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Interplay 2015 all’insegna della molteplicità di estetiche

GIULIA MURONI | Ha preso il via la quindicesima edizione di Interplay. La kermesse torinese guidata da Natalia Casorati conferma la propria inclinazione bifronte: guardando all’Italia e all’estero, propone artisti esordienti, perlopiù selezionati per talento dalle reti di operatori e realtà consolidate del panorama nostrano e non solo.

Nella seconda serata, al Teatro Astra di Torino, si sono succeduti gli spettacoli “Strascichi” di Irene Russolillo e  “Complex des genres” di Virginie Brunelle.

La prima performance, diretta e danzata dalla giovane danzatrice pugliese, intesse un personale collage di azioni e sensazioni attraverso una partitura di movimento, parole e suono. I testi attingono da un ricco repertorio, Beckett, Cohen, Morante, Szymborska, e fanno da contraltare a musiche e arrangiamenti originali. La danza è agile, asciutta nel suo tendersi nervoso, potente in realizzazioni inedite: Russolillo si mostra performer poliedrica e intensa.

“Complex des genres”, ad opera della compagnia canadese guidata da Virginie Brunelle, ha dato vita a uno spettacolo ricco e efficace, che ha suscitato un’ovazione dal pubblico. I sei interpreti, tre uomini e tre donne, sulla scena si annodano, perdono i confini tra sé e l’altro, hanno atteggiamenti ludici, voluttuosi, irosi. Un disegno luci articolato ha pennellato la scena e i corpi dei danzatori in modo sapiente, elegante. La partitura coreografica ha raccolto a piene mani dal codice della danza classica per risignificarlo mediante una cornice di senso totalmente altra. Anche l’elemento acrobatico porge la mano alla costruzione di uno spettacolo che vuole mostrare la natura labile e paradossale dei generi, laddove maschile e femminile sono costruzioni più culturali che biologiche in senso stretto. Spettacolo immediatamente fruibile, è arrivato con forza al pubblico dell’Astra, commosso e partecipe.

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Alle Fonderie Limone, Interplay darà il suo contributo al progetto “Torino incontra Berlino” con la proposta di due realtà provenienti dalla Germania: la coreografa israelo-tedesca Zufit Simon e Stephen Herwig. Serata spartita con “Gut Gift” di Francesca Foscarini e Yasmeen Godder. Sarà poi la volta dei Blitz Metropolitani, realizzati in collaborazione con Torino Jazz Festival Fringe 2015 e con Torino Capitale Europea dello Sport, dove si susseguiranno brevi performance Daniele Ninarello, Sara Marasso con Stefano Risso, Lali Ayguadè, Daniele Albanese, Francesco Cordova Azuela e Virginia Garcia insieme a Damiàn Muñoz.

Un’altra serata alle Fonderie Limone il 30 Maggio e infine il 12 Giugno performances site-specific nel Museo Ettore Fico. Questo il pacchetto Interplay, costellato di collaborazioni importanti, varietà di luoghi, performance in contesti urbani, aperitivi con dj-set, workshop e, soprattutto, un ricco cartellone di spettacoli parla di una rassegna che, nonostante i tempi di crisi e anche in virtù di una proficua rete di partner  e di collaborazioni, dichiara e dimostra di tenere viva l’attenzione sulla pluralità dei linguaggi del contemporaneo.

Biennale Venezia: di cosa parliamo quando parliamo di futuro (dell’arte?)

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Wangechi Mutu, She’s got the whole world in her (dettaglio),2015, courtesy La Biennale di Venezia

MARCELLA MANNI | La 56esima edizione della Biennale di Arti Visive si è aperta a Venezia, celebrando prima di tutto se stessa e la sua storia, sono infatti passati 120 anni dalla prima esposizione (1895).

E che sia una biennale della storia è chiaro fino da subito e non solo nel titolo, ma annunciato dal curatore Okwui Enwezor con la citazione di Walter Benjamin da Tesi di filosofia della storia: la mostra apre su un mondo e un tempo che non è solo quello dell’espressione artistica, ma quello di una riflessione e una pratica profondamente legata al contesto nel quale l’arte nasce e dal quale non può mancare di essere influenzata. Enwezor fa riferimento a un presente di rovine, di rovine che ci circondano che guardiamo di fronte a noi, e di fronte a questa distesa possiamo scegliere di distogliere lo sguardo, possiamo scegliere il silenzio o possiamo cercare un nuovo orizzonte di possibilità.

Scontato dire quale sia la scelta di Enwezor che mai ha rinunciato a quello che pochi anni fa si sarebbe definito “impegno” nel suo lavoro, e che oggi forse varrebbe la pena di definire semplicemente pensiero, con tutta la portata e carico simbolico che ne deriva. Un ruolo, che come scrive Nietzsche a proposito del “dotto”, dotto non è colui che si limita a leggere e criticare ciò che hanno fatto altri e che spesso in questa dipendenza, in questa quasi ossessione filologica rinuncia a esercitare un proprio pensiero. Enwezor e la sua mostra, perché è bene ricordare che sempre di una mostra e quindi di una iniziativa temporanea, con una durata prestabilita e improrogabile si tratta, questo pensiero lo esercitano fino in fondo e non si accontenta di questo, ma chiede costantemente al visitatore di esercitarlo a suo modo.

E allora seguendo questo invito e attraversando la mostra partendo dall’Arsenale, l’apertura è affidata all’artista americano Bruce Nauman che cerca (e ottiene) il coinvolgimento dello spettatore in un allestimento di neon testuali, una sorta di annuncio, quasi di scaletta emotiva, i grandi contrari filosofici verrebbe da dire, vita, morte, amore, odio campeggiano a caratteri cubitali e colorati. Uno specchio dei tempi, un caos gerarchico, la forma circolare dei neon si complica e si sovrascrive, mescolando e accostando concetti, un monito più che una forza assertiva. E visto che la storia è anche storia economica e politica il richiamo di Enwezor al Capitale di Karl Marx, uno dei libri che hanno segnato la nostra epoca, passa anche per le fotografie di Walker Evans: in mostra la serie completa del progetto Let Us Now Praise Famous Men realizzato nel 1941 e pubblicato nel libro omonimo scritto e realizzato come ricerca sulle comunità agricole nel profondo sud dell’Alabama. Esplicito, narrativo, penetrante, Walker Evans entra nel capitolo dei molti autori “consolidati maestri” di questa mostra, come accade nell’apertura ai Giardini con il muro di Fabio Mauri (Il Muro Occidentale o del Pianto, 1993), attuale e imponente. E se per alcuni autori il richiamo a memoria, storia, natura, conflitto, si traduce un una riaffermazione coerente di un codice riconoscibile e riconosciuto come per le solitarie e sovrastanti figure capovolte di Georg Baseliz , per altri si traduce in lavori realizzati in dialogo con lo spazio: le giganti Nympheas (2015) dell’artista franco-algerino Adel Abdessemed altro non sono se non coltelli conficcati nel pavimento, formalmente ed esteticamente impeccabili e allo stesso tempo efficacemente rappresentativi di quello scenario di guerra (Raw War, 1970) che Nauman dichiara sulle pareti accanto. Ma per non fermarsi solo all’inizio delle due sedi della mostra e avvicinare il tema del rapporto con la natura, sovrastante e forse matrigna come ce la raccontava Leopardi, il lavoro dell’artista keniota Wangechi Mutu riassume perfettamente la dialettica natura_cultura, in cui la condizione femminile, soprattutto nei luoghi del mondo più svantaggiati, è il perno centrale. Le sue figure femminili spesso trasfigurate sono sempre in bilico tra resa poetica e inquietante metamorfosi, che siano i collage che accompagnano i suoi lavori fino dall’esordio o le grandi installazioni scultoree o la forma del video come The End of Carrying All (2015), in cui è lei in prima persona a farsi carico del cammino, fardello compreso.

Ma al di là delle installazioni monumentali, dell’allestimento rigoroso, denso e in questa monumentalità decisamente bloccato, l’apertura della mostra è data dall’ARENA, uno spazio fisico, progettato dall’architetto David Adjaye che si trasforma in una scena attiva e animata. “Akhand Path” – leggere ininterrottamente- si prende a prestito un rituale Sikh di lettura ad alta voce, che in questa circostanza viene declinato sul Capitale di Karl Marx. Diffusa e di tangenza la lettura del libro, o meglio delle implicazioni sociali, politiche ed economiche, ha ovvie tracce nei lavori in mostra, ma in questa sede, costruita appositamente, viene messa in scena per la regia di un artista appunto, Isaac Julien, che per tutta la durata della mostra proporrà una lettura integrale dei tre volumi che lo compongono. Accanto a questa “epica” lettura una serie di appuntamenti interdisciplinari tra musica, performance che costituiscono un omaggio alla multidisciplinarità connaturata alla stessa Biennale (danza, cinema, teatro, musica, architettura, arti visive). Monumentale, politica, storica, interdisciplinare e pure inesauribile sembra… tutti questi aggettivi e molti altri si potrebbero usare per una mostra che si offre, al di là di una visione di insieme che può apparire statica, come una risorsa preziosa alla quale attingere, grazie alla stratificazione dichiarata del suo impianto. Coerente il catalogo, con un apparato iconografico che rende conto non solo della mostra, ma della storia stessa della biennale e dei suoi luoghi: a partire da qui è possibile, ed Enwezor ce lo dimostra, rileggere la nostra epoca, con uno sguardo al futuro, o meglio ai futuri possibili. Sta tutto qui, e, duole ammettere, pare essere più nel passato che nel futuro, il ruolo dell’Italia nella cultura europea.

 

All the World’s Futures

A cura di Okwui Enwezor

Venezia

Giardini- Arsenale

Fino al 22 novembre 2015

Catalogo Marsilio Editori, Venezia

La Tana di ZiBa, gioco di coppia tra fisicità e assurdo

ziVINCENZO SARDELLI | «Cosa sarà che fa morire a vent’anni, anche se vivi fino a cento»? La tana, della Compagnia pratese ZiBa, Menzione Speciale Bando Anna Pancirolli 2014, che abbiamo visto a Milano a Campo Teatrale, è uno spettacolo di teatro fisico che rende l’idea di un tempo che ci possiede senza essere posseduto.

Una casa come una caverna. Un uomo (Lorenzo Torracchi) e una donna (Laura Belli) prigionieri di se stessi: si destano in due casse adagiate su terriccio bruno. Un ossessivo gocciolio di sottofondo scandisce un tempo ripetitivo e astratto. Il risveglio è degno di due morti viventi: non è sonno, è torpore dell’anima. La mise da pagliacci grotteschi, pantofole e accappatoio rosa sopra il pigiama a pois lei, giacca gialla minimalista e pantaloni a quadretti lui, non scaccia un senso di precarietà e assopimento.

Il clima è da teatro dell’assurdo. Le domande perdono senso e diventano un rituale, un modo per testimoniare la propria esistenza.

La tana è una casa cadente, dove appassiscono due esseri in disarmo. Il soggetto di Laura Belli e Lorenzo Torracchi, con il regista Marco Cupellari, è la quotidianità di una coppia sclerotizzata nella routine. Gesti ripetitivi, gorgheggi scimmieschi. Parole biascicate, gracchianti, disumane. Andature anchilosate. Sguardi perplessi, allucinati, persi in un orizzonte indefinito. L’aspetto sconvolto e trasandato di chi è abituato a dormire male (o troppo) e nun ja fa manco a lavarsi la faccia, è esasperato dai ricci impazziti di lei e dalla barba arruffata di lui. Tipi come topi: mangiano, giocano, dormono anche da svegli. Guardano Peppa Pig allo sfinimento. Duettano sulle note di Enola gay, in un ballo da fine del mondo.

Affogate di malinconia in una carnascialesca festa telecomandata al ritmo del Ballo di Simone, queste due creature infognate parlano per modi di dire (e per modo di di dire). Sembrano darci approssimative lezioni di vita per quel loro farsi brillare gli occhi davanti a cose da nulla: una manciata di patatine; una salsiccia e una birra; dei palloncini da gonfiare; una pistola ad acqua. Oppure un pacco da ricevere. E allora – per dirla con un’altra frase fatta – «l’attesa del piacere è essa stessa piacere».

La tana è un talentuoso spettacolo da saltimbanchi sospeso tra il Beckett di Aspettando Godot e Finale di partita e il Fellini di La strada. Il disordine c’è, anche quando non si vede. Il tempo è una variabile capricciosa. Esseri fragili e solitari, incapaci di vivere, muoiono di solitudine.

È un gioco di coppia dove si prova, senza riuscirci sempre, a sostenersi a vicenda, a prendersi cura l’uno dell’altro. Un po’ come in Due passi sono di Carullo e Minasi, a turno i due protagonisti guardano le stelle o il terriccio sotto i loro piedi. Lui e lei, normalmente immobili, normalmente apatici. L’incomunicabilità è eloquente.

Le premesse di questo spettacolo sono intelligenti e sagaci. I riferimenti a Beckett (e a Ionesco) si sprecano. Ma qui non si trovano le profondità e le riflessioni di quel tipo di teatro. Si svicola nel comico. Si strizza l’occhio al grottesco. S’introducono temi moderni e attuali. Si perde il senso dell’atemporalità. Questo forse rappresenta il limite dello spettacolo, ondeggiante tra assurdo e comico, tra dialogo e afasia. E con un finale lasciato a metà, irrisolto: sbrigativa via d’uscita all’inspiegabilità dell’agire umano.

“SÜRPLÀS”: prove di sopravvivenza oltre gli inganni del Contemporaneo

ALESSANDRA CORETTI | surplasTralascia il registro ruvido della denuncia, optando per un mood soft sospeso tra il visionario e il poetico, SÜRPLÀS (2014), ultima fatica di Andrea Santantonio e Nadia Casamassima, rispettivamente regista e interprete dello spettacolo, meglio conosciuti come IAC-Centro Arti Integrate. La performance, che ha debuttato a Potenza passando per Matera, ora in loop, fino al 23 maggio, all’Apulia Fringe Festival di Andria, costringe gli spettatori a fare i conti con i dispositivi di potere che plasmano le vite dei trentenni contemporanei, un esercito di “esistenze disancorate, esposte alla tempesta”, frustrate nell’orgoglio, ma ancora capaci di forzare gli orizzonti. Attraverso l’alternarsi di otto allegorie: la Giovinetta, il Guru, il Giudizio, la Burocrate, la Contaminazione, il Guerriero, l’Appesa e la Morte, Casamassima racconta la routine della generazione in-between, perennemente situata tra i cambiamenti, mai al centro; una generazione a prima vista immobile, in realtà sempre in movimento, probabilmente per non percepire l’equilibrio vacillare, o per attenuare l’impressione costante di essere nel posto giusto al momento sbagliato. La scena, inizialmente seminuda, si fa eloquente dopo un breve prologo. Trascinata in cinquanta minuti di instancabile dinamismo dà vita ad otto quadri che celano inquietudini, ombre, paradossi dei nostri tempi. Un palloncino, fotocopie sparse sul pavimento, un lipstick rosso melograno, scarpe della stessa nuance, una maschera antigas: sono alcuni dei segni che, nel rapido succedersi, suggeriscono tipicità ai “personaggi” che abitano l’opera, rafforzando con un calco semantico l’umore scenico. Inesauribili anche le energie dell’attrice, unica protagonista, ostenta una buona vitalità scenica scandendo i ritmi dello spettacolo e dando rapidità ai cambi di visione che avvengono sotto lo sguardo attento degli spettatori, senza interruzione alcuna, quasi a voler simulare una prova di resistenza fisica.

Surplace, letteralmente “sul posto”, è una strategia sportiva: consiste nel rimanere in immobile equilibrio prima di ripartire e sferrare l’offensiva finale. Come spiegano le note di accompagnamento allo spettacolo è un momento in cui il corpo, nonostante la condizione di staticità, investe energie notevoli; calzante, quindi, il gioco di analogie creato con l’attuale contesto giovanile dipinto in apparente stato di quiete, invece, all’apice degli sforzi, poiché impegnato a resettare, progettare, riorganizzare, ricostruire, continuamente, non solo possibili traguardi, ma innanzi tutto ipotetici percorsi che possano alleviare l’affannosa ricerca del proprio posto nel mondo. Un lavoro per certi versi ironico – come nel caso della Burocrate, figura che esaspera i cliché delle incomprensibili prassi formali – non tarato però esclusivamente su tale registro. SÜRPLÀS tenta di far riflettere il pubblico ponendosi all’altezza dei sentimenti con un codice a tratti onirico in cui la parola recupera un ruolo centrale, la quale tuttavia, per generare processi non soltanto riflessivi, ma si spera anche rigenerativi, si vorrebbe avvertire meno flebile e più intrisa di tensioni ardenti. L’appello alla sfera del sensibile è l’aspetto più interessante, ma anche quello su cui insistere maggiormente. La parola poetica potrebbe, infatti, alzare i toni dello spettacolo amplificando quel senso di prossimità alla scena fondamentale per l’esperienza teatrale, che dimentica il suo oggetto per diventare essenzialmente relazione e comunione. Culla di un altrove che può farsi realtà.

N.E.R.D.s: la societa’ liquida di Bruno Fornasari

N.E.R.D.s3770RENZO FRANCABANDERA | Un gruppo di uomini col la testa di papero emerge dal buio.
Poi di nuovo buio.
Poi quattro individui in posa, quasi da foto ricordo.
Buio.

Metti la classica riunone di famiglia di quelle che finiscono un po’ a merda. Tipo Festen, il classico topos della letteratura cinematografica, più che teatrale.
Metti un regista che da anni frequenta le nuove drammaturgie contemporanee, con un occhio alla commedia sociale, ai giovani autori e alla creazione scenica collettiva.
Metti un testo fresco, tocciato in salsa politically uncorrect, sulle tematiche di genere e sulle forme destrutturate della passione amorosa nel nostro tempo.

Ecco come nasce l’idea di N.E.R.D.s – Sintomi, testo e regia di Bruno Fornasari con Tommaso Amadio, Riccardo Buffonini, Michele Radice e Umberto Terruso, in scena fino a fine settimana al Teatro Filodrammatici di Milano.
Quattro fratelli si ritrovano (alcuni accompagnati e alcuni no) all’anniversario di matrimonio degli anziani genitori.
Vecchie ruggini, intrighi omo con altri invitati. Confessioni di gravidanze nel cesso del residence. Scondinzolare di cagnolini invisibili e papere a grandezza umana.

Come per il recente allestimento di Brutto, possiamo parlare di una regia vivace, nodreuropea, con un testo divertente composto di sketches, con Fornasari che ha compiutamente preso coscenza del tempo scenico del tipo di teatro in cui riesce meglio, ed ha scritto un testo a misura perfetta delle sue esigenze e intenzioni, oltre che quelle del gruppo di attori con cui ha scelto di portarlo in scena, ovvero i rodati Tommaso Amadio, Riccardo Buffonini, Michele Radice e Umberto Terruso, che lavorano bene insieme e con un risultato apprezzabile considerati gli intenti registi.
Le scene e i costumi di Erika Carretta proiettano il tutto in una dimensione plastificata e da sit com, ben lontana dalla verde e ventosa contea inglese in cui la storia è ambientata.

La storia, dicevamo, quella di un 50imo anniversario di matrimonio, l’anziana coppia che non appare mai in scena, mentre arrivano nella sala cerimonie all’aperto, con tanto di laghetto e paperelle, i quattro figli maschi. Ma subito si capisce che il tema della gender specificity sarà un leitmotiv dello spettacolo, perchè oltre al gay dichiarato un outing e una gravidanza inaspettata movimenteranno, insieme ad antiche ruggini e bullismi relazionali, tutto l’outdoor della festa.
Il tutto senza che gli anziani genitori si palesino mai, salvo non voler parlare di quanto accade al termine della replica, cosa su cui tuttavia eviteremmo di dare dettagli in quanto particolare scelta registica sul finale della storia.
Questo cameo finale, pur non determinante ai fini dell’esito drammaturgico e puro divertissement, aiuta a definire con maggior precisione il focus generazionale su cui lo spettacolo punta il faro, concentrandosi su una generazione evidentemente liquida e senza una prospettiva di stabilità emotiva di lungo corso.

Nel breve lasso dello spettacolo tutti i rapporti si destabilizzano, si restaurano, si modificano senza cambiare o cambiano senza modificarsi, in una sorta di pansessualità che tutto avvolge e travolge, spostando ad ogni passo di un passo il confine dell’accettabilità sociale e della convenzione.

Così, alla fine, davvero la ragazza incinta che confessa con le braghe calate nel bagno della sala ricevimenti all’amico gay di attendere un figlio da lui, e dopo un po’ il tutto si ricompone in una tranquilla dinamica di famigliola allegra, mentre dall’altra parte del parchetto succede di tutto, ecco, tutto questo fa via via svanire le risate iniziali in un’amarezza dolorosa che rimane bilanciata quasi sempre.

A volte c’è qualche pigiatina sul pedale della didascalia del concetto, su cui si potrebbe andare con piede più leggero, nel senso che anche il non dire a volte può essere una virtù.

Ma questo detto, N.E.R.D.s si fa godere ed è un buon passo verso un codice di scrittura e di regia che porta a Fornasari un significativo riscontro di pubblico, e in prospettiva un suo esito anche come drammaturgo su un tipo di scrittura su cui in Italia manca forse una penna ispirata e consapevole del teatro come meccanismo oltre che come luogo della finzione creativa, un meccanismo che ha delle regole, come proprio sul palco del Filodrammatici ebbe a dire qualche mese fa Jonathan Coe, scrittore di fama, commentando le difficoltà che aveva lui stesso avuto ad inventarsi poi autore di testi per il teatro dove ne era stato richiesto. La scrittura per il teatro ha delle regole. E queste regole sono tutte non scritte.

All In Festival 2015, Roma consegnata agli under 25

All In Festival_LogoVALENTINA DE SIMONE| «Stiamo occupando il Valle» ha esordito, scherzando, Simone Borghini, uno dei giovani relatori presenti il 21 maggio nel foyer dello storico teatro romano, dove si è tenuta la conferenza stampa di presentazione di “All In Festival – La città agli Under 25”, un progetto nato dalla sinergia congiunta di Argot Studio, Teatro dell’Orologio, A.T.C.L. e Dominio Pubblico, e che dal 26 al 31 maggio invaderà diversi spazi della capitale con la sua eclettica proposta artistica. Una rassegna per gli under 25 organizzata, curata e promossa in ogni suo aspetto da un gruppo di ragazzi esclusivamente under 25, che nel corso di un anno si è fatto carico dell’intera macchina gestionale dell’iniziativa, dalla redazione del bando alla campagna di comunicazione, dalla scelta dei materiali e delle proposte agli aspetti prettamente logistici. «Il nostro modo di fare cultura è vivo» ha dichiarato un animato Lorenzo Brunetti, anche lui tra i promotori della manifestazione che nel 2015 giunge alla seconda edizione, strutturando la sua proposta tra Teatro, Musica, Drammaturgia, Arti Visive e Audio Visivi.

Sei giorni di programmazione, più di trenta opere e un centinaio di artisti selezionati tra le realtà emergenti nazionali, con aperture anche all’internazionalità, il tutto dislocato in sei location di riferimento del tessuto urbano, il Teatro Argot Studio, il Teatro dell’Orologio, Palazzo Braschi, il Museo di Roma in Trastevere, e come new entry, grazie alla collaborazione con il Teatro di Roma, il Teatro India e il Teatro Valle. S’inizia martedì 26 maggio con lo spettacolo “La vena giusta del cristallo” di Lucrezia Lanza alle 21:30 all’India, anticipato dal concerto a quattro mani di Giovanni di Giandomenico e Francesco Leineri alle 18:30; mercoledì 27 è la volta di “Una storia un po’ così” di Silvio Impegnoso a Palazzo Braschi alle 17:00, della Compagnia Lost Movement con “ROSSOphilìa” all’Orologio alle 20:30, del Nuovo Teatro Sanità con “Scimmie” alle 22:00 all’Argot. Tra gli altri, giovedì 28, sempre all’Argot, Ksenjia Martinovic ci presenta il suo “Diario di una casalinga serba” alle 20:00, venerdì 29 è il turno de “La Patetica” della Compagnia Marabutti al Teatro dell’Orologio alle 20:30 e dell’ “Edipo re (del niente)” di Borghini, Cicone e Gori al Teatro Argot alle 22:00. Sabato 30 maggio  troviamo Niccolò Matcovich e il suo “Quel noioso giorno d’estate” al Teatro Valle alle 19:00, mentre alle 22:30 il Teatro India assaporerà le sonorità alternative d’ispirazione inglese dei The Old School. E domenica 31 si chiude in musica al Teatro India, con i concerti di CaPaBrò e dei Fantasia Pura Italiana.

«Speriamo di rimanere al vostro fianco per molto tempo» ha affermato Luca Fornari, presidente dell’A.T.C.L. che non ha fatto mancare il suo sostegno all’evento, così come il Teatro di Roma da subito reattivo positivamente nei confronti di questo cantiere della creatività. «Il compito di un teatro pubblico è quello di essere presente – è intervenuto con decisione Antonio Calbi, direttore dello stabile – è quello di capire le istanze delle nuove generazioni, avvicinare lo sguardo alla contemporaneità. Occasioni come questo festival – ha continuato – sono molto importanti, la città dovrebbe essere costantemente un palcoscenico. Il teatro diventa un museo se non si sa rinnovare e se non è in grado di dare il meglio di sé anche in tempi di crisi».

Un luogo d’incontro dunque, “All In Festival”, un melting pot di entusiasmi e voglia di fare, una fucina di sperimentazioni e di condivisione aperta all’intero corpo metropolitano che, da martedì prossimo, potrà toccare con mano e consegnarsi completamente alla spinta dei giovani under 25.

Il coraggio di re Pelasgo, il coraggio di Moni Ovadia

suppliciMARIA PIA MONTEDURO | Una rappresentazione apparentemente fuori dai tradizionali schemi del teatro classico greco. Apparentemente però, perché, come vedremo, Moni Ovadia con queste “Supplici” riafferma come il teatro sia stato, e continua a essere, la risposta di una comunità ai problemi che l’attanagliano.

Ma andiamo con ordine. La 51° stagione dell’Inda, la Fondazione che gestisce il Teatro Greco di Siracusa, è stata inaugurata venerdì 15 maggio dalle “Supplici” di Eschilo, nell’adattamento scenico di Moni Ovadia, Mario Incudine e Pippo Kaballà. Il testo, come ampiamente riportato dalla stampa nei giorni precedenti, è stato tradotto in siciliano e greco moderno. Siciliano per esaltare l’humus e la temperie culturale da cui nasce e in cui si inserisce il Teatro Greco di Siracusa, e anche per ricordare gli strettissimi rapporti tra il tragediografo Eschilo e la terra di Sicilia, dove egli morirà. L’uso del greco moderno invece per evidenziare, senza mezzi termini, l’enorme, e non assolto, debito, che tutta la cultura occidentale ha contratto con la Grecia classica, sorta di risarcimento morale alla Grecia contemporanea.

Il tema forte del testo e dello spettacolo è l’accoglienza di chi chiede asilo. Come le cinquanta supplici figlie di Danao invocano protezione a Pelasgo, re di Argo, così oggi i migranti chiedono asilo e protezione al mondo occidentale. “[…] chista è la sorti di ogni emigratu / semu esuli… ormai, sempre cchiù disperati / e sapiri parlai pò canciari ‘a vintura / lu debbuli parla ccu paroli assinati […]” specifica Danao. Il dolore di questi migranti è un urlo di disperazione, una domanda di aiuto alla quale Pelasgo, uomo che pone il potere, il suo potere, al servizio della collettività, non sa e non vuole rispondere se non dopo aver consultato, democraticamente, il suo popolo. La figura di Pelasgo trasuda autorevolezza, perché non ordina, non impone, ma decide secondo giustizia, ben conscio di cosa vorrà dire accogliere le supplici (la guerra), perché è importante, anzi fondamentale, seguire la giustizia, non la convenienza: “la giustizia è libertà”, l’accoglienza è libertà” verrà detto.

Un insegnamento morale, etico, civico fortissimo, che Eschilo consegna e che Ovadia recepisce in pieno e amplifica attraverso uno spettacolo che esce dai canoni tradizionali ed entra in uno stilema quasi brechtiano, dove il canto, i movimenti coreutici, le coreografia, ogni componente dello spettacolo ha il duplice ruolo di attrarre lo spettatore, tenendo altissima la sua attenzione, per trasmettergli il messaggio, forte, indubitabile. E per rafforzare ancora di più il legame con la terra di Sicilia, tutta la vicenda è declinata nello stile del cantastorie, affidato alla personalità prorompente e teatralmente imponente di Mario Incudine, che apre e chiude lo spettacolo, presentandosi alla fine come “Eschilo siciliano”.

L’operazione che Moni Ovadia conduce è di ampio impegno civile, portando nel finale sulla scena veri giovani migranti, attualmente ospitati nei centri di accoglienza del Siracusano, perché il teatro è finzione, ma è anche specchio della realtà, è analisi della realtà, è risposta alla realtà.

Tutto il foltissimo cast (un centinaio di persone) è di ottimo livello: Moni Ovadia, re Pelasgo, troneggia sulla scena, e tutti i suoi movimenti, regali e autorevoli, sono amplificati dallo straordinario manto (i costumi, bellissimi, sono di Elisa Savi) che lo accompagna e lo precede nei suoi spostamenti sulla scena. Molto suggestiva la prova della prima corifea, Donatella Finocchiaro, che rende lo strazio e la paura delle supplici con convinzione e partecipazione. Inoltre: Angelo Tosto (Danao), Marco Guerzoni (Araldo degli egizi), le corifee Rita Abela, Sara Aprile, Giada Lo Russo, Elena Polic Greco e Alessandra Salamida, Faisal Taher (voce egizia). E poi gli allievi dell’Accademia d’arte del dramma antico “Giusto Monaco” che hanno interpretato il coro della Danaidi, le donne e gli uomini del popolo e gli armigeri egizi, tutti coordinati dal “maestro” dei movimenti Dario La Ferla. Movimenti perfetti, visibili da ogni punto, in quello che è il più grande teatro del mondo ellenico, fuori e dentro i confini della Grecia stessa. A margine della grande scena, enormi statue liberamente ispirate all’arte greca arcaica, issate su altissimi bastoni, a collocare la vicenda nell’epoca più antica della civiltà greca, nel mito.

Un’altra componente spettacolare molto pregnante è la musica di tamburi, clarino, chitarra e fisarmonica, scritta da Incudine ed eseguita dal vivo dai musicisti Antonio Vasta, Antonio Putzu, Manfredi Tumminello e Giorgio Rizzo. Musica che assomma in sé reminiscenze greche antiche, arabe, addirittura alcuni tratti della musicalità klezmer, forse a sottolineare il peregrinare cui alcune popolazioni sono costrette dalla Storia…

La capacità registica, ma prima ancora di intellettuale, di Moni Ovadia è stata l’aver concretizzato che il teatro, dalla sua nascita proprio in Grecia e per sua precipua essenza ontologica, è stato, e continua a essere, la risposta con cui una comunità affronta e cerca di risolvere i nodi della sua realtà, con una ritualità in cui la dimensione sacra e cultuale è sorprendentemente presente. Se è vero, come è vero, che oggi un problema drammatico nell’Occidente è l’accoglienza dei profughi e dei migranti e la gestione di tale accoglienza, Ovadia ha dato linfa vitale al testo classico, la cui caratteristica è sempre la perenne attualità. Quindi rottura con gli stilemi tradizionali della rappresentazione classica, ma per dare al teatro tragico greco ancora più forza e più capacità di essere compreso. Ovadia, come il suo re Pelasgo, ha avuto coraggio: la standing ovation finale dei quattromila spettatori che affollavano la straordinaria cavea sulle pendici sud del colle Temenite sembra suggerire che ha avuto ragione e che il messaggio è giunto ai destinatari. E questo dà speranza.

Torino Fringe Festival 2015 e l’urgenza di non estinguersi

GIULIA MURONI| È un dodo stilizzato e colorato a fornire l’immagine alla terza edizione del Torino Fringe Festival. Animale estinto da secoli a causa della sua incapacità di adattarsi al mutato habitat, rivive come simbolo nella cultura di massa e sembra voler raccontare il senso di precarietà, il disequilibrio a un passo dall’estinzione del teatro in Italia, oggi. In particolare se ad alzare la voce sono delle compagnie giovani, fuori dai circuiti istituzionali, come nel caso del Torino Fringe Festival. Anche in questa edizione, dinnanzi al baratro dell’ estinzione incombente, il Fringe torinese ha ribadito la sua vocazione onnivora e ambiziosa, rilanciando con 46 spettacoli al giorno per dieci giorni, performance, feste, workshop e incontri. fringe

Dal 7 al 17 Maggio dieci spazi del centro di Torino hanno ospitato gli spettacoli ospiti del Festival, in un susseguirsi di 3-4 eventi consecutivi al giorno, per ciascun luogo.  Abbiamo sbocconcellato un po’ in giro per Torino, ecco qualche esempio virtuoso.

Al Garage Vian la compagnia napoletana Marina Commedia ha portato in scena un testo di Massimo Sgorbani: “Angelo della gravità. Un’eresia”. Fa da sfondo un terribile fatto di cronaca negli Stati Uniti: un detenuto sul braccio della morte è troppo grasso per essere impiccato, la corda si spezzerebbe. A partire da questa situazione drammatica e grottesca il monologo prosegue a ritroso, schiudendo gli scenari psicotici che affastellano l’esistenza del protagonista, dove l’obesità e lo stigma sociale che ne deriva, si accompagnano in modo esponenziale a una grave affezione psichica e ad azioni dolose.  Nonostante una materia grave che tocca vette tragiche, il regista e attore Michele Schiano di Cola riesce con levità a tratteggiare una confessione inquietante che getta una luce sulle dinamiche psicologiche intime, perverse, morbose e fanatiche di un individuo e di un mondo in cui “amore è pornografia, nutrimento è bulimia, religione è consumo”.

Il pubblico gremisce il Magazzino sul Po per “Letizia Forever” di Teatrino Controverso. Salvatore Nocera indossa i panni di Letizia, siciliana semianalfabeta alle prese con il disordinato racconto della propria esistenza. Si parte dalla fuitina a diciassette anni verso Milano con un ragazzo acchiappato grazie a un raffinato gioco di taliate sulle scale della chiesa. Il fidanzato diviene presto marito ma questa relazione nel corso degli anni degenera in modo progressivo. A Milano lui divide il suo tempo tra l’impiego di autista dell’ATM  e un’amante. Nel frattempo Letizia, dopo aver sfornato due creature, si ritrova invischiata in una solitudine spessa, insensata, dolorosa. Gli strumenti di analisi di cui dispone sono poveri, vive in un mondo di segni incomprensibili e ostici, è vittima e oggetto inconsapevole di soprusi. Sul finale salta la baracca ed è tutto di nuovo drammaticamente in discussione. C’è una costellazione di musiche tratte dagli anni ’80 che intessono la drammaturgia, dando spessore e efficacia estetica a un quadro in cui è la parola ad avere il ruolo di rilievo. Pochi elementi per uno spettacolo efficace, onesto e potente, che ha presto trovato riconoscimento tra le fila del Fringe.

Infine, al Teatro Officina- Hub Cecchi Point,  Marco Chenevier del TIDA (Teatro Instabile di Aosta) ha portato in scena “La Scelta- Beati Pauperes in Spiritu- Eckhart project”, messinscena nata a partire dalla commessa di un “famoso festival torinese sulla spiritualità”. Il compito di restituire il corpo filosofico nella forma astratta e sublimata della danza contemporanea apre a una miriade di possibilità e di interrogativi: è giusto costruire una danza che si traduca in un subitaneo costrutto di significati? Il linguaggio coreutico può assurgere ad una immediatezza espressiva senza impoverirsi nella partitura del movimento? Chevalier frappone stralci coreografici a momenti in cui rivolge alla platea i quesiti della mistica di Eckhart (la negazione di volontà, sensi, giudizi e memoria). Scanzonato, chiede come gli sarà possibile “danzare” tali concetti. L’alternanza di parola e movimento avvia un meccanismo metateatrale incalzante, che Chevalier gestisce sapientemente, senza paura di percorrere il vuoto e anzi cavalcandolo con ironia. Su una precisa scansione musicale si compone la sua danza che, attraverso una qualità corporea elastica e elegante, varia di quadro in quadro, scorrendo da un movimento sincopato a uno fluido, rivolto verso ampie proiezioni spaziali.

Questi tre spettacoli, tra gli altri, hanno apportato una ricchezza al panorama variegato, poliedrico e disordinato del ToFringe. L’augurio è che questa “invasione teatrale” prosegua con forze sempre maggiori e che, diversamente dal dodo, rinforzi la sua decisa capacità di spiccare il volo. Magari nella direzione di scelte artistiche in cui l’estetica si avvicini alla sua consonanza con l’etica.

 

Paranza, il miracolo di una costruzione teatrale antica, dal sapore contemporaneo

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ph Valeria-Tomasulo

RENZO FRANCABDANDERA | C’è una sorta di tragica ed immanente rassegnazione in Paranza, progetto di Clara Gebbia, Katia Ippaso, Enrico Roccaforte e Antonella Talamonti che nasce dall’esigenza di raccontare la società attraverso le sue mutazioni profonde, sociali prima ancora che materiali. Una rassegnazione strana che confligge con una silenziosa e spesso simbolica chiamata alla rivolta, che pure si respira nel testo.

La vicenda di questo spettacolo, con la regia di Gebbia ed Roccaforte, e che ha vinto l’edizione 2013 di Teatri del Sacro, ruota attorno a quattro esistenze, di quelle che nei nostri giorni sono purtroppo abbastanza comuni: persone fra 40 e 50 anni, quella che anni fa era la piccola e media borghesia, che dopo la crisi sono piombate in uno stato di miseria personale prim’ancora che materiale, private di sogni e ambizioni, desideri e diritti.

Espulsi dalle loro casette, dai luoghi delle certezze, li vediamo ad inizio spettacolo affannarsi in una lotta con la burocrazia di uno Stato che pare non riconoscere più loro come elementi costituenti del reticolo sociale di salvaguardia. Storie senza nome ma che potrebbero averne centinaia: il diritto di una di loro alla salute, dell’altra all’espressione artistica libera, quello alla casa della terremotata, i sogni infranti dell’ex manager che era stato a sua volta tagliatore di teste licenziando senza scrupoli, e cosi via, sono alcuni degli ingredienti di una narrazione la cui testualità si sviluppa in modo armonico fra parola e musica, in un impianto scenico (opera di Kallipigia Architetti) povero, composto solo da tre cubi dall’anima di metallo come quelli che servono a costruire pedane rialzate.

All’inizio i tre cubicoli sono le minuscole case di tre dei protagonisti, poi uno sull’altro, diventano una sorta di liturgico totem che i quattro diseredati porteranno in processione, con un espediente scenico che lo trasformerà in un baldacchino senza santo.

Questo consesso di umana disperazione messo assieme dal caso, seguirà nell’evoluzione drammaturgica la tipica vicenda delle unioni di miserabili, dove è più facile perdersi in lotte intestine che rivendicare in forma compatta i diritti, dove si finisce per venir abbagliati da quelle che in altri momenti vengono ben individuate come illogiche chimere.

La povertà del nostro tempo è una povertà nuova, ma che ci riporta all’antico, ad un sistema di soprusi che trasforma il sistema diritti in schema di favori. E così non ci stupiremmo se vedessimo qualcuno di loro recar capponi all’azzeccagarbugli di turno, ma per fortuna l’impianto narrativo, pur muovendosi all’interno di vicende tutto sommato prevedibili, non è mai tristemente didascalico e riesce anche a trovare momenti di mediterranea surrealtà e, nel momento di abbandono di queste intelligenze alla meditazione della vita oltre le grazie e le disgrazie, affiorano citazioni pasoliniane, con il ritorno a quel duetto fra Otello (Davoli) e Iago (Totò) burattini gettati in discarica, e quella bestemmia poetica sulla disperante bellezza del creato.

Rilevante il contributo come dramaturg e autrice delle liriche di   Katia Ippaso e il supporto nella creazione musicale di Antonella Talamonti. Le due presenze, di fianco alla regia contribuiscono a conferire alla creazione un sapore di tragedia classica ma anche di epos contemporaneo, con sonorità fra il lai e la dodecafonia, popolari e ricercate assieme, dove la processione è quello che ci appare, ma sa trasformarsi in via crucis trasfigurata, penitenza infernale senza direzione (bella la movimentazione scenica di Massimo Bellando Randone), senza inizio né fine, ai bordi di un simbolico Stige, di un fiume da traguardare per arrivare in un nuovo mondo, una terra promessa su cui però le luci fredde, siderali di Gianni Staropoli, non lasciano molta speranza.

I quattro attori (Nené Barini, Filippo Luna, Germana Mastropasqua e Alessandra Roca) riescono davvero ad agire una mirabile coralità, mai banale. Il loro è un risultato di grande qualità, sia individuale che di gruppo.

Produzione Teatro Biondo Stabile di Palermo/Teatro di Roma in collaborazione con Teatro Iaia/Compagnia Umane Risorse, e proposto a Milano all’interno della rassegna Contagio, curata da Phoebe Zeitgeist, che ha portato al teatro dell’Elfo alcuni esiti significativi della creatività scenica siciliana contemporanea, Paranza – il miracolo è senza dubbio un esito alto, meditato di un gruppo di artisti che sarebbe piacevole rivedere all’opera insieme, con combinazioni creative che ovviamente siano capaci di nuove evoluzioni, in cui, come sempre si deve, gli ingredienti che hanno portato a questo felice risultato si possano rimettere in discussione, valutando di volta in volta la necessità di questo o quel codice, questo o quello strumento espressivo.

Balletto Civile danza la memoria: How long is now

VALENTINA SORTE| R112_0956-500x333Negli anni ’80 andavano di moda i librogame, ovvero quei romanzi che avevano una struttura narrativa aperta perché prevedevano che il lettore, al termine di ogni paragrafo, scegliesse lo sviluppo del plot. L’happy end non era affatto garantito e spesso l’eroe si ritrovava al punto di partenza, come in un loop narrativo. How long is now – uno degli ultimi lavori di Balletto Civile – ha una struttura simile. Si muove secondo un’apparente progressione, ma in realtà il movimento narrativo riporta più volte il plot al punto precedente in una specie di “ripresa con amplificazione” che sposta l’attenzione su evento laterale.

Lo spettacolo parte da un tema familiare allo spettatore: la memoria. Un vecchio professore di fisica è seduto su una poltrona. Dietro di lui, su un verdissimo prato, prendono vita i suoi ricordi. La narrazione segue un ordine soggettivo a tratti onirico – in cui i piani della realtà e del ricordo si mescolano con quello della “possibilità”, scardinando ancora di più la percezione stessa degli eventi, in una sorta di riscrittura intima. Ecco allora che accanto alla figura della madre o del padre, altre immagini si fanno particolarmente vive (l’amante brasiliana), se non addirittura derisorie (il generale fascista). Alcune si caricano invece di una forte alterità e incarnano l’idea dell’aldilà e del destino.

La distinzione fra proscenio e scena è funzionale alla dimensione temporale in cui si collocano gli eventi. Il proscenio – dove si trova il professore – delimita lo spazio del presente e rappresenta una prima cornice narrativa. La scena invece coincide con il secondo livello narrativo e si colloca nel passato. Queste due dimensioni a poco a poco si intrecciano, dando alla struttura drammaturgica un senso di liquidità. Alcuni ricordi “meno strutturati”, ma ugualmente vivi, sfrecciano nello spazio scenico: flash-back istantanei che si traducono in traiettorie fisiche. Un continuo va-e-vieni tra passato e presente.

Lo spettacolo diventa così un’originale riflessione sul tempo. E anche quando si avvale di un linguaggio in apparenza più distante, come quello della meccanica newtoniana o della genetica genomica, Balletto Civile riesce a essere evocativo. Michela Lucenti firma una coreografia molto emotiva, Maurizio Camilli regala una drammaturgia densa e allo stesso tempo leggera, in cui il principio di indeterminazione di Heisenberg o la legge di conservazione della massa assumono un’immanenza poetica e perdono qualsiasi rigore scientifico.

Persino la teoria dell’ereditarietà assume una nuova accezione. Là dove, lungo l’albero genealogico, di generazione in generazione il patrimonio genetico si perde, la trasmissione degli affetti tramite esperienze condivise diventa tanto più necessaria. Così quando nella coreografia finale, un gruppo di tredici anziani, seduti su delle sedie a rotelle, interpreta insieme ai tredici danzattori il Bolero di Ravel, si fa palpabile la tensione civile che anima tutto il lavoro.

Le creazioni di Balletto Civile si contraddistinguono per una ricca commistione di linguaggi performativi che rispecchia la convinzione circa le molteplici verità del corpo. Si tratta di un teatro fisico, molto empatico e dal forte impatto visivo. In How long is now i colori sono vivi, quasi saturi, a partire dal verde del prato che fa da sfondo emotivo; le soluzioni sceniche, nella semplicità dei materiali usati, sono originali (acqua e farina mosse da un ventilatore diventano pioggia e polvere). In alcuni punti la forza evocativa delle immagini viene però smorzata: al di là dell’azione principale, ci sono molte storie che si intrecciano senza sosta, alcune più sviluppate e facili da seguire, altre solo suggerite e forse meno inserite, quasi un pretesto all’azione coreutica. How long is now è comunque uno spettacolo riuscito perché coinvolgente e inclusivo, non solo per i suoi interpreti ma anche per il pubblico.