prese ognuna da altre parole pronunciate: “i-den-ti-tà”, per esempio, è formata da i che viene da io, den che viene da denti, ti che viene da timido, che viene da carità. Sembra una nota tecnica irrilevante ma invece è una delle cose che ci è rimasta in mente, perché questa spiegazione è coerente con l’affermazione del puzzle vocale Fabiana di non avere corpo, non avere sensazioni, non avere bisogni. E non avere nemmeno una personalità, quindi. Siamo ben lontani dai pur imperfetti replicanti di Blade runner…
La prima sensazione è quella di completa esclusione dal sonoro della città, a noi sembra già particolare ma forse è cosa abituale per tutti quelli che ascoltano musica dai loro cellulari. Seguiamo pertanto “qualcosa” e non “qualcuno”. E lo seguiamo per un’ora e mezza, la voce ci definisce “un’orda” ma a noi sembra assai enfatico, il nostro è un gruppo disciplinato, obbediente, incuriosito sì ma certo non un’orda. Giriamo prima tra le tombe del Monumentale, osservando i loculi, scegliendo un morto di cui immaginare per qualche minuto l’esistenza, poi scendiamo nel sottopasso e raggiungiamo la stazione Garibaldi. E qui c’è l’idea più riuscita dell’intero percorso: la voce ci fa schierare in fila con le spalle coperte da una lunga vetrina, e da lì osserviamo, come da una platea, gli attori/viaggiatori che guardano verso l’alto, verso un tabellone con orari, ritardi e binari, alcuni corrono, alcuni portano valigie, più d’uno ci guarda stupito o addirittura ci fotografa, altri “recitano l’attesa”. E noi li applaudiamo. In questo semplice slittamento è il senso complessivo di Remote Milano, si crea un ribaltamento di ruoli, un bell’effetto teatrale, come guardare in un cannocchiale al contrario.

Andiamo poi a piazza Gae Aulenti in quel quartiere rinnovato che guarda al futuro, sosteremo sotto Porta Nuova, arriveremo in una piccola chiesa – dove il gruppo si dividerà – infine nei corridoi di un’ospedale e poi sulla terrazza in cima allo stesso, dove tutti i camminanti si ritroveranno per la fine.

Il filtro protettivo dell’orda ci farà fare cose un po’ sciocche (una corsa improvvisa, una mega partita di calcio balilla, pliés di danza alla sbarra di un corrimano, un ballo sotto un arco…) senza la preoccupazione di apparire stupidi perché il branco diventa un’entità unica, meccanismo automatico e piuttosto banale, per la verità. Remote Milano è divertente, gioca sul desiderio di essere protagonisti, sulla prevedibile accettazione delle regole da parte di tutti ma la pseudo-drammaturgia che si snocciola nel testo è ingenua, nonostante i luoghi scelti avrebbero potuto suggerire maggior profondità e un più acuto coinvolgimento dei partecipanti. Il tentativo di renderla più complessa con la sostituzione della voce femminile che passa il testimone a una guida uomo per la parte finale è un’inutile aggiunta – confusa – di cui sfugge la motivazione. C’è la pretesa di sganciare pensieri eccentrici ma la dinamica dello spettatore che diventa attore, l’osservatore osservato sono ormai luoghi comuni teatrali, pratiche performative frequenti che non è facile rivestire di novità.
Con la voce artificiale dei Rimini Protokoll volevamo vedere navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, ma ci siamo fermati ai bastioni di Porta Nuova.

Jacques Borgetto e i mille volti di Buenos Aires

« Regarder parfois voir », ci dice Jacques Borgetto durante il nostro incontro dell’11 giugno scorso. Parigi é la sua città. Ma lui  é  il fotografo dei viaggi, dei paesaggi e degli animali. La fotografia é stata da sempre il suo mestiere come lo stesso autore afferma. Quest’arte gli dà la possibilità di concretizzare in immagini la sua sensibilità verso gli esseri umani, di cogliere le luci e la forza della natura , di scrutare al di là degli sguardi di un semplice cane. Di origine italiana, (suo nonno paterno era piemontese), ha cominciato a viaggiare molto presto per mettere al servizio del suo “occhio” acuto la sua caméra. Fedele alla tecnica tradizionale dell’argentique, oggi Jacques Borgetto si é aperto anche al digitale, senza che il suo stile sia cambiato. L’Argentina, il Cile, il Tibet, il Mali sono state le sue mete importanti che gli hanno permesso di descrivere con un realismo acuto queste parti del mondo lontane dalla sua Francia mettendone in rilievo gli aspetti più nascosti, inconsueti e soprattutto fotografando e immortalando l’anima delle popolazioni che incontrava sul suo cammino. Viaggi esplorativi, pieni di carica umana, di cui oggi Jacques Borgetto ne riconosce tutto il valore per l’arricchimento che gli hanno fornito. Le sue collezioni permanenti alla Maison de la Photographie européenne testimoniano il suo percorso d’artista.

Dopo pubblicazioni come L’autre versant du Monde, Nous avons fait un Beau Voyage et Terres Foulées (Ed. Filigranes), oggi appare nella collana Portraits de villes delle edizioni Be-Pôle, Buenois Aires. Il primo incontro del fotografo con questa città era avvenuto anni fa quando spinto dal desiderio di ritrovare i suoi parenti paterni si era recato laggiù. Grazie alla loro esperienza, aveva potuto cominciare a conoscerne gli usi e costumi, a coglierne gli aspetti più contradditori, a frequentare le milonga, ascoltare e vedere il tango e a entrare in contatto nei bistrot con la popolazione la più eterogenea della capitale sudamericana. L’occasione del progetto di  questo nuovo Portrait de ville  ha ricondotto Jacques Borgetto a Buenos Aires.

Ancora più che la prima volta, ha identificato questa città come ville de nuit , gioiosa, architettonicamente diversa nei suoi stili con i suoi grattacieli e le case abbandonate, e contraddittoria per le differenze sociali esistenti. Non esistono classi intermedie, si passa dai quartieri più poveri e sporchi ove gli sguardi della gente esprimono il disagio e l’umilità a quelli più ricchi ove si vive agiatamente. Questo é uno dei temi delle fotografie di questo libro,  che possono essere lette secondo tre filoni principali : il contrasto stilistico dell’architettura, i bistrot e il tango, i paesaggi.

L’elemento umano, che é sempre messo in risalto, le arricchisce donandole l’anima. Sguardi comuni e sorpresi s’incrociano nei bistrot, passionali nei duo di tango, e nei paesaggi in cui la popolazione locale é ritratta nei loro aspetti quotidiani. Prevale il bianco e nero, il colore appare nelle foto scattate nel Delta del Tigre ( questo nome proviene dall’appellazione data dai primi colonizzatori europei ai giaguari del Sud America), zona che fa parte di Buenos Aires e che é situata all’estremità  sud del Rio Paranà. In particolare, ne viene ritratta la natura rigogliosa con le sue luci e ombre, le sue costruzioni caratteristiche, come delle palafitte, che ospitano gli indigeni del luogo. Il contrasto appare tra la semplicità di vita degli abitanti del luogo e  le tinte forti della vegetazione che risaltano vigorose dappertutto.

Due fotografie di questo libro suscitano curiosità : sono quelle in cui il fotografo gioca con l’infinito, aprendo degli spazi di lettura al limite dell’inganno. Come credere che si tratti di un cavaliere che attraversa la sommità di una scalinata quando in realtà é solo una statua ? E come immaginare che l’uomo che si pensa si stia gettando nel vuoto in realtà é anch’esso solo un bronzo ? Basta trovarsi di fronte a queste due foto per crederci e riconoscere le doti fotografiche dell’artista. Questo libro dà un ritratto di Buenos Aires che va al di là dei luoghi comuni che si conoscono e ci apre una panoramica a trecentosessantagradi su questa capitale del Sud America.

« Il faut qu’une cause sentimentale devienne une cause formelle pour que l’œuvre ait la variété du verbe, la vie changeante de la lumière » scriveva Bachelard, e l’arte di Jacques Borgetto ne é un esempio.


 

Liens :

http://www.jacques-borgetto.com/

http://portraitsdevilles.fr/

http://www.mep-fr.org/

 

Tag :

Jacques Borgetto

Antonella Poli

Editions Be Pole

Editions Filigranes

 

Vidéo

 

DIGITAL LIFE 2015: le luci (led) della centrale elettrica

unnamed-2ANGELA BOZZAOTRA | Sesta edizione: la rassegna Digital Life del Romaeuropa Festival pone al centro della programmazione artistica la luce e le sue declinazioni sperimentali. Attraversando più discipline e sperimentando nuove tecnologie, la mostra rinnova la partnership con il Centro Le Fresnoy per le arti contemporanee e inaugura la prima collaborazione con il Festival di Arte Digitale Elektra del Québec, come larga parte degli artisti ospitati dalla rassegna che ha luogo in modalità permanente dal 10 Ottobre al 6 Dicembre negli spazi della Pelanda al Museo Macro. Ed è qui che assistiamo alla presentazione delle opere degli undici artisti, digitali e visivi, di Luminaria: giovanissimi o maturi, che espongono i propri lavori spiegandone i concetti sottesi e le tecniche impiegate per la progettazione.

A cominciare dalle installazioni interattive, che vedono come protagonista concettuale il “respiro”; come massa di aria emessa, infatti, la respirazione umana può, di fatto, interagire con un’opera di videoarte, come nel caso del Tourmente di Jean Dubois, dove è possibile telefonare alle persone mostrate in video e soffiando nel proprio dispositivo provocare lo scomporsi delle loro acconciature ed espressioni. Ispirata alla video-ritrattistica che ha come antesignano Robert “Bob” Wilson, Tourmente è una manifestazione effettiva delle possibilità del futuro della tecnologia, che vede il fruitore partecipare attivamente all’opera d’arte.

Il medesimo mood è nell’installazione Breathless dell’artista russa Alexandra Dementieva. All’interno di tre gabbie circolari, sono posti degli anemometri, che raccolgono l’espirazione dei partecipanti e automaticamente cancellano (attraverso un meccanismo elettronico) delle parole che compaiono su piccoli monitor posti ai piedi delle sculture. Attraverso un’indagine parole più digitate su Google (trovandosi in Italia lo studio è stato adattato alla versione nostrana del motore di ricerca) la Dementieva fa scorrere sul monitor sinistro termini corrispondenti a stati d’animo quali paura, desiderio e così via; sull’apparecchio al lato opposto invece si leggono le parole chiave collegate, come automobile, guerra, immigrazione. Con un montaggio concettuale, si partecipa alla cancellazione di questi “sentimenti virtuali”, come se il soffio fosse un muto enunciato linguistico di tipo performativo, riferito allo “spazzare via” queste brutture.

Altre installazioni puntano invece l’attenzione verso la sperimentazione della luce e del suono, utilizzando un sofisticato apparato tecnico al fine di rendere un’astrazione, una luce artificiale vibrante che si costituisce come autosufficiente, alimentandosi da sé e rendendo concreto un dato immateriale. Accade con Boîte Noire di Martin Massier: una sorta di esperimento del contrasto accentuato tra l’oscurità e la luce bianca, sparata. Camera oscura dove si manifesta l’apparizione di un lampo artificiale. L’uso del light engineering lo ritroviamo nella bella FREQUENCIES (LIGHT QUANTA) di Nicholas Bernier, dove l’artista attraverso lo studio della fisica quantistica, oscuro oggetto del desiderio per i digiunatori di materie scientifiche, utilizza cento nastri di plexiglas e una lastra di vetro per creare un effetto ottico cinetico. TemporAIR di Maxime Damecour invece mira ad ottenere un vero e proprio montaggio live di disegni effimeri. L’opera restituisce una sorta di cortometraggio astratto non su pellicola, esperimento che se pensato in grande porta ad immaginare la possibilità per l’immagine di uscire dalla costrizione della cornice filmica.

Di tutt’altra fatta è Idrofoni o lampade sensibili di Pietro Pirelli, installazione che si sviluppa in verticale, attraverso le enormi sculture che l’artista fa interagire con dei fonodendri circolari, in un riverbero di suoni ed effetti luminosi. L’ambiente creato è un insieme di elementi naturali, come canne di bambù, e di metalli, come la sega circolare e le architetture in alluminio. Visivamente di forte impatto, l’installazione è stata concepita prendendo spunto dai “canti gregoriani”, ragionando sulle capacità del suono di attraversare lo spazio; come un sasso in acqua crea molteplici cerchi, così il suono diffondendosi crea più gradazioni, da Pirelli sperimentate attraverso gli idrofoni, o microfoni concepiti per andare sott’acqua.

Tra le performance presentate, in evidenza Inferno di Bill Vorn e Louis-Philippe Demers (presente anche con l’interattiva The Blind Robot). Sembra di trovarsi sul set di uno di quei film di fantascienza di ultima generazione, si pensi a Ex Machina o ad Elysium. In quest’ultimo, il protagonista, malato terminale, per salvare il pianeta dai robot malvagi, deve indossare un’esoscheletro robotico per supplire alla sua decadenza biologica, e acquisire le stesse facoltà dei suoi nemici. In Inferno, le imbracature meccaniche, come ci racconta Bill Vorn, “non sono concepite per aiutare le persone, ma per imporgli dei movimenti”. La tecnologia dunque è vista qui (e il titolo lo sottolinea apertamente) come un fattore socialmente negativo; le macchine ci controllano, ci impongono delle azioni, ci schiavizzano. Per esprimere scenicamente questo concetto, in Inferno i visitatori, volontari, possono partecipare all’esperimento che consiste nell’indossare (con cautela) gli esoscheletri che pendono dal soffitto e venire letteralmente comandati da questi nell’esecuzione di una coreografia di movimenti, al ritmo di musica industrial e luci stroboscopiche. Siamo nel pieno degli anni Novanta, dei Mutoid, della Fura Dels Baus, di quel genere distopico e che vede l’ibridazione del corpo/macchina. Donna Haraway e Blade Runner, passando per i concerti dei Kraftwerk e un tocco di Nine Inch Nails. Sembra impossibile sconfiggere la macchina: il corpo umano è oggettivamente troppo debole, non può nulla contro un colosso di alluminio e acciaio. La realtà sociale che hanno in mente Vorn e Demers ne esce fuori sconfitta nel rinnovato sovvertimento dei termini: è la macchina che danza, una danza poco graziosa, ma che segue un preciso sincrono e un preciso schema. L’umanoide come stato liminale sembra dunque non ancora metabolizzato da parte degli autori canadesi, che forse per età anagrafica, forse per pertinenza di campo di studi (Demers è professore di ingegneria robotica in Québec) seguono quella linea estetica che da Asimov in poi indaga il piacere, sotteso all’essere umano, di essere controllato, non lasciando intravvedere alcuna risoluzione se non la regola, assai antica, che è meglio conoscere bene il nemico per tentare (invano) di sconfiggerlo.

Digital life 2015 è una grande vetrina-laboratorio, dove l’opera digitale è intesa come incontro tra tekné e concetto, esposizione di un lavoro di ricerca sottile e visionario, che se ampliato e ben utilizzato può contribuire a cambiare le regole della scenotecnica e ad innovare l’estetica contemporanea.

Magnolia: Zelda, gli Atridi e l’Europa – Videointervista a Giorgia Cerruti

Schermata 2014-10-24 alle 17.20.01RENZO FRANCABANDERA | Chi l’ha vista immersa nella luce rosa artificiale che permea la scena di Zelda, fra luci e profumo di rosa volutamente troppo intenso ha potuto respirare la follia, il desiderio. La vita.
Con Vita e morte di Zelda Fitzgerald la Compagnia della Magnolia, interessante sodalizio artistico piemontese attivo da molti anni ormai, ha riportato alla dimensione d’attrice la Cerruti, da tempo più impegnata nelle regie che in scena. Ed è un ritorno positivo e vivo per uno monologo in cui per un’ora il pubblico tiene lo sguardo fisso nella maschera di Giorgia Cerruti, e lei lo tiene incollato raccontando una vicenda originale, quella della moglie di Scott Fitzgerald, straordinaria e libera interprete di un tempo che ha segnato davvero in modo ineguagliato un cambiamento in quasi tutti i linguaggi dell’arte.

Un anno importante e di grande progettualità il 2015 per la Compagnia della Magnolia e la loro residenza di Avigliana: dal ritorno di Zelda, prossimamente a Cagliari (il 7 novembre), la ripresa di Atridi e sopratutto l’esperienza dell’anno scorso del Festival Primavera d’Europa che PAC ha seguito molto da vicino.
E’ proprio a conclusione del festival che è stata registrata l’intervista che completa questo articolo. Un’intervista in cui la Cerruti declina in modo implicito il suo credo teatrale, condensato poi in tutte queste esperienze insieme.

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Quando si toccano gli estremi: il cerchio infinito di Familie Flöz

FILIPPA ILARDO| I passi incerti di un lattante accostati a quelli altrettanto malfermi di un anziano, l’attesa della morte in cui si consuma la vita dei vecchi somiglia tanto alle prime scoperte dell’essere umano, al suo primo stare nel mondo.

Su queste analogie e differenze si fonda interamente l’impianto drammaturgico di Infinita, lo spettacolo della compagnia Familie Flöz, in scena al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, nell’ambito di “Atelier -percorsi culturali”, un progetto culturale innovativo ideato da Corrado Russo – si apprezza in particolare, oltre alle proposte in cartellone, l’attivazione di laboratori di formazione del pubblico che mirano ad una fruizione più consapevole del linguaggio teatrale.

L’infanzia e la vecchiaia sono lenti d’ingrandimento in cui l’essere umano attraversa una fisicità straniante, al di sopra e al di sotto della normalità, sperimenta e amplifica le sensazioni che riceve dall’esterno, è in continua, perenne trasformazione. Sono due facce della stessa medaglia, uno specchio l’una dell’altra: il bambino, accompagnato dalla madre che non vuole rimanere all’asilo non è altro che l’ombra – lo spettacolo alterna anche momenti di struggente lirismo con il teatro d’ombre- dell’anziano che non vuole rimanere all’ospizio.

Tra pannolini e pannoloni, infanzia e vecchiaia sono accomunate da questa ingombrante, incombente presenza di un corpo non ancora o non più perfetto. Non cambiano nemmeno le dinamiche relazionali, i piccoli dispetti che innescano il meccanismo eterno delle gag della commedia dell’arte o della clownerie. Quello che sperimenta il gruppo berlinese è un teatro in cui il fisico è in grado di parlare senza parola, in cui le maschere sovradimensionate rappresentano una iper-espressione che, seppure fissata, è in grado di narrare e raccontare emozioni e sentimenti, un teatro scritto e narrato con il corpo, con il ritmo, la musica, la visione. Un teatro al “grado zero della comunicazione”, che trascende le parole e nel suo farsi si offre allo sguardo. Anche la musica, motore dell’azione scenica, attivatore di memoria ha un forte valore drammaturgico, la sagoma proiettata di una violoncellista che assiste, mentre suona, alla chiusura del sipario crea un’interessante analogia tra il teatro, la vita, la morte.

Metafore e analogie abusate, si potrebbe dire, ma non pensare, perché la grazia e l’ironia che investono lo spettacolo è davvero travolgente, non lascia spazio al pensiero, ma solo all’emozione. Il pubblico che gremisce la sala è in visibilio, resta incantato dalle immagini proiettate, divertito dalle acrobazie degli attori che sembrano bambini arrampicati su mobili giganteschi, rimane intristito da grigi, folli vecchietti, accasciati malinconicamente sulla propria vita.

Piccole cose ci aprono un mondo, come il tintinnio delle chiavi che accompagna l’infermiera di un ospizio con le stanze come loculi, anticamere della morte.

Se qua e là troviamo il montaggio drammaturgico un po’ sfilacciato e con qualche incursione di troppo di trovate esilaranti, il finale rappresenta invece, con estrema capacità di sintesi, l’idea della morte come salto a testa in giù in un abisso sconosciuto, verso il buio o verso la luce, verso una nuova nascita, l’attore sembra discendere verso un rettangolo di luce, con sopra una rosa, che rappresenta la tomba. Così, mentre la proiezione della panchina con sopra i quattro vecchietti, si stacca da terra leggera, leggera, perdendo peso, ci accorgiamo che forse la morte è solo un cambiamento di stato, un passaggio dal positivo al negativo, il rovescio della vita e viceversa.

Possiamo anche ignorare quello che c’è prima o dopo questo viaggio che è la vita, questa presenza umana nel mondo, fatto sta che l’inizio e la fine sono due estremi che si toccano, due poli che incorniciano la fine e l’inizio in un cerchio che si chiude, e questo è l’infinito.34-les_4_bb_n_808_photo_simona_fossi