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venerdì, Marzo 29, 2024
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Rivoluzione e/o sua inattuabilità: Caspanello e i suoi quadri

unnamed-1MARIA PIA MONTEDURO | Cos’è una rivoluzione? Quando può dirsi compiuta? O quando, piuttosto, può essere dichiarata fallita? E quando fallisce una rivoluzione? E perché? Alcuni di questi interrogativi emergono dall’ultimo lavoro di Tino Caspanello (Teatro Pubblico Incanto) Quadri di una rivoluzione, andato in scena al Nuovo Teatro Sanità (spazio teatrale che si avvale della direzione artistica di Mario Gelardi), posizionato nell’omonimo quartiere napoletano, nella chiesa sconsacrata di San Vincenzo. Anche in questo caso, in definitiva si tratta di una rivoluzione: un quartiere – famoso, forse anzi famigerato – che cerca di “rinnegare se stesso”, di cambiare rotta, di operare una ri-evoluzione sul proprio cammino, per diventare un quartiere vivibile, dove anche i giovani possono sperare in un futuro. Senza un retorico “vogliamoci bene”, ma rimboccandosi le maniche e lavorando, seriamente e continuativamente. Creando lavoro, gestendo cooperative di servizio e culturali, cercando di far passare attraverso il teatro – non solo ovviamente, ma questo è di cui noi oggi parliamo – un approccio nuovo con la realtà. Anche disincantato, al limite, ma realistico e propositivo insieme. Il testo di Tino Caspanello si può leggere anche in questo senso. Un gruppo di sopravvissuti a una rivoluzione (totale, totalizzante, intransigente come dovrebbe essere ogni rivoluzione per essere definita tale) assistono allo sgretolarsi delle proprie illusioni, dei propri sogni e assistono, praticamente impotenti, al perpetrarsi del tradimento che verrà consumato fino all’annientamento fisico totale. Asserragliati in uno stadio (e anche qui il pensiero e la memoria corrono a tanti stadi legati a rivoluzioni), senza più nome, ma con solo un numero identificativo, i tre protagonisti (lo stesso Caspanello che cura anche la regia, Tino Calabrò, Francesco Biolchini, ben integrati tra loro), catturano, ma in realtà sono catturati, da una donna (Cinzia Muscolino, attrice dotata di un’energia interpretativa veramente notevole) che sarà poi il motore da cui si dipana tutta la demolizione di quest’ultimo baluardo di rivoluzione. Si susseguono flash narrativi, che in tema e in rimando alla composizione di Modest MusorgskijQuadri di un’esposizione, hanno come nome il titolo di opere d’arte celeberrime a cui sono legati (tra gli altri: La ronda di notte, La Pietà, Colazione sull’erba, La sposa messa a nudo dai suoi scapoli). L’impianto drammaturgico si evolve: da un registro inizialmente “leggero” e brillante, con un ritmo narrativo e interpretativo sostenuto, si modifica fino a rallentare a causa dell’incombere della svolta drammatica che la vicenda, e conseguentemente la recitazione degli attori, assume. Interessante la scelta della colonna sonora che scandisce gli stacchi tra un quadro e l’altro: un mix di varie edizioni, le più disparate, della canzone di Mackie Messer tratta dall’Opera da Tre soldi di Brecht-Weil. Anche il teatro brechtiano parla di rivoluzione e nemmeno lì tutte finiscono bene… Spettacolo che fa pensare, che pone interrogativi e che non ha l’arroganza di dare spiegazioni, ma si pone l’obiettivo di ragionare e far ragionare intorno a un concetto –appunto la rivoluzione – di cui si crede di sapere tutto, ma che invece ancora interroga e si interroga. Un stile teatrale non autoreferenziale, ma cogitativo e riflessivo, che usa anche la risata come snodo drammaturgico. Subito dopo le due repliche di Napoli, lo spettacolo è stato presentato a Parigi in occasione del Festival l’Europe desThéâtres a cura della Maison d’Europe ed d’Orient. Siamo di fronte ancora e sempre a un “Nemo profeta in patria”?

Giulia Lazzarini e Silvia Zoffoli, voci femminili contro il pregiudizio

giuliaVINCENZO SARDELLI | Il teatro e la fragilità. Sul palcoscenico la difficoltà di comunicare, di esprimere con autenticità la propria personalità. Muri e Amalia e basta, due spettacoli capaci di tradurre in reticoli d’immagini poetiche la realtà interiore di due personaggi alle prese con l’alienazione. Mariuccia e Amalia, monologhi, donne, solitudini. Che però si schiudono al mondo, e cercano un linguaggio per essere.

Il Renato Sarti migliore è quello che smussa le ruvidità ideologiche, supera la comicità pasticciata e si abbandona alla narrazione intimistica. Testi e regie come Goli Otok, Nome di battaglia Lia, Titanic. Oppure Muri, appena proposto al Giuditta Pasta di Saronno.

Muri – prima e dopo Basaglia. Un enorme parallelepipedo su fondo nero, un tavolinetto con teiera, un leggio, sono gli ingredienti scenici. Tra le note subliminali di Carlo Boccadoro, Giulia Lazzarini dà forma alla melodiosa parlata triestina di Mariuccia Giacomini, infermiera all’Ospedale Psichiatrico San Giovanni di Trieste. Nel 1971 Franco Basaglia ne diventò direttore. Fu un mutamento radicale. Scomparvero camicie di forza, docce fredde, psicofarmaci, elettroshock, lobotomia. Furono introdotti laboratori d’arte e teatroterapia.

In questo intenso reading teatrale prodotto dal Teatro della Cooperativa, Giulia-Mariuccia ripercorre trent’anni di vita in manicomio. Distingue le due fasi di cui Basaglia fu discrimine. Prima di lui l’ospedale psichiatrico si chiamava manicomio. Era la babele stigmatizzata da Alda Merini, i degenti espropriati d’ogni residuo di umanità. Dopo il 1971 si fece strada un nuovo approccio, capace di restituire ai malati dignità e storia personale. I pazienti ricominciarono a lavarsi, vestirsi bene, uscire. A riappropriarsi di vita e bellezza. Tornarono a sentirsi amati e ad amarsi.

Le luci gialle (di Claudio De Pace) evocanti la malattia, le atmosfere livide e disperate della prima parte ora diventano azzurro-mare. Il muro crolla, sprigiona l’identità dei tanti ricoverati: persone, non più semplici malati. Qualche deriva “agiografica” non sminuisce la riflessione su un’esperienza che, pur con qualche ombra, fece di Trieste un punto di svolta nella neuropsichiatria, in Italia e all’estero.

Amalia_004-copyAmalia. Entri in sala ed è già sul palco che ti aspetta. Ti attraversa la sua stessa ansia e vulnerabilità. Amalia e la sua umanità. Amalia ligia alle scarne regole del suo lavoro da addetta in un museo, secondo la mentalità comune, uno dei pochi adatti a una persona sorda.

Amalia e basta, testo, regia e interpretazione di Silvia Zoffoli (scene Leonardo Carrano,disegno luci Camilla Piccioni, costumi Maria Grazia Lasagna Mancini, strutture scenografiche Carlo e Roberto Zoffoli, assistente alla regia Ilaria Montagna) di recente alla Sala Fontana di Milano e al Miela di Trieste, non è tanto uno spettacolo sulla sordità e in generale sulla disabilità. È piuttosto una meditazione sulle tante fragilità che ci percorrono. Un lavoro delicatamente coinvolgente dalla scenografia naif: tre pannelli mobili come quadri, porte, paraventi, lavagne. Pochi rumori essenziali. Niente musica. Una luce diffusa dosata. Dominano i colori primari: la sordità ti trascina in un mondo surreale che potenzia gli altri sensi.

Amalia lavora da hostess in un museo. Ma studia arte, dipinge, legge. Vive di ricordi e sogna l’amore. Guarda a una felicità da conquistare. Silvia Zoffoli ci accompagna nel percorso di una donna, nelle sue contraddizioni. Da una parte l’affrancamento dalla famiglia, i primi amori, il desiderio di nuove esperienze. Dall’altra l’avvenire incerto, il disorientamento verso le proprie stesse emozioni.

Si dipana un romanzo di formazione. Equilibri precari sono cornice a una gestualità solenne. La voce sgraziata da “oralista” (cioè da lettrice delle labbra, capace a propria volta di parlare) rivela un’intensità straniante, sottolineata dai grandi movimenti della bocca. Amalia turbata, senza patria. Né multisensoriale né sorda in senso stretto, poiché affianca al linguaggio dei segni quello appunto da oralista.

Uno spettacolo empatico, ben scritto. Capace di rendere le pieghe dell’anima di una persona che si scontra quotidianamente con pregiudizi e ostilità, ma sa anche contare sulle proprie forze, su tanti affetti, per ripartire di slancio.

Paranza: in processione per riscattarsi dal disagio

unnamedLAURA NOVELLI | “Io sono / Madonna di saette maestose / E di palcoscenici d’argento /Madre di rugiada mattutina / Io raccolgo lacrime / Dal cielo / E le verso sulla terra […]”. Si apre così il canto, insieme aulico e carnale, che Germana Mastropasqua intona nell’inizio dello spettacolo Paranza – Il miracolo. Vestita con i colori accesi di un dipinto  rinascimentale, una corona di luci intermittenti sulla testa (perché ad intermittenza funziona la vita stessa degli uomini), è lei la voce chiamata ad accompagnare questo viaggio nelle preghiere impossibili dell’oggi. Ad evocare trascendenze terrene che possiedono la sacralità dei valori infranti, dei sentimenti traditi, delle illusioni bruciate, della disperazione affrontata con dignitoso coraggio. E’ lei che introduce e chiude la materia estremamente originale e cocente di questo pregevole lavoro ideato da Clara Gebbia, Enrico Roccaforte (entrambi registi), Katia Ippaso (autrice della drammaturgia e delle liriche) e Antonella Talamonti (cui si devono le musiche originali e la direzione musicale), dove si fondono suggestioni e registri espressivi molto diversi tra loro al fine di creare una sorta di operina barocca che accosta con estrema naturalezza parole e canzoni eseguite dal vivo, e che racconta i santi, i martiri, i fragili del nostro mondo per immaginarli in cammino verso un possibile riscatto o – almeno – verso una visione, un’illusione di riscatto.

Motivo per cui assume proprio la forma di una processione laica, con tanto di catafalco (a cura di Kallipigia Architetti) e di stazioni da Via Crucis, la tessitura drammaturgica in cui l’autrice, ispirandosi anche a storie di cronaca, incrocia le esistenze amare di quattro creature disperate: una cantante che vende la sua voce per sbarcare il lunario (la Mastropasqua); una terremotata che ha perso tutto (arrivano echi del disastro dell’Aquila) e che, nella scatola di cartone in cui si è ridotta a vivere, parla con le piante per non impazzire (Alessandra Roca); una senzatetto non più giovane e malata che sembra farsi carico di una follia delirante ma lucida all’interno della quale inscatola il suo passato di ricoveri, dolori,  tragedie personali (Nené Barini); un manager ormai disoccupato che rifiuta con veemenza la sua nuova condizione di povero e di padre separato (Filippo Luna).

Sono tutti e quattro calati in uno spazio inizialmente sospeso, beckettiano, che si fa però sempre più connotato via via che la loro parabola prende corpo: si incontrano, si uniscono, cantano insieme, trasportano un’insegna votiva stilizzata ma pensante (e mi torna in mente qualche passaggio de L’arrobbafumu di Francesco Suriano). La  sollevano da terra con coreografica energia andando in processione alla Madonna Dell’Arco di Napoli, e questo pellegrinaggio diventa l’occasione per riconoscersi, per raccontarsi, per sperare. Per credere in un miracolo. Un po’ come ci crede Gelsomina ne La strada. Un po’ con quella santità laica di certi personaggi di Tarantino o di Testori. Un po’ con il candore disarmante del protagonista di Miracolo a Milano. Non somiglia forse il suo sogno di un paese in cui “buongiorno voglia dire davvero buongiorno” al mondo cantato in Libera nos a malo? Un mondo trasfigurato giocoforza in preghiera: “Libera nos a malo/ Liberaci dalla bruttezza/ Liberaci dal crimine/ liberaci dal sangue/ facci bianco il sangue/ bianco bianco / pulito pulito / che è quasi differito / il dolore / chi ha ucciso ha ucciso / amen”.

Lo spettacolo è coprodotto dal Teatro Biondo di Palermo e dal Teatro di Roma insieme con Teatro Iaia / Compagnia Umane Risorse; dopo il debutto palermitano è stato in cartellone al teatro India di Roma e approderà presto a Milano (15 e 17 maggio, teatro dell’Elfo) e a Budapest. Ne abbiamo parlato con Katia Ippaso, autrice del testo e delle liriche che qui mette in gioco tutte le sue passioni (il giornalismo, la critica teatrale, la poesia, la narrativa, la drammaturgia) sperimentando per la prima volta la scrittura di testi per la musica.

Come è nato il progetto “Paranza – Il miracolo” e come è avvenuto l’incontro tra te e la compagnia Umane Risorse?

“La compagnia riunisce artisti che insieme avevano già realizzato Il Rosario, un’opera di teatro e musica liberamente ispirata a Federico De Roberto e dunque ad un testo classico. Con questo nuovo lavoro invece si è sentito il bisogno di misurarsi con i temi del contemporaneo. Clara Gebbia ed Enrico Roccaforte avevano letto sia il mio romanzo sia Doll is mine (primo passo di una trilogia teatrale sul Giappone attualmente in fase di ulteriore elaborazione, ndr), hanno pensato che la mia scrittura si adattasse alle loro visioni e così mi hanno chiamata per questa seconda esperienza collettiva”.

Rispetto alla prima versione che ha vinto il Festival “I Teatri del Sacro” nel 2013, cosa è cambiato nel lavoro?

“Lo spettacolo presentato a Teatri del Sacro aveva essenzialmente la forma di concerto; era molto ieratico e astratto. Da allora c’è stata una netta evoluzione. Abbiamo lavorato per passaggi processuali, abbiamo aggiunto pezzi di lingua, di drammaturgia, e gli attori hanno tutti contribuito a questa continua trasformazione. Grazie all’importante coproduzione che ci sostiene, abbiamo potuto completare il progetto e debuttare a Palermo, ma devo riconoscere che per noi il debutto ufficiale è stato quello romano. Il lavoro ha finalmente preso forma piena anche se, trattandosi di una scrittura in vita, ogni giorno cambia e si evolve”.

Puoi raccontarci come hai affrontato il tuo duplice intervento autoriale? 

“Ovviamente ho lavorato su due registri notevolmente diversi: da una parte, i testi delle canzoni e, dall’altro, la drammaturgia vera e propria. La sinergia tra me e Antonella Talamonti è stata splendida: lei mi mandava la musica e io scrivevo i versi. Versi che sono rimasti intatti nella messa in scena. Sin da subito, note e parole si sono sposate benissimo e si è trattato di un incontro molto bello. Parallelamente ho lavorato sulla partitura drammaturgica costruendo personaggi, scrivendo dialoghi che poi, come già detto, gli attori hanno modificato e adattato a sé. Alcune voci del testo fanno riferimento alla cronaca; ad esempio, cito il caso sconvolgente dei tre anziani di Civitanova Marche (due coniugi pensionati e il fratello della donna) che si sono suicidati per dignità, perché non potevano più pagare le spese. Ci sono riferimenti a storie vere di fragilità sociale, a storie di ordinaria barbarie”.

Di quali letture nutri principalmente la tua scrittura , le tue visioni?

“La mia scrittura è sostanzialmente lirica e infatti amo molto la poesia. Un’opera che non mi abbandona mai e che mi risuona dentro costantemente è La Terra Desolata di Thomas Eliott. Non aspiro certo a un confronto, ci mancherebbe. Voglio semplicemente dire che certe suggestioni, certe immagini, certe parole mi accompagnano sempre quando cerco di trovare quell’equilibrio tra alto e basso, elegia e concretezza, su cui penso si radichi il mio stile. E in fondo la cifra stessa di Paranza, la caratteristica precipua della sua materia musicale, della sua lingua più autentica sta proprio in questa commistione di cultura alta e cultura popolare. Una bella sfida”.

Il teatro: un sarto che ha occhio. Intervista ad Alessandro Argnani delle Albe

mostraimg.phpALESSANDRA CORETTI | Perfettamente a suo agio sul palcoscenico, Alessandro Argnani – unico protagonista de Il Giocatore – ha riproposto di recente a Matera la pièce incentrata sulla straziante dipendenza che muove dal gioco d’azzardo. Il problema, scucito dai pesanti risvolti di piaga sociale cui è spesso relegato, viene attraversato nella sua essenza più intima: forma alienante di degrado umano. Varie riflessioni ruotano attorno allo spettacolo, la più immediata è legata al senso di vuoto che il genere umano tenta di annientare con pratiche bulimiche autodistruttive, come l’assuefazione da slot machine insegna. Questo il magma di inquietudine restituito al pubblico del teatro Comunale, chiamato in causa nel disegno scenico – a firma di Ermanna Montanari – con un gioco di specchi molto efficace che invita lo spettatore a fare i conti con una moltitudine di sé.

Il passaggio di Argnani nella Capitale europea della cultura 2019 è stato ulteriormente valorizzato, dall’incontro con alcuni gruppi di teatro locali, nel cui lavoro, l’attore, ha riconosciuto affinità di intenti, ambendo a lasciare tracce della non-scuola anche sul territorio lucano. Interessante incontrare Argnani, già incrociato alcuni anni fa a Santarcangelo in Eresia della Felicità e ora nel pieno della sua maturità professionale. L’artista si avvicina al teatro giovanissimo entrando con  I Polacchi (1998) a far parte delle Albe; torna in scena nel Tingeltangel (2000), L’isola di Alcina (2001), Baldus (2001), è premio Ubu nel 2005 come miglior attore under 30 e l’elenco di collaborazioni e riconoscimenti potrebbe continuare; ammette però di essere stato, innanzitutto, folgorato dal teatro (Martinelli docet).

Il Giocatore è uno spettacolo sul gioco d’azzardo privo di una rilettura sociale del problema, ma dai toni inquietanti. Come si lavora per creare una performance basata sulla trasmissioni di sensazioni e non didattica? 

Marco Martinelli, autore del testo (ideato insieme ad Ermanna Montanari come Teatro delle Albe), ha incontrato tantissimi giocatori che hanno raccontato le loro storie di vita distrutte da questa piaga tremenda legalizzata dallo Stato. Credo che Marco abbia la capacità di ascoltare davvero le persone che incontra senza doppi fini, cercando di far diventare queste vite deturpate, bellezza da condividere ovvero teatro. Il teatro è qualcosa che nella forma più grande è capace di lacerarti e aprirti nuovi mondi in cui guardare. A me non piace il teatro che intende dare delle risposte. A teatro non si va a cercare delle risposte, ma per provare a crescere in comunità nell’incontro tra chi recita e chi ascolta, in un luogo per noi importantissimo. Il teatro deve riprendere la sua importanza e i teatranti hanno questa responsabilità: pensare un teatro che abbia voglia di dialogare o di scontrarsi con chi assiste.

Nel monologo hai dato prova di grande presenza scenica, potresti raccontarmi della tua formazione attoriale? 

Io sono cresciuto “a bottega” con il Teatro delle Albe, a diciassette anni ho incontrato la non-scuola e Marco Martinelli ammalandomi letteralmente di teatro. La grande fortuna è stata crescere e confrontarmi con dei grandi maestri come Marco ed Ermanna, la cui ricerca artistica intreccia etica ed estetica. La mia formazione è instancabile e si nutre anche di sguardi verso altre forme d’arte, il lavoro dell’attore è anche guardare, veder-fare teatro, lasciarsi contaminare, non smettere di confrontarsi.

Lo spettacolo è stato inserito nella sezione Ri-pensamenti Il Teatro per il sociale. Una domanda che faccio spesso: al di là delle definizioni precostituite, se volessimo immaginare un teatro che abbia davvero un impatto sulla società odierna cosa secondo te dovrebbe avere?

Credo che il teatro dove raggiunga i suoi livelli, non massimi, ma di massima serietà abbia a che fare per forza con la società. Noi da anni portiamo avanti, parallelamente alla produzione di spettacoli, anche un percorso di pedagogia teatrale anti-accademica con la non-scuola, partiamo dal presupposto che il teatro non si insegni, portiamo gli adolescenti a giocare al teatro. Il teatro è qualcosa di bello e liberatorio. Il teatro è vita, è un concerto rock, è una partita di calcio. La responsabilità che questo significato arrivi è di chi il teatro lo fa, lo ospita e lo racconta; si ha bisogno di un teatro vivo che anche sbagliando, facendo lavori fragili, esteticamente non perfetti, abbia voglia di rivendicare la sua centralità. Si necessità di nuovo entusiasmo come quello di Reteteatro41 con cui stiamo immaginando un possibile percorso di non-scuola.

Come nasce questo gemellaggio con Reteteatro41?

Il progetto lo stiamo costruendo ora. Per noi del Teatro delle Albe la non-scuola è anche un modo di creare ponti tra luoghi diversi. Due cose fondamentali vorrei precisare: non vogliamo venire in Basilicata e imporre una modalità di lavoro, il progetto partirà solo se Reteteatro41 e il Consorzio Teatri Uniti dimostrino di avere realmente voglia di lavorare insieme nella logica di crescita reciproca.

Vieni da Ravenna, altra città candidata a Capitale europea della cultura 2019 supportata da una politica culturale fortissima, cosa pensi della vittoria di Matera?

Onestamente credo che Matera abbia meritato il titolo. Ravenna ha da sempre una politica culturale importante che ha permesso di raggiungere col tempo livelli davvero alti, esiste ad esempio il modello delle convenzioni, quindi la cultura non si appalta ma si affida a chi il teatro lo fa veramente, il Teatro delle Albe ne è un esempio. Il percorso di candidatura è stato utile per noi per mettere in rete le energie locali. Matera ha meritato di vincere il titolo perché ha saputo essere visionaria, ha messo in piedi una squadra molto forte in grado di dialogare con le forze locali.

Farneto Teatro: il lavoro in Italia dalla A alla Zeta

570-buonlavoroVINCENZO SARDELLI | Un report teatrale dal mondo del lavoro. Un’opera che parte dalle testimonianze dirette e diventa sociologia e denuncia, sguardo sull’occupazione che si allarga alla vita e al futuro. Buon lavoro, opera teatrale aperta, progetto di Elisabetta Vergani e Maurizio Schmidt, appena andato in scena al Verdi di Milano, nasce da una ricerca che ha portato Farneto Teatro a incontrare lavoratori e lavoratrici di diverse parti d’Italia per raccogliere storie, opinioni, esperienze sul mondo del lavoro.

Si può fare teatro civile con garbo. Si possono raccontare realtà assillanti coniugando indagine e arte, cronaca e poesia. Lontano da quella demagogia che uno si aspetterebbe dal coinvolgimento nell’iniziativa di un sindacato potente come la Cgil. Vergani e Schmidt (anche, rispettivamente, interprete e regista) danno voce alle tante contraddizioni legate all’occupazione: quella dei giovani o delle donne; le differenti storie di lavoro stabile, precario, sommerso o inesistente; l’impatto sulla qualità della vita e sul futuro.

Buon lavoro è un’opera in costante rielaborazione. Perché il lavoro continua a trasformarsi, come le leggi che ne regolano il mercato. Per esempio il Jobs act. Duecento ore d’interviste sono condensate in due ore di spettacolo. Penseresti alla solita pappardella impegnata e tediosa, documentata ma grigia. Invece questo spettacolo è pieno di colori ed emozioni.

La cronaca si fa letteratura senza interpolazioni fantasiose. Bravi gli attori (Lorenzo Frediani, Marta Lunetta, Giuseppe Palasciano, Emilia Scarpati Fanetti, Silvia Valsesia, Elisabetta Vergani) a dare spessore a vicende dolorosamente umane, da essi stessi raccolte in prima persona.

Gli espedienti scenici sono minimi. Due schermi, su cui proiettare immagini e didascalie. La suggestione di qualche ombra cinese. Maxi bobine, che ruotano sul palco, componendo varie architetture. Le storie si dipanano sotto le note di Giulia Bertasi: sonorità antiche e moderne dal vivo alla fisarmonica o alla tastiera; musiche di strada, tradizionali, melodrammatiche, che dilatano il ritmo narrativo.

Teatro civile e teatro popolare. Una citazione da Gaber. Si parte dall’utopia illuminata di Camillo Olivetti. Si arriva all’attualissimo precariato dell’operaio, dell’insegnante, della giornalista. Decenni di battaglie sindacali, di scioperi operai, di rivendicazioni sessantottesche, spazzate vie dalla crisi e dai politici ottusi, da imprenditori assassini o da caporali senza scrupoli. Ecco gli effluvi letali dell’Ilva di Taranto, le morti per mesotelioma di Casal Monferrato. Esempi di dignità e orgoglio, come Romana Blasotti Pavesi, nonna casalese vedova dell’amianto. Ha perso marito, sorella, nipote, cugina, figlia: quel che resta di una vita, spesa per la giustizia.

Storie tra passione e ironia; quelle delle Marie del Sulcis, o dei braccianti di Castelnuovo Scrivia. La vicenda di Monica, assunta a termine per il controllo qualità e licenziata dopo un incidente sul lavoro. La chiusura delle acciaierie di Piombino. Storie d’alienazione e ingiustizia, che ci riportano agli albori della rivoluzione industriale, a un lavoro senza diritti né tutele. Storie senza piagnistei, lontane dalla violenza grossolana di certo teatro politicizzato.

Uno spettacolo zeppo d’immagini, oggetti, odori: tangibili eppure inesistenti sul palco. Gli attori entrano nell’anima delle persone che rappresentano: accenti lombardi, siciliani, veneti, sardi, piemontesi, pugliesi.

Nulla di troppo. Non c’è gesto che non sia finalizzato ad accompagnare le parole. Non c’è movimento che non richiami un’immagine precisa e pulita. I toni d’implicita accusa a un’Italia «Repubblica fondata sul lavoro» solo sulla carta, sfumano tra leggerezza e sorrisi. Un affresco vivido di teatro civile, nel solco dei vari Paolini, Curino, Celestini e Pesce. Artigianale, forse non così originale. Capace però di unire documentazione e narrazione. Senza derive ideologiche. Senza soprattutto rinunciare all’arte.

Blue Bird: Spagnulo, Lanera e Signorile fanno rivivere Bukowski

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ph Antonio Cagnetta

RENZO FRANCABANDERA | Blue Bird Bukowski è una drammaturgia di Riccardo Spagnulo ispirata alla figura del noto e trasgressivo poeta americano della beat generation morto vent’anni fa, diretta da Licia Lanera per il Teatro Abeliano di Bari, da poco diventato TRIC (in partnership con il Kismet).
I due giovani ma ormai affermati artisti, il cui sodalizio Fibre Parallele è uno dei maggiori esiti del teatro pugliese dell’ultimo decennio, lavorano qui non con il loro marchio di fabbrica, ma su una commissione che li vede replicare quella sempre fascinosa sfida di scrivere un nuovo testo e dirigerlo, affidandolo all’attore da sempre vicino alla tradizione della cultura popolare, spesso dialettale, e comunque da anni impegnato nella proposta teatrale farsesca e di commedia leggera, Vito Signorile, fondatore ed emblema del Teatro Abeliano di Bari, per trarne la meno frequentata corda tragica.

La drammaturgia: in una stanza obitoriale, un’infermiera (Mary Dipace) prepara la salma di un uomo (entrambi in scena all’arrivo del pubblico in sala) che giace sulla barella. La finzione teatrale riporta presto in vita il poeta estinto, in una trama che si basa su un gioco di doppio conflitto: il primo è quello che vede l’uomo imprigionare la donna nella stanza durante il suo turno di lavoro, il secondo è ovviamente quello di maggior respiro e struttura per l’evolvere del plot narrativo, che contrappone la vita dannata ed estrema di Bukowski alla noiosa ordinarietà della figura dell’infermiera, il cui tratto caratteriale è scorbutico e sguaiato. Due personalità solo apparentemente forti e la cui contrapposizione si lenirà pian piano in un avvicinamento, sulle note della fragilità umana. Più sbalzata, come immaginabile, la figura di Bukowski, la cui risoluzione ai fini scenici appare più definita di quella della sua complice-antagonista.

Blue Bird Bukowski_Abeliano_ph Antonio Cagnetta
ph Antonio Cagnetta

Lo spettacolo: Michele Iannone ambienta la vicenda in un angolo di stanza obitoriale spoglia. Oltre ad una porta che comunica con l’esterno sul lato diagonale convergente sinistro, due finestre sul lato opposto in alto, una barella e un piccolo comodino poggiaoggetti da ospedale con un cestino a fianco. All’inizio la barella è centrale, quasi a segnare l’altezza che dal vertice di scena cade verso il pubblico, e su cui giace il corpo del poeta. Nel seguito gli spostamenti della barella saranno funzionali alla creazione di ambienti e segneranno la partizione del testo.
Lanera sceglie per i suoi attori una recitazione capace di incorporare con naturalezza il registro anche poetico. Il duo di interpreti è affidato ad una coppia la cui logica di giustapposizione è sicuramente quella di amplificare le scelte sull’allestimento, affiancando alle atopicità di Signorile, quelle della Dipace, il cui trascorso attorale e laboratoriale l’ha portata più di frequente sul campo del teatro per ragazzi. Signorile nell’ora circa di pièce riesce a regalare una prova di particolare generosità, sbalzando una figura il cui dialogo con la vita in prossimità della morte, fra poesia, sesso e desiderio, si segnala per intensità spesso fastidiosa e morbosa, ma anche per un’inspiegabile fragile dolcezza che l’attore riesce a disegnare, cercando di spostare la cifra cromatica della sua paletta recitativa più praticata. L’operazione riesce in minor misura alla Dipace, attrice più dello stare in scena che di parola, complice anche una certa fragilità drammaturgica sul personaggio. La sua prova cresce nello spettacolo proprio perché nella seconda mezz’ora le viene affidato un compito legato maggiormente alla presenza, alla dinamica, all’emotività fisica e gestuale. Nella prima parte, ci pare di poter dire che il compito dell’interprete (ma anche della drammaturgia sul personaggio e della regia) abbia margini di crescita.
Si distingue nell’allestimento il disegno luci dell’artista dello sguardo Vincent Longuemare, una sorta di regia nella regia. Su questo elemento vale la pena spendere qualche riga, anche per come questo aspetto finisce per disegnare ambienti ulteriori sia scenici che emotivi. In particolare, Longuemare sceglie un’illuminazione interna al triangolo scenico con tonalità di verde ospedale, per esser chiari, mentre dalle due finestre in alto a destra fa filtrare una controluce arancione, quasi a rendere immaginabile l’inferno, ma visto dal limbo della pre-morte.
Blue Bird Bukowski _foto CagnettaVengono poi sistemati alcuni puntatori di particolare carica evocativa, come la luce fioca che per quasi tutto lo spettacolo illumina il piccolo vano poggia oggetti a destra della scena, e le luci sagomate che seguono la barella nei suoi spostamenti, creando di volta in volta luoghi emotivi, come i bellissimi fari orizzontali che in più di qualche momento dello spettacolo sfruttano le superfici oblique per proiettarvi ombre gigantesche delle due figure. Se la luce riesce ad assegnare significati e poetiche aggiuntive allo spazio, forse meno appuntito risulta il dialogo con il supporto sonoro, pur bello ed evocativo, di cui in alcuni tratti risulta però insistita l’apposizione didascalica a sostegno dei momenti di maggior pathos (più volte riproposta la traccia “Esteban, mi hijo” di Alberto Iglesias, che si ricorderà nella colonna sonora di “Tutto su mia madre” di Almodovar).

Davide Iodice e il verso dell’ attore, animale da palcoscenico

VALENTINA SORTE|mangiare_bere_iodiceIl secondo capitolo con cui Teatro i celebra i suoi dieci anni di attività in via Gaudenzio Ferrari – Nemo est senex – ha come parola d’ordine “contaminazione”. Sicuramente quella anagrafica: le diverse generazioni convocate al civico 11 eludono gerarchie univoche e tentano dei rizomi. Nuove arborescenze. Genealogie altre: radiali. Degenerazioni (proprio come il nome dato al ciclo di incontri che accompagna la stagione) che sono in realtà rigenerazioni. Ecco allora smarcata la senilità a cui allude il titolo. Ma per le compagnie si tratta in primis di una contaminazione di linguaggi e poetiche, alla ricerca del proprio modo di abitare lo spazio scenico. Lontano da etichette o delimitazioni pronte all’uso. Non è un caso che Teatro i sconfini e cerchi per questa stagione nuove dislocazioni nel quartiere: altri moduli “abitativi”, altri innesti performativi.

Dalla botanica all’etologia il passo è breve. Dall’etologia alla danza pure. Lo sconfinamento è fatto. Di nuovo. Il terzo appuntamento di Nemo est senexMangiare e bere. Letame e morte di Davide Iodice – oltre a riprendere esplicitamente alcuni versi dei Quattro quartetti di T.S. Eliot, tenta soprattutto in scena la poesia. Si tratta di una performance molto fisica perché è proprio nelle diverse fisicità di Alessandra Fabbri che si traduce lo slittamento dell’io in una pluralità di soggetti. La prospettiva assunta dalla performer non è mai univoca, ma passa continuamente da quella personale a quella animale, e viceversa. In questo fitto scambio si consuma però una sintesi, in cui l’uomo rivela la sua animalità e l’animale rivela l’umano.

L’enunciazione e l’uso dello spazio vanno infatti di pari passo. In questo senso, la frontalità con cui si apre la performance è quella della prima persona singolare e della narrazione – Alessandra racconta della morte del suo pappagallino e di come la sua compagna gli sia sopravvissuta. La logica frontale dello spazio diventa però sempre più vettoriale (lungo linee oblique e orizzontali) e l’enunciazione più impersonale. La scena si popola di fisicità animali (il gatto, le anatre, la foca etc.) e l’attore finisce per diventare l’animale da palcoscenico, trasformando progressivamente gli 8mx8m in un perimetro circolare. Una pista concentrica.

Il rischio di cadere nell’autoreferenzialità e di rimanerci è forte ma questa riflessione sui nostri bisogni essenziali, sull’attorialità e sull’animalità ha il pregio di aprire e chiudere continuamente delle porte – fuori – nonostante lo spazio in cui si muove si restringa sempre di più. Aprire e chiudere questi squarci significa passare dal registro della riconoscibilità a quello dell’irriconoscibilità – delle forme e di se stessi – e viceversa. Senza sosta. Ed è proprio in questo transito che sta la bellezza. Lo specchio usato in scena per aiutare la pappagallina a superare la mancanza del compagno diventa allora il correlativo oggettivo del performer e dello spettatore, che nell’immagine riflessa in scena cercano di riconoscersi o di disconoscersi. L’agnizione in ciò che extra-ordinario. Un po’ come Joel Peter Witkin, Davide Iodice insiste molto sulla fragilità e sulla forza della deformità, esplorando i limiti di genere fra uomo/donna o uomo/animale, forzando quelli fra pubblico/privato, violando le proporzioni anatomiche. Ecco allora bellissima e sempre elegante Alessandra, mentre nuda – sulle punte di raso o non – modella il suo corpo con un pene d’argilla o il viso con le piume. Oppure mentre convoca e viola l’intimità dei suoi affetti attraverso una conversazione telefonica dal vivo. Mentre deforma il viso con la biacca o un naso posticcio.

Questa oscillazione e il continuo sconfinamento dei limiti sono ripetuti anche nell’uso della voce-off. In scena si alternano infatti sequenze parlate e sequenze registrate (fuori campo). La registrazione emotiva di biografie e visioni private che tanto caratterizza il lavoro di Iodice diventa qui fonica e oltre a valere come testimonianza personale (quella di Alessandra), diventa elemento drammaturgico, proprio nel tentativo di superarla. In e off.

È tutta una questione di misura anche quando si rifuggono le misure. Ed è facile eccedere nell’eccesso. Lo spettacolo tiene quasi sempre, persino quando rievoca un “mostro” da palcoscenico come Martha Graham. È pieno di dis-grazia e fragilità. Risulta un po’ debole solo in un’occasione, quando il potenziale di un’immagine (il guinzaglio elastico al collo della performer) si rovescia e muore nella sua ridondanza. Ma per breve. Il finale infatti riapre velocemente il cerchio e fa entrare (letteralmente) lo spettatore in scena.

Primo Levi nel quadrato del campo

ELENA SCOLARI | primo-jacob-olesenLa gelida concretezza di un fatto detto, non “raccontato”. Questa è la forza severa di Primo, con Jacob Olesen, tratto da “Se questo è un uomo”, per la regia di Giovanni Calò.

Lo spettacolo alterna le parti di narrazione libera a brevi letture di brani del libro, e inizialmente lo stile interpretativo di Olesen sembra troppo distaccato, quasi non si distingue la lettura dalla recitazione, sembra che tutto proceda in modo squisitamente descrittivo, chirurgico per tanta precisione espositiva. Anche i movimenti dell’attore sono precisi, calcolati, innaturali per eccesso di geometria. Ma man mano che ascoltiamo cosa viene detto (e non “raccontato”, si badi bene) capiamo che questa scelta registica si attaglia perfettamente allo stile di Levi: come la sua scrittura non indulge mai in retorica, così la recitazione rimane pulita, quasi completamente priva di accenti emotivi. E’ l’unico modo perché lo spettatore possa sopportare il peso inumano di sentir “dire” con compìta dovizia le cronache di ciò che è accaduto in un campo di concentramento nazista. Olesen resta sempre sopeso sulla fune, sentiamo la sua tensione, sentiamo continuamente che potrebbe precipitare se si lasciasse andare a “sentire” il significato di ciò che sta dicendo. E così crolleremmo noi, schiacciati dall’ascolto di azioni di una crudeltà inimmaginabile, gesti talmente umilianti che sarebbero da non credere se non sapessimo che invece la dolorosa fatica di Primo Levi è stata proprio quella di ripercorrere con le parole scritte l’inferno al quale era sopravvissuto perché anche noi lo conoscessimo. Perché tutti conoscessero.

Lo spettacolo è semplice, in scena solo una sedia, uno sgabello e alcune quinte dipinte di colori tendenti al marrone bruciato, astratte, un po’ piatte. Una componente non caratterizzante ma coerente con l’idea che l’unico punto su cui tenere il fuoco sia il testo. Infatti anche gli abiti dell’attore sono neutri: camicia grigia e pantaloni scuri.
Niente può distrarre dai contenuti tratti dal libro di Levi, l’adattamento teatrale è un estratto, eppure già sovraccarico di durezza.
L’unico elemento che si accompagna allo stile recitativo che abbiamo descritto sono i movimenti di Olesen sul palco, sottolineati da repentini cambi di luci: il narratore si muove quasi sempre percorrendo a passi decisi segmenti, rettilinei, in forma di quadrato. Così come i gerarchi facevano disporre i prigionieri nei campi, in forma di quadrato. Spigoloso. “Inquadrati” come un’unica entità ordinata secondo una geometria obbligata, obbligata come tutti i gesti e le attività all’interno dei lager.
Quadrati continui, angoli, tabelle, orari, elenchi, attese inutili e sadiche, tutto era meticolosamente regolato, senza il minimo spazio per una curva, per un imprevisto, per gli arabeschi vitali che rendono gli esseri persone, perché lì dentro le persone sparivano. Letteralmente, sì, ma sparivano anche prima di essere fisicamente uccise, sparivano per magrezza e sparivano per furto d’anima. Defraudati di ogni segno distintivo di umanità.

Ci accorgiamo di quanto sia colta, ricca, la lingua di Levi (forse non sempre facile quando il pubblico è composto di studenti), bellissimo il frammento in cui un prigioniero italiano racconta il canto di Ulisse della Divina Commedia ad un compagno mentre trasportano il pesante pentolone del rancio attraverso il campo. E’ commovente la cura con cui l’autore parla delle persone (sì, persone) che ha incontrato nel campo, dedica loro un’attenzione infinita, amorevole, per non tralasciare nulla di tutto ciò che rende un uomo diverso da un altro. Sceglie gli aggettivi con grande precisione, si sente l’affetto, il sentimento che si aggrappa ad un tono di voce, alla fisionomia di un volto, alla forma di una mano, perché questi sono unici.

La regia decisa e pulita di Calò fa emergere discretamente ma con forza inequivocabile l’orrore che ascoltiamo e la distanza forzata nell’interpretazione di Olesen rende tangibile il senso tragico delle parole di Levi. Possiamo soltanto osservare che una leggera riduzione della durata potrebbe alleggerire il compito “emotivo” dello spettatore. Che altrimenti rischia di cadere dalla fune.

Viaggio sentimentale in Cechov: Macelleria Ettore incontra Renzo Rubino

macelleriaVINCENZO SARDELLI | «Quel che proviamo quando siamo innamorati è forse la nostra condizione normale. L’amore mostra quale dovrebbe essere l’uomo».

In Sapevo esattamente cosa fosse l’amore prima d’innamorarmi, presentato al Teatro Litta di Milano nell’ambito della rassegna Apache, Macelleria Ettore continua il viaggio nella poetica di Anton Cechov. Siamo alla terza tappa di un progetto sullo scrittore e drammaturgo russo (terminerà con Il giardino dei ciliegi) che ha già sondato i temi delle relazioni (Nostalgia del presente) e della salute (Malattia della vita).

Qui siamo all’amore, sentimento tortuoso declinato in molteplici chiaroscuri. La regista Carmen Giordano risponde “in cirillico” alla domanda che Dante rivolse a Francesca da Rimini: «al tempo dei dolci sospiri, / a che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri?». Ne nasce una partitura asciutta ed evocativa, che rielabora i testi di Cechov in una composizione originale.

E’ “solo” uno studio. Eppure i quattro attori sulla scena (Claudia De Candia, Stefano Pietro Detassis, Maura Pettorruso e Angelo Romagnoli) danno vita a un viaggio sentimentale capace di affascinare. Sono schegge che rivelano contraddizioni e ambiguità, stati emotivi, incontri mancati, storie sfilacciate. Amori gretti, conformisti, puritani, morbosi o senza nerbo. Amori evanescenti o pieni di carica progettuale. Etici e spirituali. Intensi e passionali. Sono trame di parole e silenzi, sguardi, gesti di mani lievi. Ogni tanto questi amori s’intrecciano agli affetti familiari, anch’essi contraddittori, tra dedizione e ricatto.

Il titolo è paradossale. Non sappiamo niente dell’amore finché non ci innamoriamo. Forse ne ignoriamo l’identità anche dopo averlo attraversato: una, dieci, cento volte.

Cechov sembra aggiungere una nota pessimistica all’amore secondo Tolstoj. Macelleria Ettore, tra dialoghi, crocchi e soliloqui, rappresenta la progressiva irrimediabile perdita di nessi tra i vari frammenti dell’esistenza. Necessariamente ambigue sono pertanto le risposte che nel corso del 75 minuti dello spettacolo risuonano nello spettatore. Che si domanda perché gli amori finiscano.

Qui non c’è nessuna aprioristica spartizione tra comportamenti positivi e negativi. L’amore è un capriccio d’alterna fortuna. Non c’è colpa né innocenza, semplicemente perché l’amore non ha volontà. E allora non scorgiamo mai esasperazione nei protagonisti, né urla, né violenza. Neppure di fronte al tradimento, al sentimento che declina e si perde.

La regia stempera le tensioni anche grazie all’accompagnamento musicale dal vivo di Renzo Rubino, Premio della Critica a Sanremo 2013. Rubino, pianoforte e pianino, interagisce con note avvolgenti. Ora rarefatta, ora sostenuta e serrata, questa musica viaggia nel subconscio umano con una vena sottesa d’ironia. Sembra il commento di un film muto. Invece è complemento essenziale di una partitura drammaturgica tra comico e tragico: è armonia d’incontri, attimi, parole.

Le luci di Alice Colla sono delicate, mai invasive. Il disegno luminoso sostanzialmente fermo intende assorbire il flusso ininterrotto di situazioni grottesche all’apparenza contraddittorie. Sono luci che tendono a non sottolineare la psicologia dei personaggi. Per la quale basta l’icastica interpretazione degli attori. E una regia che immortala, come fotogrammi, i tratti salienti della poetica di Cechov.

Dall’UBU “Finale di partita” all’ultimo “Le Amanti”: la ricerca teatrale di Teatrino Giullare

FRANCESCA DI FAZIO | Un tavolino illuminato fiocamente nel mezzo della sala. Sopra di esso, una pedina che è un unico pezzo di legno con testa e braccia, e qualcos’altro coperto da stracci bianchi. Il tavolino è una scacchiera. Due persone entrano in scena avvicinandosi al tavolino e sedendosi una di fronte all’altra. Non vediamo i loro volti, coperti da maschere di cuoio, né le mani, coperte da guanti neri. Per cominciare la partita, vengono tolti i polverosi stracci: sotto, un’altra pedina di legno e due piccoli bidoni della spazzatura, questi ultimi in primo piano a sinistra. La seconda pedina è un uomo su una sedia a rotelle: Hamm. L’altra, il monoblocco senza gambe, è Clov. Dentro i due bidoni della spazzatura: Nagg e Nell, i due vecchissimi genitori di Hamm, due scheletrini mossi dagli attori con un meccanismo sorprendentemente preciso e nascosto. Hamm e Clov, “attori artificiali”, si muovono invece perché evidentemente mossi dalle mani degli attori, senza fittizia illusione. Così i giocatori sono ad un tempo governatori e governati: definiscono il moto delle pedine ma da esse dipendono per andare avanti nella loro partita a scacchi.

Il riferimento agli scacchi è chiaro e definito nell’intenzione degli ideatori-attori Giulia Dall’Ongaro ed Enrico Deotti: “L’idea di rappresentare Finale di Partita come una vera e propria partita a scacchi, con attori-giocatori che muovono pedine-personaggi sopra ad una scacchiera, è nata dopo diverse letture del dramma e naturalmente dalle pochissime indicazioni che l’autore ha fornito alla sua pièce, tra cui l’esplicito riferimento al “finale di partita”, l’ultima fase di una partita a scacchi dove il re, tra i pochi pezzi superstiti, in previsione di una probabile sconfitta, tenta le sue ultime disperate mosse d’attacco” (Giocando un finale di partita – Giulia Dall’Ongaro, Enrico Deotti in Beckett & Puppet, Studi e scene tra Samuel Beckett e il teatro di figura a cura di Fernando Marchiori).

teatrino_giullare_54_5901Così, il titolo completo dello spettacolo della compagnia Teatrino Giullare, vincitore, tra gli altri, del premio speciale UBU 2006 e andato in scena recentemente al PimOff di Milano, è Finale di partita – allestimento da scacchiera per pedine e due giocatori: e da questo particolare allestimento si dipartono le principali linee guida di ideazione dello spettacolo. In primis l’idea di limite, una costante della ricerca teatrale della compagnia e la chiave per leggere la pièce beckettiana, in cui i limiti sono ovunque: “uomini paralizzati dentro bidoni della spazzatura, una stanza chiusa con finestre altissime…” (Ibid.). L’allestimento rispecchia questi limiti: “Hamm oltre che cieco è stato inchiodato alla sedia a rotelle, Clov non può sedersi ed è un monoblocco di legno, la scacchiera riduce le possibilità di movimento degli interpreti, completamente rivestiti in modo da non svelare nulla della loro carnalità” (Ibid.).
Carne e oggetto sono così mutati di segno: il ribaltamento, per cui gli attori sono cose e le cose sono attori, raggiunge il massimo grado nel gesto di uno dei due interpreti, semplice ma sconvolgente per la densità di significato: per un attimo si sfila un guanto, ma la mano è un muro di mattoni, è il muro della stanza che rinchiude Hamm e Clov: “abbiamo piacevolmente rinunciato all’idea di fabbricare dei nuovi oggetti scenici, trovando il muro su di noi, sulla mano del giocatore”(Ibid.).

Spicca la sincopata eppure fluidissima ritmica con cui gli attori scandiscono battute e movimenti delle pedine, voci e suoni, parole e gesti con una precisione tecnica che parla d’esperienza ed esercizio, senza per questo appesantire il meccanismo a ingranaggio che anzi sembra essere stato appena oliato.
Lo spettacolo è composto da una vera “partitura di gesti e microgesti”, a restituire quello stesso ritmo musicale su cui insisteva Beckett: “a matter of fundamental sounds”. Questa contemporanea reinterpretazione di Finale di Partita resta fedele alla profondità di senso beckettiano nel restituire perfettamente, attraverso l’oggettificazione, l’alto dramma esistenziale, fisico e metafisico dei personaggi chiusi in una stanza sperduta in un mondo dove nemmeno la natura lascia più riconoscere chiaramente i suoi attributi. La dimensione dell’assurdo è delicatamente accentuata dal senso di spaesamento dato dal gioco di alternanza pedine-attori che bene restituisce anche quel senso di ironia, quella “natura tragicomica o meglio semi-seria” (Ibid.) che, quando si tratta di Beckett, viene suo malgrado troppo spesso dimenticata.

In che modo questo spettacolo è mutato nel tempo, se è mutato?

Questo spettacolo nasce esattamente dieci anni fa e nasce con una partitura fissa, seguendo la drammaturgia di Beckett che è molto precisa, quindi nasce con una regia anch’essa molto precisa, pulita, rigorosa. Tuttavia negli anni si sono aperti spiragli di libertà interpretativa, di cambiamento: lo spettacolo è cambiato soprattutto nei dettagli e nei particolari, ma l’impostazione scenica, i dialoghi sono esattamente gli stessi.

Che cosa provate, a distanza di tempo, nel ripercorrere e riabitare questo stesso testo?

La cosa incredibile è che ogni volta, ancora dopo dieci anni, si rivela fonte di nuove scoperte: ieri per esempio ho scoperto un nuovo significato del testo. Non si finirà mai di capirlo, perché è sorprendentemente misterioso ed enigmatico. Ogni volta che lo mettiamo in scena ci stupiamo. A un ascolto attento capisci che è tutto chiaro, è tutto logico, i significati ci sono, ma sono talmente sotto, nascosti, che devi scavare. Crediamo che sia questa la fortuna di questo spettacolo: al di là della messa in scena, è un testo che non si finisce mai di capire, che lascia sempre delle domande, è immortale.

Attualmente invece siete in scena con il vostro nuovo lavoro “Le Amanti”, tratto dall’omonimo romanzo di Elfriede Jelinek. Perché questo testo? Perché un romanzo?

Questo spettacolo rientra nel progetto Festival Focus Jelinek, ideato da Elena Di Gioia, in cui siamo stati coinvolti e che riguarda la messa in scena di spettacoli tratti dai testi di Elfriede Jelinek. Abbiamo scelto questo romanzo perché ci è sembrato ricco di possibilità sceniche e molto adatto ad essere teatralizzato; tra le sue opere è quella più vicina a noi, soprattutto per quanto riguarda il tipo di linguaggio utilizzato.

In effetti il romanzo ritrae dei personaggi statici, che si prestano bene ad essere messi in scena con degli “artifici”, usando la vostra definizione: in che modo questo testo si inserisce nella vostra ricerca teatrale?

In questo caso l’artificio è più vicino ad un’illustrazione, si può parlare di romanzo illustrato, di una messa in scena che si avvicina anche all’installazione artistica. L’utilizzo di tali artifici è sempre giustificato dalla drammaturgia. Dice Jelinek: “Io ingrandisco (o riduco) le mie figure in una dimensione super-umana, ne faccio dei fantocci, visto che devono stare su una sorta di piedistallo”. Cioè alterare la realtà perché essa venga RICONOSCIUTA meglio.

Quando cominciate a lavorare su un nuovo testo, come si compone la fase di creazione? Come si arriva dal testo allo spettacolo?

È un percorso lungo in cui si parte dal testo, dalla lettura: lettura, lettura, lettura, lettura, senza pensare minimamente alla messa in scena, anche se percepiamo a pelle che c’è una possibilità. I nostri spettacoli hanno un aspetto visivo molto forte ma è il testo che parla: ciò che ci interessa principalmente è far arrivare il testo. Quindi inizialmente lavoriamo sul testo, che nel caso della Jelinek è stato anche un lavoro di riadattamento, poi si delineano una o più idee sceniche e si sperimentano, attraverso prove e improvvisazioni. Una volta scelta la strada, si comincia a provare su quella. La fase di costruzione materiale, scenografica arriva invece per ultima: proviamo sempre con dei prototipi di quelli che saranno i veri oggetti scenici per capire come andranno poi realmente costruiti.

Http://www.teatrinogiullare.it/finale_di_partita.htm

http://festivalfocusjelinek.it/teatrino-giullare/