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venerdì, Aprile 19, 2024
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Il Manzoni utile e necessario al nostro tempo: Piero, e quella mostra imperdibile a Milano

4-7-4-8-manzoni-living-sculpture-1961-copy1RENZO FRANCABANDERA | L’Italia in campo artistico ha perso prematuramente due grandi menti nel secolo scorso. La prima è stata quella di Umberto Boccioni, la seconda quella di Piero Manzoni. Entrambi nell’intorno dei trent’anni. Entrambi in epoche di turbine artistico internazionale.

Boccioni corse. Precorse. Attraversò il divisionismo, sentì le passioni del fauve e pensò al futurismo nella forma più limpida e avanzata. Tanto avanzata da parere cubismo ben prima di Picasso.

Manzoni corse. Precorse. Attraversò il figurativo nel suo passaggio all’informale, superò la tela intesa come superficie pittorica e visse il periodo di Fontana e la crisi del supporto, verso forme d’arte concettuale di cui fu assoluto e geniale precursore.

Morì 10 anni prima che la video arte diventasse forma di pensiero performativo, ma negli anni in cui Klein faceva lasciare a modelli nudi e intinti nel suo blu le loro impronte su enormi fogli, Manzoni realizzava linee d’inchiostro lunghe kilometri con l’aiuto di rotative da giornale, firmava la propria scarpa (e quella di Mario Schifano) come opera d’arte, vendeva palloncini gonfiati da lui medesimo come respiro d’artista e vendeva merda in scatola a peso d’oro. Lasciava l’impronta delle sue dita intinte nell’inchiostro su uova sode servite poi da mangiare agli spettatori della sua performance. Fu fra i primi a intendere l’arte oltre l’oggetto, come evento, momento effimero di rappresentazione irripetibile tal quale, al confine con il teatrale.

Forse Manzoni, prima di molti altri in Italia, intese l’arte come gesto di pensiero, manifestazione concreta di un immateriale cui però dare forma in modo anticonvenzionale e radicalmente estraneo al sentimento comune: capace di assordare, di disturbare, di lasciare interdetti. Immaginarseli i suoi coevi, sessant’anni fa, ad assistere a sue iniziative che ancor’oggi appaiono rivoluzionarie e potrebbero tranquillamente essere proposte, per modernità reale, in gallerie di ogni dove.

Ecco perché attraversare gli ambienti di cui si compone la bella mostra ospitata fino al 2 Giugno a Palazzo Reale a Milano è un dovere per chiunque voglia anche solo intuire la portata del fare arte nel nostro tempo e cosa significa essere rivoluzione, pensiero e azione performativa.

Lo diciamo da osservatori del fermento che dovrebbe stazionare al crocevia delle arti, e che spesso si nutre di plastificati deja-vu. A 50 anni dalla sua morte, l’iniziativa di Palazzo Reale, in collaborazione con lo Städel Museum di Francoforte, arriva davvero a far luce sull’uomo e sull’artista.

Il percorso, sostanzialmente cronologico, attraversa tutte le fasi creative della sua produzione, conducendo anche il più rigido dei visitatori, che solo avesse voglia e tempo di leggere le didascalie della mostra, a lasciarsi invadere dal pensiero creativo, dalla capacità dell’artista di invogliare al tatto, all’esperimento, a guardare con i polpastrelli, a sentire l’arte come manifestazione tangibile di un creativo primigenio, arrivando a vette di complessità concettuale non banalmente provocatorie, ma davvero primitive e fanciullesche.manzoni

Manzoni, infatti, in questo percorso stupisce e urla la sua modernità non solo con le sue opere celebri, quelle che riempiono i libri di storia dell’arte nelle pagine che mai vengono studiate (a prescindere dal fatto che ora non si studia proprio più la storia dell’arte). Manzoni si avvinghia al presente con quelle opere materiche di polistirolo o di pelouche, che ci si ferma a guardare poco dopo aver seguito le impronte dell’artista sui gusci d’uovo o immaginato la linea di 7km, o essersi persi su quelle tele bianche modellate nel gesso a formare senquenze di movimento indescrivibile.

Perché è in quella semplicità tattile, effimera, così glamour e imperitura formalizzata cinquant’anni fa, e che invece ancora oggi piccoli artistoidi del nostro tempo, ignari della storia dell’arte, considerano vette del loro proprio percorso creativo, che si intuisce come Manzoni abbia attraversato la sua epoca guardando oltre la Storia che stava vivendo, comprendendo la relazione e il dilemma ancora contemporanei riguardo i concetti borghesi di “utile” e di “necessario”.

E lui che era riuscito a trasformare un atto necessario, come il defecare, in utile, riuscendo a farlo ritenere gesto d’arte, forse ha da insegnare molto più di qualche predicozzo clerical-politico; utile, anzi necessaria la visita a questa mostra, per toglierci di dosso per un paio d’ore il dramma dell’esistente e proiettare la felicità istantanea in una dimensione davvero di genialità esplosiva, oltre i confini del pornografico di cui si nutre bulimicamente il nostro oggi. Imperdibile.

Se un ritorno alle origini confonde la coscienza: Harrower, grande contemporaneo

Gwp_ARGOTLAURA NOVELLI | Ciò che più mi affascina nella drammaturgia britannica contemporanea è l’intelligenza di una scrittura che, in molti casi, persegue con rigorosa – ma inventiva – geometria lo schema strutturale dell’enigma. Voglio dire cioè che spesso, nei testi inglesi, scozzesi e irlandesi appannaggio degli autori viventi, il palcoscenico diventa una tribuna dialettica le cui dinamiche relazionali esistono e sussistono in virtù di un’ambiguità di fondo (chi sono realmente i personaggi? cosa li lega? chi dice il vero e chi no? quale passato si nasconde dietro le loro vite? quale futuro li attende?) che lascia al pubblico il privilegio di un’indagine agganciata ad appigli rivelatori mai esaustivi, eppure molto emblematici.

Quando poi questo stimolo speculativo, erede soprattutto di Harold Pinter, possiede la forza di muovere il ragionamento attraverso una lingua lontana da ogni enfatica tentazione letteraria e insinuando il dubbio che si tratti pure di questioni sociali/politiche/morali di interesse collettivo, la violenza sghemba della drammaturgia, quella capacità di guardare il mondo da un’altra parte, non può che risultare ancora più efficace.

E faccio un esempio. Negli ultimi anni mi è capitato diverse volte di assistere a lavori dello scozzese David Harrower, nome di punta della scena d’Oltremanica, quarantottenne nato e cresciuto ad Edimburgo, traduttore/adattatore di Schiller, Cechov, Pirandello, Fosse. La sua drammaturgia, secondo me, risponde a pieno titolo a quanto dicevo sopra. Ne ho avuto limpida riprova nello spettacolo che ce lo ha fatto maggiormente conoscere, l’allestimento prodotto nel 2010 dal Piccolo di “Blackbird” (regia di Lluís Pasqual, interpreti Massimo Popolizio e Anna Della Rosa). Poi ne ho avuto ulteriore conferma quando Gianpiero Rappa ha proposto “A Slow Air” nel circuito off della capitale, affidandone l’interpretazione a Nicola Panelli e Raffaella Tagliabue. In queste sere, infine, Tiziano Panici presenta all’Argot “Good With People”, un testo forse non così forte e coeso come i precedenti ma non meno “enigmatico” che, ottimamente tradotto da Natalia di Giammarco, il regista romano mette in scena riservando per sé il ruolo del giovane Evan ed affidando ad una straordinaria Vanessa Scalera quello di Helen, una donna di mezza età. Bastano loro per aprire il racconto di due vite lontane eppure in qualche modo connesse. Qualcosa (cosa?) del passato li lega infatti l’uno all’altra, ma lo scopriremo solo dopo un po’. Probabilmente anche in futuro si rivedranno. Noi non lo sapremo mai. Lo immaginiamo. Lo presumiamo. E in fondo non ci deve interessare visto che è proprio in questo tempo/spazio sospeso tra ieri e domani che si gioca tutta la partita di una relazione raccontata con una lingua corposa, ma secca, che vibra di continue ambiguità.

Una fragile struttura scenica di luci al neon (la firma Andrea Giansanti) restituisce efficacemente l’idea di una piccolo albergo goodwithfotodella provincia scozzese affacciato sul mare – i fatti si svolgono a Helensbourgh – dove Helen lavora alla reception e dove Evan arriva, con il suo carico di energia giovanile e ribelle, per trascorrere una nottata. Entrambi sono di lì: il ragazzo ci è tornato dopo molto tempo per partecipare al matrimonio della madre e del padre, divorziati pentiti; la donna sopporta da anni l’asfittico ambiente della cittadina e non ha mai trovato il coraggio di andarsene. In questo giovane dall’aria ruvida e dal fare smargiasso (cui Panici regala una prova equilibrata e matura) ella intravede subito qualcosa di familiare. Poco dopo veniamo a sapere che è stato proprio lui, mosso da una sorta di invidia sociale, l’esecutore di una feroce atto di bullismo ai danni di suo figlio, Jack Huges, all’epoca dei fatti compagno di classe di quell’intrigante cliente. Dunque, un evento tragico pesa su questo ritorno che potrebbe essere anche interpretato come una ricerca di perdono (casuale? premeditata?) o, per lo meno, di riappacificazione con le proprie radici. Fatto sta che lo scontro – non privo di qualche lentezza e ripetizione – si trasforma progressivamente in qualcos’altro: via via che il dialogo prosegue, intervallato da brevi stacchi di luce, parziali cambi di abito e note di Beethoven, le recriminazioni materne (quel “J’accuse” di storica memoria che tanto riecheggia il nome di Jack) cedono il posto ad una vibrante infatuazione, ad una curiosità più erotica che materna, tanto che la rigida Helen, contratta in un golfino vecchio stile e in uno chignon fin troppo rigoroso, diventa sempre più femminile, più accogliente, più seduttiva (sfumature emotive che l’interprete insegue con estrema bravura). Si sprigiona insomma una strana energia che, complici la birra, la notte, le confessioni intime, potrebbe far pensare all’inizio di una storia d’amore. Alla fine i due si salutano. Ma forse no. Come già in “Blackbird” (un controverso caso di abuso/passione tra una minorenne e un uomo maturo) e in “A Slow Air” (un ritrovarsi familiare sullo sfondo di Al Quaeda), anche qui non c’è moralismo. Non ci sono prediche né giudizi etici. Harrower non si schiera né da una parte né dall’altra. Troppi sarebbero d’altronde i recessi dell’animo umano da indagare per poter dire chi è nel giusto e chi ha torto. Dove sia il bene e dove il male. E i recessi umani – si sa – sono da sempre assolutamente enigmatici (http://youtu.be/eyIrzWTwuxI).

Antonella Ferrari, quell’ironia più forte del destino

antoVINCENZO SARDELLI | C’è un modo di presentare la disabilità come iattura e angoscia, con accenti di pietismo e quel po’ di recriminazione. C’è un modo di vivere la disabilità come sfida, realtà che ci appartiene senza deformarci o umiliarci, e ci rende unici. Nel monologo Più forte del destino, tratto dall’omonimo libro pubblicato nel 2012 da Mondadori, Antonella Ferrari mette in scena il proprio rapporto con la sclerosi multipla. Sorridendo della sorte. Compensando i limiti imposti dalla salute con la determinazione propria, e l’affetto delle persone care.

Antonella Ferrari è ambasciatrice di un’umanità che non si arrende, e anzi rilancia. È al fianco di altri personaggi pubblici impegnati sullo stesso versante, come Alex Zanardi, disabili eppure capaci di eccellere in ambiti diversi, dallo spettacolo allo sport.

Tra camici e paillette la mia lotta alla sclerosi multipla, è il sottotitolo del monologo che abbiamo visto al Teatro Litta di Milano, con la regia di Arturo di Tullio.

Ferrari tratta con leggerezza e ironia un tema sociale delicato, alla larga da autocommiserazione, e registri drammatici. È toccante, commuove. Attinge a una poetica dell’intelligenza emotiva e relazionale.

Evocativa la scenografia, uno schermo su cui sono proiettate immagini varie, una gigantesca ragnatela dove sono fissati oggetti di un passato remoto eppure vivo: una coperta, una bicicletta, un cestino con le foto, una bambola, pattini da ghiaccio, una vecchia radio. I ricordi sono la filigrana della vita. Narrano storie. Segnano valori, successi, cadute, ciò che abbiamo saputo costruire. La ragnatela è trappola, esca mortifera. Ma è anche la tela delle nostre esperienze. È utile posarvi lo sguardo, per sapere chi siamo e spingerci avanti. Ecco gli altri oggetti scenici: uno specchio, per testimoniare le tappe della nostra evoluzione; l’attaccapanni, perché ogni giorno siamo chiamati a rimodellarci, cercando nuovi involucri per presentarci al mondo.

La classe di Antonella è la stessa, sul palco e nella vita. Non abbrutirsi, ma curarsi e abbellirsi. Non rinunciare ai vezzi femminili, al trucco, al tacco. Non rassegnarsi. Esorcizzare il vittimismo, il sarcasmo, le invidie altrui.

Dall’alto delle sue stampelle multicolori l’attrice milanese ricorda la propria passione per la danza e la musica, i suoi miti da bambina, Heather Parisi e Lorella Cuccarini. Poi i primi passi nel mondo dello spettacolo, i provini, le porte sbattute in faccia dopo le prime avvisaglie di una malattia aliena e oscura, l’insipienza o la strafottenza dei medici. L’interminabile fila degli esami prima del verdetto: sclerosi multipla. Fanno da contrappunto alla sua performance istrionica voci fuoricampo: la disumanità ghettizza, sospinge in una dimensione remota.

Il teatro diventa l’ascensore per i sogni, lontano dagli stereotipi sensazionalistici della tv, che vorrebbe una donna disabile propensa alla depressione, tradita dal marito, abbandonata dagli amici.

Invece l’amore salva. Può essere quello di un cane, che ti fa festa senza badare che tu sia povero o malato, quello di un padre che t’insegna a rintuzzare le bordate della vita con dignità, quello di un marito che, se ti ha amato in piedi, continuerà ad amarti anche da seduta.

Antonella Ferrari mostra la propria femminilità. Emoziona, è leggera. Colpisce, con estro ed energia. Canta, balla, vibra. Perché, come dice un proverbio afgano, «se tu non hai le gambe, e non diventi campione di corsa, la colpa è soltanto tua».

Fritto misto piemontese: Torino Fringe Festival alla seconda edizione

torino_fringe_festival_2014_18-4GIULIA MURONI | Un po’ come il fritto misto piemontese. Il rognone accanto all’amaretto, il semolino con le animelle,  cervella con le mele. Delizioso.
Conclusa da qualche giorno la seconda edizione del Torino Fringe Festival sembra evidente la forza prorompente di questo festival di spettacolo dal vivo, letteralmente esplosa in una decina di giorni negli spazi torinesi. Tra spettacoli, feste, incontri con gli operatori e laboratori, i singoli siti sono stati spremuti fino al midollo, all’interno di un cartellone ambizioso e vorace, dove ogni luogo, ogni giorno per dieci giorni ha dato ospitalità a tre o quattro compagnie. Di qui per gli artisti la possibilità ardita e sfiancante di calcare la scena e mostrarsi al pubblico, anche in luoghi non convenzionali del teatro, per una decina di repliche consecutive.

Nato dall’idea folle della scorsa edizione (sulla scorta del Fringe scozzese), quest’anno l’immagine di riferimento è quella del tuffo di pancia. Rischioso e difficile, può anche essere doloroso. Ma il festival ha tenuto alte le ambizioni e nelle numerose location ha proposto un programma vario e articolato, forte di accostamenti del tutto arbitrari che hanno restituito uno scenario sfaccettato della scena teatrale contemporanea in Italia.

Abbiamo visto Giorgia Goldini, con il suo Gold Show, al Cafè des arts. In un formato pocket e componibile la performer ha dato vita ad un monologo incalzante via via componendosi attraverso le scelte del pubblico, dotato ad hoc di un menù. L’andamento rapsodico e casuale è aperto a una miriade di soluzioni possibili e Goldini dimostra di essere vivacemente in grado di tenere le redini di uno spettacolo in balìa della sensibilità (o reattività) del pubblico.

Di tutt’altra natura il Cyrano di Crab, visto al Garage Vian. In questo caso la prova è attoriale e autoriale insieme, nel confronto diretto con il testo di Rostand. Pierpaolo Congiu, attore storico di Crab, accompagna nei panni di Cyrano i due giovani interpreti in una ricostruzione onesta che lascia notevole spazio al testo di riferimento, denso e ricco per sua stessa natura. Anche qui una produzione low-cost, dove ad essere scomponibile è la scenografia, smontata e assemblata a più riprese sulla scena.

KataplixiAi Magazzini sul Po (lato sx dei Murazzi) è stata la prova di Kataplixi, con l’accattivante titolo Anch’io ho avuto un’infanzia di merda eppure non mi lamento. Questo spettacolo, ancora acerbo, ha debuttato in occasione del Torino Fringe, a partire da una personale lettura dei testi di Rodrigo Garcìa, in cui si arrovellano le tensioni e le nevrosi di una generazione in bilico tra il restare e il partire, il permanere nell’accidia o lasciarsi scivolare in una vanagloria lasciva.

In conclusione, per cercare di restituire un quadro inevitabilmente non esaustivo ma comunque nutrito delle differenti voci che hanno preso parte del festival, il Feet Theatre di Monsieur David (sempre al Garage Vian). Uno spettacolo di mimo, fatto con i piedi. I piedi, travestiti da differenti personaggi di volta in volta, inscenano gag comiche e amorose semplici e naif.

Questo è stato il Torino Fringe Festival. Incoerente, disordinato, con vette isolate di esperienza (l’eccellente lavoro sull’attore condotto dalla Piccola Compagnia della Magnolia), che porgono il braccio a opere molto giovani e in via di definizione di un baricentro di ricerca. Il “pacchetto” Torino Fringe Festival ha attivato un ingente numero di volontari, di iniziative di fundraising (es: vino To.Fringe) ed è stato possibile grazie anche ad una partecipazione degli artisti stessi molto flessibile. Ora è il momento di tirare le somme sull’accaduto e interrogarsi circa le potenzialità e lo spazio che vuole occupare un progetto di questo tipo. Quali le risorse, le aspettative, il pubblico, le ricerche stilistiche. Assimilare e metabolizzare questo importante malloppo calorico per creare un humus fertile e via via, magari, anche dal palato più fino.

Mondocane#24 – Vi piaccia o no

blu-graffitiMARAT | Chi l’avrebbe mai detto. Che uno vede il nome di Debora Pietrobono come candidata alla direzione del Teatro di Roma e per un attimo si sente tipo a Oslo. Che si potrebbe organizzare una girata per i fiordi nel fine settimana. Cose così. Ma ci si sveglia presto. E mentre bevo il primo caffè e ascolto i Massimo Volume, mi arriva la notizia: Calbi parte per Roma. Decidendo così di sacrificare il trono della direzione del settore spettacolo del Comune di Milano, acquisito ai tempi della Letizia e dello Sgarbi (sì, della Letizia e dello Sgarbi). Calbi con le sue feste di compleanno stracult, tecnico bravissimo nel parlare politichese. O forse politico eccellente nel mostrarsi tecnico. Poco importa. Sua la nomina e il ritorno a Roma dopo l’esperienza all’Eliseo. Si sa, l’obiettivo è il Piccolo. Potrebbe essere una tappa intermedia. O una specie di esilio dorato. Chissà. Comunque idea golosa. E scegliere di invadere la Kamchatka deve esser stato un attimo. Per chi respira nebbia (per chi respira rabbia) a volte le dinamiche del teatro romano paiono curiose. Quella strana corte di politici, operatori, artisti e critici, è una matassa complessa dove si fatica a distinguere posizioni, amicizie, ruoli, interessi. Ma si sbaglierebbe a inquadrare la vicenda negli specchi distorti della capitale. È puro e semplice Sistema Italia: un teatro che affonda, il pasticciaccio di una nomina sbagliata, il consueto valzer di nomi, si muovono le pedine ed eccolo lì, salta fuori il nuovo direttore. La scelta più sicura, il più esperto, l’unico che può tenere botta. C’è del vero. Ma forse è anche un’occasione persa. Fosse solo di far credere che ogni tanto si ascolta chi va in direzione ostinata e contraria. E questo mentre si chiudono festival. E i celerini son sempre lì a sgomberare. Mi fermo un attimo. Mi pulisco la testa col pensiero del Rialto Sant’Ambrogio che riapre. Ma poi mi vengono in mente le raccolte firme delle scorse settimane per “salvare” Cutaia. Sì, per Cutaia. La chiamata alle armi. Quei teatrini di unità e resistenza (ma per favore…) messi in piedi in gran furia e subito dismessi. Che in questi giorni non ci trovi un commento fuori posto, fatto il re sembrano tutti diventati succursali dell’Ansa. Mah. Si vede che Calbi ha convinto tutti. O qualcuno ha compreso la pochezza dell’intifada capitolina. Che ben altre cause si meritano la nostra militanza. Sia mai poi che al prossimo compleanno salti fuori una fetta di torta. E pure un bicchierino di vino buono dei castelli.

Salone del libro di Torino: ex post ex libris

salone torino 1EMANUELE TIRELLI | Visto dalla prospettiva di un autore, il Salone del libro di Torino fa un altro effetto, soprattutto se l’autore scrive per una casa editrice indipendente.
Nessuna paura: l’attività autopromozionale si riduce a un paio di frasi. Una di queste consiste nella dichiarazione d’aver pubblicato “Pedro Felipe” per i tipi di Caracò Editore e di averlo presentato anche durante il grande appuntamento piemontese che ha chiuso la sua ultima edizione lo scorso lunedì 12 maggio.

L’hashtag twitter #SalTo14 ha accolto case editrici piccole, grandi, medie ed enormi per altrettanti stand o porzioni di stand. Sì, perché i costi fanno la differenza e per molti esserci stati si è dimostrata sicuramente un’occasione per farsi conoscere e consolidare il rapporto con i grandi lettori, ma anche un sensibile rischio economico, tant’è che “come sta andando?” era senza dubbio la domanda di rito e tutt’altro che di pura cortesia.

Rispetto allo scorso anno il pubblico ha trovato più spazio tra uno stand e l’altro e più aria da respirare. All’apertura, ore 10 del mattino, un’invasione di visitatori copriva già a macchia d’olio la moquette del Lingotto e, tirando le somme, l’organizzazione ha dichiarato quasi 340mila presenze con un aumento del 3% rispetto all’edizione 2013. L’offerta per loro era infinita: libri, editori, spazi, eventi musicali, letture, approfondimenti e conferenze. Francesco Guccini, Federico Rampini, Corrado Augias, l’ex ministro Massimo Bray, Carlo Cracco e Francesco Abate sono solo alcuni dei centinaia, forse migliaia di nomi che hanno affollato padiglioni, sale e incubatori. La guida del Salone meritava uno studio attento. Gli appuntamenti, molti in contemporanea, dovevano essere scelti accuratamente e in anticipo per poter trovare posto, o anche solo per avvicinarsi.

Il Salone è stato come sempre un po’ di tutto, buono e brutto, bello e cattivo, atteso e inaspettato. Case editrici a pagamento guardate in obliquo, riviste di aeronautica, incisori di libri e tesi. Ed è stato anche cose che voi umani… Scrittori di colossi editoriali infastiditi per non essere stati riconosciuti e altri impegnati a farsi riconoscere per portare a buon fine un corteggiamento serrato e spudorato. Autori strappati via dai loro agenti immediatamente dopo la fine del “firmacopie” e bambini interessati all’acquisto di un libro scontrarsi con la faccia infastidita del proprio genitore. Ma, d’altro canto, non sono mancate gentilezze, cortesie sincere e inaspettate. Sorrisi veri e indipendenti dalla gestualità commerciale, conversazioni con i visitatori tra gli stand, chiacchiere dirette con gli editori e la possibilità di conoscere da vicino quelli che per molti lettori sono solo un marchio o un nome in copertina. Qualcuno si chiedeva il perché dello stand della Polizia di Stato e in molti si sono stupiti davanti a quello del Vaticano, Paese ospite di questa edizione, che ha portato al Salone una riproduzione decisamente imponente della cupola di San Pietro.
Ma l’elemento che merita di essere sottolineato con maggiore entusiasmo in un bilancio complessivo assolutamente positivo è sicuramente la presenza di una certa parte di pubblico. Quello arrivato con borsoni e trolley vuoti da riempire con i libri. Quello curioso di conoscere le nuove realtà editoriali, di leggere le ultime uscite, di soffermarsi sui nuovi autori. Quello che dice torno più tardi e torna davvero. Che si lascia consigliare e non ama andare sul sicuro, perché altrimenti non sarebbe mai entrato al Lingotto. Le copie del mio romanzo erano già terminate due giorni prima della fine del Salone e dal sorriso di alcuni colleghi, voglio credere sia accaduto lo stesso anche a molti di loro.

Ranuncoli#11 Freak(out) per Emma c’est chic

insiemeCOSIMA PAGANINI | Vabbè e ci siamo visti Le sorelle Macaluso e tornati a casa anche l’Eurovision Song Contest, o Eurofestival.

Le sorelle Macaluso è un bel vedere: non disturba, non turba, non offende, non muove, non imprime. Emma Dante ha limato il suo stile fino a farlo entrare in un “salotto del giovedì”.

Il suo teatro ha funzionato al contrario di un farmaco omeopatico, nell’idea che se qualcosa non ti ammazza ti rafforza: prima un dosaggio esasperato di urla, trivialità, ambienti mucidi, religiosità blasfema, femminilità ferine; adesso, spettacolo dopo spettacolo, piccole dosi di disagio, devozione pittoresca, femminilità addolorate.

Emma Dante, Nostra Signora dei Reietti, ci ha messo 10 anni ma è stata definitivamente beatificata dal “bel-pubblico”.

Per farlo ha dovuto fingersi modesta e rispettosa. Ha trasformato il Freak/Cheap in Freak/Chic. Ha dovuto allestire la fiera della poesia pastorale. Ha cacciato il Lumpenproletariat per far entrare i Vinti.

Il sentimento di vaghezza (leopardiana) provocato da Le sorelle Macaluso, ha sostituito il disagio che prendeva guardando La Trilogia degli occhiali (2011) e il leggero malessere che provocava la visione de Le Pulle (2010). Finalmente la perfetta sensazione per un pubblico di abbonati e “signori” affetti da cacofobia.

Ma che c’entra l’Eurofestival?

C’entra ché mi fa pensare a una proporzione: Emma Dante sta al Piccolo Teatro come Conchita Wurst sta all’Eurofestival.

Una “bellissima uoma barbuta” (freak) ha schiacciato al 21esimo posto Emma e le sue mutandine esibite. Se Emma (Marrone) fosse andata a lezione da Emma (Dante) avrebbe evitato l’esibizione delle mutande (cheap) e avrebbe appreso che l’unico modo di fare accettare il Cheap è fargli indossare una maschera Freak.

Ma se la giuria dell’Eurofestval fosse stata composta dal pubblico del Piccolo e simili avrebbe vinto comunque Conchita? Credo di sì, perché l’orrore della bruttezza di Conchita sarebbe stato vinto dall’orgoglio di essersi accodati alla (penultima) moda Hipster della barba.

https://www.youtube.com/watch?v=h1qQ1SKNlgY

Carrozzeria Orfeo, «Nuvole barocche» da riverniciare

carrozzeriaVINCENZO SARDELLI | Le nuvole barocche di Carrozzeria Orfeo (visto al Teatro Filodrammatici di Milano) si mettono lì, tra noi e il cielo. Per lasciarci una voglia di pioggia che arriva con il contagocce.

Erano tante le aspettative per questa giovane compagnia, di cui si parla un gran bene. E se al centro dello spettacolo c’era la poetica di Fabrizio De André, il successo sembrava certo. E invece queste Nuvole schermano il sole senza dissetarci. Eppure sono passati diversi anni dal debutto di questo lavoro, che andava forse ritoccato, e in mezzo ci sono stati i riconoscimenti per pièce come Idoli o Thanks for vaselina.

Il soggetto, così come viene presentato sul foglio di sala, incuriosisce. Eppure non capisci bene dove vada poi a parare.

Il luogo è uno scantinato, periferia anonima di una città imprecisata del Nord Italia. L’anno è il 1979: imperversa l’Anonima Sarda, che quell’estate ha rapito De André e Dori Ghezzi. Ecco i protagonisti: Nico l’anarchico, Beppe l’alcolista, Pier l’emarginato. Sembra amicizia, complicità, goliardia: finirà in cannibalismo. L’anarchia di Nino e l’alcolismo di Beppe affiorano a singhiozzi, neppure ci fai caso: «Non basta una corda a fare un impiccato», sentenziava Lee Van Cleef; neppure una bottiglia in mano a fare un ubriaco, aggiungiamo noi. L’emarginazione di Pier è vaga. Tre coatti privi di qualsiasi inflessione dialettale, dizione teatrale perfetta. La condizione borderline dovrebbe identificare i tre con De André, incrociarne poetica e valori. Ma questi balordi di periferia i valori li hanno smarriti. Intendono usare lo scantinato per sequestrare un bambino, per giunta autistico, per ottenere il riscatto.

Questo il Carrozzeria Orfeo-pensiero: «Con Nuvole Barocche non volevamo celebrare in modo divinatorio la figura del cantautore genovese. Abbiamo invece indagato la sua poetica, le sue debolezze di uomo, le fragilità e i limiti ispirandoci a ciò che lui stesso faceva attraverso la propria poesia: dar voce alle diversità e all’emarginazione. Abbiamo provato fin dall’inizio a distaccarci da alcuni facili luoghi comuni, dalla tentazione di abbandonarci a comode citazioni, cercando invece di comprendere il significato del sequestro De André-Ghezzi all’interno del suo contesto storico-sociale e quale valore possa assumere, nella vita di un essere umano, l’esperienza del rapimento. Tutto ciò ci ha portato a fare delle riflessioni sul ruolo del sequestrato e del sequestratore e di come, in fondo, queste due esperienze di miseria umana si assomiglino e si avvicinino».

«Ho poche idee, ma confuse», diceva Mino Maccari. Qui le idee sono tante, finiscono per ingarbugliarsi. Uno scantinato, un materasso, qualche sedia, una cassetta di legno, un fornelletto da campeggio. Luci lunari o da sotterraneo tratteggiano uno spazio scenico soffuso, vagamente claustrofobico. Scorrono parole e note sparse di Faber, Andrea, Amico fragile, Quello che non ho, Sally: omaggio, poesia, o specchietto per le allodole? A precedere il tutto il brano Le nuvole, 1990, sugli elementi che si frappongono fra sole e gente, oscurando prospettive e felicità. Le nuvole, frammento lirico di rara bellezza, nella versione originale ha due voci femminili a farsi da contrappunto. Visto che il brano non è cantato, Carrozzeria Orfeo ne propone una propria versione al maschile: meglio l’originale. Poi ricordi, emozioni, momenti di intimità sospesi tra fiori e stelle cadenti, in qualche modo affini alla poetica solitaria, livida di De André. C’è anche una prostituta, buttata lì un po’ come il due di picche, come se a legittimarla bastassero canzoni come Bocca di Rosa o Via del Campo. E un finale fumoso: spente le luci, il silenzio imbarazzato del pubblico sembra durare più degli applausi che precede. Che pure gli attori meritano, per la buona recitazione e una performance fisica da togliere il fiato. Però il lavoro (di e con Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti e Luca Stano, con l’aggiunta dell’attrice Fabrizia Boffetti e Diego Sacchi al disegno luci) nel complesso rimane irrisolto. La regia c’è, la drammaturgia non convince: mancano semplicità, chiarezza, coerenza.

Attoritratto, la sfida di Fabbrica Europa alla gravità

ph. Ilaria Costanzo
ph. Ilaria Costanzo

MATTEO BRIGHENTI | Mongolfiere senza cielo in una stazione senza treni. ATTORITRATTO – opera scenica con sette versetti musicati, concepita da Marco Bagnoli appositamente per la Leopolda di Firenze, è l’installazione che ha inaugurato l’edizione 2014 di Fabbrica Europa, Festival all’occhiello delle arti contemporanee che rinascono in riva all’Arno ogni maggio da 21 anni. Per la prima volta Bagnoli ha riunito dieci sue sculture monumentali a forma di palloni aerostatici, realizzate negli ultimi tre decenni ed esposte sia in Italia che all’estero. “Lo spazio della Stazione Leopolda è molto interessante – afferma l’artista, toscano, classe 1949 – siamo in un interno, però sembra di essere in un esterno. Un cielo, in qualche modo, lo si può indovinare. Certamente bisogna sostituire il treno, bisogna passare dal veicolo al velivo.”

Leggerissime, di grandezza e materiali diversi, a guardarle sono come le nuvole: prendono le forme che gli occhi trovano nella fantasia. “La mongolfiera riguarda l’interiorità della persona – spiega Bagnoli – il cuore e la respirazione. Se si segue con lo sguardo l’andamento dei raggi, dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso, ci si troverà a inspirare ed espirare. Questi oggetti volanti sono quindi un movimento di aria intorno al battito cardiaco.” La forma ovoidale diventa elemento performativo: il pubblico tocca le sculture e la sorpresa di poterle muovere diventa azione per farle muovere e girare su se stesse, ballerine sulle punte di un carillon di proiezioni video e versi poetici musicati.

“Le opere di Bagnoli – commenta il curatore del progetto, Sergio Risaliti – sono delle porte da superare per accedere a una dimensione non effimera della realtà, del linguaggio e della tecnica.” La mongolfiera è allora una sorta di autoritratto “spirituale” in cui il corpo si svuota della materia, come vuoto è l’interno del pallone aerostatico, e assume consistenza eterea, disancorata da terra, svincolata dal superfluo. “Arte quindi – prosegue Risaliti – come soglia da attraversare per un’esperienza di Bellezza che possa accendere un desiderio di Verità ulteriore.”

Verità destinata a espandersi come la collezione di Marco Bagnoli. “Le dieci mongolfiere nella grande navata della Leopolda sono state concepite per spazi e in tempi differenti – interviene l’artista – ora dialogano, l’una in relazione all’altra, qui sono un’unità che non è detto poi che continui ad allargarsi.” L’obiettivo è lo stesso de Il Gabbiano del Teatro Nazionale Serbo di Novi Sad, primo spettacolo e simbolo di questa edizione di Fabbrica Europa: librarsi al di sopra della gravità convenzionale. “Ho realizzato la mia prima mongolfiera nell’84 in occasione di una mostra in Olanda – conclude Bagnoli. Allora la alzai in volo. Spero di farlo con ognuna di quelle qui esposte che ancora non ha volato.” 

ATTORITRATTO sarà visitabile fino al 18 maggio. Sono previsti incontri di approfondimento e discussione sull’opera con, tra gli altri, il curatore del progetto Sergio Risaliti e Alessandro Magini, compositore e docente di musicologia e drammaturgia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”.

LaFabbrica: la crescita oltre l’attesa

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RENZO FRANCABANDERA | La Trilogia dell’attesa della Compagnia LaFabbrica presentata eccezionalmente al Piccolo Teatro di Milano nel primo fine settimana di Maggio e poi a Roma il 6 e 7, ha avuto il pregio di consentire a chi non conosceva il gruppo romano di avere un’idea dell’evoluzione della loro proposta, per come si è sviluppata dal 2008 ad oggi.

Si tratta di tre spettacoli dedicati appunto al tema dell’attesa e sviluppati su un tessuto di aspra cupezza da attori con un sembiante anziano, ancorchè interpreti di personaggi tendenzialmente giovani.

Il primo, “Aspettando Nil” (quasi certamente abbreviazione fonica dal latino, dunque Nessuno) è la storia di una vestizione in attesa di un uomo, si suppone, una sorta di compagno della vita, o chissà cosa. Un Godot, insomma, in attesa del quale si rendono evidenti i rapporti di dominanza e crudeltà fra madre anziana e figlia zitella, interpretate da Elisa Bongiovanni e Giada Parlanti.

Il secondo, “Quando saremo GRANDI!”, è la storia di tre bambini che aspettano a scuola la madre che dovrebbe andare a prenderli, ma non arriverà. Fra loro, cattiverie, amori, eros, speranze e illusioni, come in ogni adolescenza. Ne sono interpreti Simone Barraco, Matteo Latino e Ramona Nardò, ma nella replica al Piccolo c’è stata la sostituzione di Latino da parte di Francesco Zecca.

Il terzo, infine, “Hansel e Gretel. Il giorno dopo”, con Elisa Bongiovanni, Marta Meneghetti e Giada Parlanti, è la storia di Hansel e Gretel dopo la fine della fiaba. Aspettano l’arrivo di loro padre, al quale mostrare con fierezza la vittoria sulla strega, ormai anzianissima, e che prigioniera dei due, invoca perfino la morte pur di finirla con un’esistenza senza senso.

Se in Aspettando Nil le due interpreti, sulle note di Lontano Lontano, si vestono, si lavano, si truccano, si maltrattano, aspettano e rimandano direttamente al segno del maestro Karpov e alle sue lezioni sulla significanza del corpo scenico dell’attore come veicolo del messaggio, il codice espressivo trova prossimità con quello della prima Emma Dante, con un’intensità attorale sempre molto forte, concentrata, che è comun denominatore di tutti gli elementi della trilogia.

Sono proprio la cura, il dettaglio pur nella minimalità di luci e scene, l’unitarietà stilistica e il lavoro sugli attori, le caratteristiche di maggior rilievo della proposta di questa compagnia, che è riuscita negli anni a raccogliere premi e segnalazioni.

Come forse tutti gli esordi, la loro proposta ravvicinata aiuta a leggere l’evoluzione, le domande che sicuramente la regista Fabiana Iacozzilli si è fatta, su come evolvere il linguaggio scenico e il suo personale perché teatrale.

Ecco dunque che, pur in generale intonata ad una cupezza beckettiana e senza speranze, caratterizzata appunto da attese tradite e da un senso di fine immanente e imminente, la trilogia, da un punto di partenza “dantesco” e in cui la drammaturgia e il senso intrinseco restano sostanzialmente un po’ bloccati e monocordi (cosa questa che caratterizza maggiormente i primi due spettacoli), nell’ultimo atto unico sviluppa una consustanzialità di umorismo noir e cupo grottesco che appare registro quanto mai riuscito. E sicuramente nella parodia di Hansel e Gretel, la strega costretta alla sofferenza sempiterna, o i due protagonisti all’ingrasso, che divorano la casa di marzapane e finiscono come i parenti anziani del Conte Tacchia (Panelli e Gassman), soffocati dall’edibile mentre assistono al duello, sono vette visionarie nettamente più originali di quanto visto negli altri due atti, che lasciano una sottile sensazione di già visto e di esercizi di stile vicini all’imprinting di scuola.

Nel terzo invece tutto il ragionamento sulle luci di Davood Kheradmand e Hossein Taheri, un pensiero più concreto e consapevole sull’ambiente scenico da parte di Matteo Zenardi, la figura ieratica e tragica del male che invoca la propria fine, racchiudono un elemento di novità che forse si apprezza come evoluzione del trittico, ma che si apprezzerebbe maggiormente senza passare per gli step di formazione. Certo ancora c’è un importante margine di crescita per il gruppo, forse nella direzione dell’abbattimento dei canoni di unitarietà stilistica e “ideologica”, verso un ambiente deframmentato e capace di guardare ancor più a suggestioni fuori da se stesso. A maggior ragione questo vale quando la proposta artistica viene sottoposta al pubblico in un’unica serata in tre ore di spettacolo.

E questo è sempre il dilemma delle proposte a polittico. Pur apprezzando il lavoro, la crescita, l’evoluzione, non è quello che si suggerirebbe ad un amico per una serata spensierata, diciamo così. Gli diremmo quindi di scegliere uno dei primi due, forse il primo, e l’ultimo: il secondo elemento, infatti, a qualche giorno di distanza, pur ben interpretato, ci appare concettualmente una variazione spinta al parossismo dei temi trattati nel primo. Oltre l’ora e mezza di dialogo col pubblico è bene spingersi, come a tavola, con una proposta capace di alternare maggiormente sapori e consistenze.