MARIA PIA MONTEDURO | Cos’è una rivoluzione? Quando può dirsi compiuta? O quando, piuttosto, può essere dichiarata fallita? E quando fallisce una rivoluzione? E perché? Alcuni di questi interrogativi emergono dall’ultimo lavoro di Tino Caspanello (Teatro Pubblico Incanto) Quadri di una rivoluzione, andato in scena al Nuovo Teatro Sanità (spazio teatrale che si avvale della direzione artistica di Mario Gelardi), posizionato nell’omonimo quartiere napoletano, nella chiesa sconsacrata di San Vincenzo. Anche in questo caso, in definitiva si tratta di una rivoluzione: un quartiere – famoso, forse anzi famigerato – che cerca di “rinnegare se stesso”, di cambiare rotta, di operare una ri-evoluzione sul proprio cammino, per diventare un quartiere vivibile, dove anche i giovani possono sperare in un futuro. Senza un retorico “vogliamoci bene”, ma rimboccandosi le maniche e lavorando, seriamente e continuativamente. Creando lavoro, gestendo cooperative di servizio e culturali, cercando di far passare attraverso il teatro – non solo ovviamente, ma questo è di cui noi oggi parliamo – un approccio nuovo con la realtà. Anche disincantato, al limite, ma realistico e propositivo insieme. Il testo di Tino Caspanello si può leggere anche in questo senso. Un gruppo di sopravvissuti a una rivoluzione (totale, totalizzante, intransigente come dovrebbe essere ogni rivoluzione per essere definita tale) assistono allo sgretolarsi delle proprie illusioni, dei propri sogni e assistono, praticamente impotenti, al perpetrarsi del tradimento che verrà consumato fino all’annientamento fisico totale. Asserragliati in uno stadio (e anche qui il pensiero e la memoria corrono a tanti stadi legati a rivoluzioni), senza più nome, ma con solo un numero identificativo, i tre protagonisti (lo stesso Caspanello che cura anche la regia, Tino Calabrò, Francesco Biolchini, ben integrati tra loro), catturano, ma in realtà sono catturati, da una donna (Cinzia Muscolino, attrice dotata di un’energia interpretativa veramente notevole) che sarà poi il motore da cui si dipana tutta la demolizione di quest’ultimo baluardo di rivoluzione. Si susseguono flash narrativi, che in tema e in rimando alla composizione di Modest MusorgskijQuadri di un’esposizione, hanno come nome il titolo di opere d’arte celeberrime a cui sono legati (tra gli altri: La ronda di notte, La Pietà, Colazione sull’erba, La sposa messa a nudo dai suoi scapoli). L’impianto drammaturgico si evolve: da un registro inizialmente “leggero” e brillante, con un ritmo narrativo e interpretativo sostenuto, si modifica fino a rallentare a causa dell’incombere della svolta drammatica che la vicenda, e conseguentemente la recitazione degli attori, assume. Interessante la scelta della colonna sonora che scandisce gli stacchi tra un quadro e l’altro: un mix di varie edizioni, le più disparate, della canzone di Mackie Messer tratta dall’Opera da Tre soldi di Brecht-Weil. Anche il teatro brechtiano parla di rivoluzione e nemmeno lì tutte finiscono bene… Spettacolo che fa pensare, che pone interrogativi e che non ha l’arroganza di dare spiegazioni, ma si pone l’obiettivo di ragionare e far ragionare intorno a un concetto –appunto la rivoluzione – di cui si crede di sapere tutto, ma che invece ancora interroga e si interroga. Un stile teatrale non autoreferenziale, ma cogitativo e riflessivo, che usa anche la risata come snodo drammaturgico. Subito dopo le due repliche di Napoli, lo spettacolo è stato presentato a Parigi in occasione del Festival l’Europe desThéâtres a cura della Maison d’Europe ed d’Orient. Siamo di fronte ancora e sempre a un “Nemo profeta in patria”?
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