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sabato, Aprile 20, 2024
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Attoritratto, la sfida di Fabbrica Europa alla gravità

ph. Ilaria Costanzo
ph. Ilaria Costanzo

MATTEO BRIGHENTI | Mongolfiere senza cielo in una stazione senza treni. ATTORITRATTO – opera scenica con sette versetti musicati, concepita da Marco Bagnoli appositamente per la Leopolda di Firenze, è l’installazione che ha inaugurato l’edizione 2014 di Fabbrica Europa, Festival all’occhiello delle arti contemporanee che rinascono in riva all’Arno ogni maggio da 21 anni. Per la prima volta Bagnoli ha riunito dieci sue sculture monumentali a forma di palloni aerostatici, realizzate negli ultimi tre decenni ed esposte sia in Italia che all’estero. “Lo spazio della Stazione Leopolda è molto interessante – afferma l’artista, toscano, classe 1949 – siamo in un interno, però sembra di essere in un esterno. Un cielo, in qualche modo, lo si può indovinare. Certamente bisogna sostituire il treno, bisogna passare dal veicolo al velivo.”

Leggerissime, di grandezza e materiali diversi, a guardarle sono come le nuvole: prendono le forme che gli occhi trovano nella fantasia. “La mongolfiera riguarda l’interiorità della persona – spiega Bagnoli – il cuore e la respirazione. Se si segue con lo sguardo l’andamento dei raggi, dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso, ci si troverà a inspirare ed espirare. Questi oggetti volanti sono quindi un movimento di aria intorno al battito cardiaco.” La forma ovoidale diventa elemento performativo: il pubblico tocca le sculture e la sorpresa di poterle muovere diventa azione per farle muovere e girare su se stesse, ballerine sulle punte di un carillon di proiezioni video e versi poetici musicati.

“Le opere di Bagnoli – commenta il curatore del progetto, Sergio Risaliti – sono delle porte da superare per accedere a una dimensione non effimera della realtà, del linguaggio e della tecnica.” La mongolfiera è allora una sorta di autoritratto “spirituale” in cui il corpo si svuota della materia, come vuoto è l’interno del pallone aerostatico, e assume consistenza eterea, disancorata da terra, svincolata dal superfluo. “Arte quindi – prosegue Risaliti – come soglia da attraversare per un’esperienza di Bellezza che possa accendere un desiderio di Verità ulteriore.”

Verità destinata a espandersi come la collezione di Marco Bagnoli. “Le dieci mongolfiere nella grande navata della Leopolda sono state concepite per spazi e in tempi differenti – interviene l’artista – ora dialogano, l’una in relazione all’altra, qui sono un’unità che non è detto poi che continui ad allargarsi.” L’obiettivo è lo stesso de Il Gabbiano del Teatro Nazionale Serbo di Novi Sad, primo spettacolo e simbolo di questa edizione di Fabbrica Europa: librarsi al di sopra della gravità convenzionale. “Ho realizzato la mia prima mongolfiera nell’84 in occasione di una mostra in Olanda – conclude Bagnoli. Allora la alzai in volo. Spero di farlo con ognuna di quelle qui esposte che ancora non ha volato.” 

ATTORITRATTO sarà visitabile fino al 18 maggio. Sono previsti incontri di approfondimento e discussione sull’opera con, tra gli altri, il curatore del progetto Sergio Risaliti e Alessandro Magini, compositore e docente di musicologia e drammaturgia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”.

LaFabbrica: la crescita oltre l’attesa

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RENZO FRANCABANDERA | La Trilogia dell’attesa della Compagnia LaFabbrica presentata eccezionalmente al Piccolo Teatro di Milano nel primo fine settimana di Maggio e poi a Roma il 6 e 7, ha avuto il pregio di consentire a chi non conosceva il gruppo romano di avere un’idea dell’evoluzione della loro proposta, per come si è sviluppata dal 2008 ad oggi.

Si tratta di tre spettacoli dedicati appunto al tema dell’attesa e sviluppati su un tessuto di aspra cupezza da attori con un sembiante anziano, ancorchè interpreti di personaggi tendenzialmente giovani.

Il primo, “Aspettando Nil” (quasi certamente abbreviazione fonica dal latino, dunque Nessuno) è la storia di una vestizione in attesa di un uomo, si suppone, una sorta di compagno della vita, o chissà cosa. Un Godot, insomma, in attesa del quale si rendono evidenti i rapporti di dominanza e crudeltà fra madre anziana e figlia zitella, interpretate da Elisa Bongiovanni e Giada Parlanti.

Il secondo, “Quando saremo GRANDI!”, è la storia di tre bambini che aspettano a scuola la madre che dovrebbe andare a prenderli, ma non arriverà. Fra loro, cattiverie, amori, eros, speranze e illusioni, come in ogni adolescenza. Ne sono interpreti Simone Barraco, Matteo Latino e Ramona Nardò, ma nella replica al Piccolo c’è stata la sostituzione di Latino da parte di Francesco Zecca.

Il terzo, infine, “Hansel e Gretel. Il giorno dopo”, con Elisa Bongiovanni, Marta Meneghetti e Giada Parlanti, è la storia di Hansel e Gretel dopo la fine della fiaba. Aspettano l’arrivo di loro padre, al quale mostrare con fierezza la vittoria sulla strega, ormai anzianissima, e che prigioniera dei due, invoca perfino la morte pur di finirla con un’esistenza senza senso.

Se in Aspettando Nil le due interpreti, sulle note di Lontano Lontano, si vestono, si lavano, si truccano, si maltrattano, aspettano e rimandano direttamente al segno del maestro Karpov e alle sue lezioni sulla significanza del corpo scenico dell’attore come veicolo del messaggio, il codice espressivo trova prossimità con quello della prima Emma Dante, con un’intensità attorale sempre molto forte, concentrata, che è comun denominatore di tutti gli elementi della trilogia.

Sono proprio la cura, il dettaglio pur nella minimalità di luci e scene, l’unitarietà stilistica e il lavoro sugli attori, le caratteristiche di maggior rilievo della proposta di questa compagnia, che è riuscita negli anni a raccogliere premi e segnalazioni.

Come forse tutti gli esordi, la loro proposta ravvicinata aiuta a leggere l’evoluzione, le domande che sicuramente la regista Fabiana Iacozzilli si è fatta, su come evolvere il linguaggio scenico e il suo personale perché teatrale.

Ecco dunque che, pur in generale intonata ad una cupezza beckettiana e senza speranze, caratterizzata appunto da attese tradite e da un senso di fine immanente e imminente, la trilogia, da un punto di partenza “dantesco” e in cui la drammaturgia e il senso intrinseco restano sostanzialmente un po’ bloccati e monocordi (cosa questa che caratterizza maggiormente i primi due spettacoli), nell’ultimo atto unico sviluppa una consustanzialità di umorismo noir e cupo grottesco che appare registro quanto mai riuscito. E sicuramente nella parodia di Hansel e Gretel, la strega costretta alla sofferenza sempiterna, o i due protagonisti all’ingrasso, che divorano la casa di marzapane e finiscono come i parenti anziani del Conte Tacchia (Panelli e Gassman), soffocati dall’edibile mentre assistono al duello, sono vette visionarie nettamente più originali di quanto visto negli altri due atti, che lasciano una sottile sensazione di già visto e di esercizi di stile vicini all’imprinting di scuola.

Nel terzo invece tutto il ragionamento sulle luci di Davood Kheradmand e Hossein Taheri, un pensiero più concreto e consapevole sull’ambiente scenico da parte di Matteo Zenardi, la figura ieratica e tragica del male che invoca la propria fine, racchiudono un elemento di novità che forse si apprezza come evoluzione del trittico, ma che si apprezzerebbe maggiormente senza passare per gli step di formazione. Certo ancora c’è un importante margine di crescita per il gruppo, forse nella direzione dell’abbattimento dei canoni di unitarietà stilistica e “ideologica”, verso un ambiente deframmentato e capace di guardare ancor più a suggestioni fuori da se stesso. A maggior ragione questo vale quando la proposta artistica viene sottoposta al pubblico in un’unica serata in tre ore di spettacolo.

E questo è sempre il dilemma delle proposte a polittico. Pur apprezzando il lavoro, la crescita, l’evoluzione, non è quello che si suggerirebbe ad un amico per una serata spensierata, diciamo così. Gli diremmo quindi di scegliere uno dei primi due, forse il primo, e l’ultimo: il secondo elemento, infatti, a qualche giorno di distanza, pur ben interpretato, ci appare concettualmente una variazione spinta al parossismo dei temi trattati nel primo. Oltre l’ora e mezza di dialogo col pubblico è bene spingersi, come a tavola, con una proposta capace di alternare maggiormente sapori e consistenze.

Biennale Teatro: un faro nella notte che si erge dalla Laguna

LAURA NOVELLI | unnamedCercando punti luce mentre navigo curiosa nel mare faticosamente piatto del nostro teatro contemporaneo – e non alludo a punti luce di creatività quanto di politiche culturali e di progetti che siano, per l’appunto illuminati  – brancolo a lungo nel buio. Poi scopro il programma della prossima Biennale Teatro di Venezia e mi sembra di intravedere, per restare nella metafora, un faro promettente verso cui dirigere la barca del pensiero con quel briciolo di ottimismo che mi resta (e che ci resta). D’altronde, già l’anno scorso la rassegna lagunare, diretta dal regista catalano Àlex Rigola, aveva avuto un ottimo riscontro sulla stampa e io stessa avevo seguito alcune delle iniziative in scaletta visionando spesso i materiali on line relativi a incontri e interviste con i protagonisti della manifestazione.

Quest’anno il percorso avviato nel 2013 prosegue e si arricchisce restando ancorato ad una formula vincente, Biennale College – Teatro, e a obiettivi sicuramente nobili, tanto più in un quadro generale desolante, con una crisi che attanaglia sempre più il sistema cultura nel nostro Paese. Vengo al cuore di ciò che credo risulti saliente: nel nuovo programma (con eventi dal 30 luglio al 10 agosto) si dà ampia enfasi alla “formazione di giovani artisti” (evviva!) e se ne affidano metodologie e prassi a maestri internazionali – drammaturghi, registi, scenografi, attori – per lo più quarantenni. Dunque, uno scambio artistico che tenta di diminuire la forbice generazionale  tra discenti e docenti in un’ottica di “condivisione”, quasi a voler riposizionare la condivisione stessa al centro del fatto teatrale. Il contenitore delle manifestazioni e dell’intero progetto si articola specificatamente in otto workshop – luoghi simbolici oltre che fisici di questo scambio generazionale e formativo – e sei residenze in seno alle quali diverse compagnie giovani lavoreranno su progetti propri sempre con una filosofia di apertura verso altre realtà o personalità. A ciò si aggiunga il fatto che ogni singolo workshop trainerà una fase dimostrativa e finale fruibile dal pubblico presso diversi luoghi cittadini (tra gli altri, Teatro delle Tese, Piccolo Teatro Arsenale) mentre le residenze, anch’esse votate ad un approdo scenico, saranno ospitate nello spazio multifunzionale della Corderie dell’Arsenale, e dunque ancora un luogo simbolico e fisico dove il teatro è chiamato a condividere linguaggi, linee di ricerca, urgenze tematiche con altre arti (danza, cinema, musica architettura).

Mi sembra dunque che questa formula quanto mai eclettica e fluida rappresenti pressoché un unicum nel panorama dei festival estivi nazionali, molti dei quali annoverano sì nei loro cartelloni maestri internazionali e momenti formativo-labortoriali ma non così corposi ed eterogenei. Il legame tra percorso e approdo scenico rappresenta invece proprio il cuore della linea programmatica di Rigola, che ha chiamato a collaborare nomi interessanti della drammaturgia, regia, scenografia internazionali. Il regista lituano Oskaras Koršunovas lavorerà su “Il gabbiano” di Cechov (preso a pretesto per indagare domande fondamentali quali: chi sono gli attori, il regista? chi siamo noi stessi?);  il drammaturgo tedesco Falk Richter affronterà il tema attualissimo dell’identità in “Heritage, Gender and Identity: a complex sense of belonging”; su Federico Garcia Lorca e sul suo nuovo modo di pensare il teatro si concentrerà il laboratorio condotto da Lluis Pasqual mentre Antonio Latella promette un affondo nelle dinamiche dell’amore e dello “strappo” (partendo da quello tra madre e figlio) condotto attraverso cinque grandi storie della letteratura trasformate scenicamente in duelli fisici tra attori, come se cioè “il duello desse forma organica alla parole”. E poi interessanti idee saranno sviluppate nelle sessioni condotte dall’attore autore e regista francese Fabrice Murgia (che il 4 agosto riceverà il Leone d’argento), dal noto drammaturgo Mark Ravenhill, dallo scenografo tedesco Jsan Pappelbaum e dall’artista visivo belga Jan Lauwers (insignito, sempre il 4 agosto, del Leone d’oro alla carriera).

unnamed-3Le sei residenze vedranno invece coinvolte altrettante realtà molto diverse tra loro per linguaggi e ambiti di ricerca. Il Blitz Theatre Group (Grecia) proporrà un lavoro ispirato liberamente alla Divina Commedia e intitolato “6 a.m. How to diseppear completely”. La compagnia spagnola Zarabanda metterà mano ad una surreale storia di anziani depositati in un magazzino di organi lesionati ma ancora capaci di sognare (il titolo suona “El grito en el cielo”). Sempre dalla Spagna arriva a Venezia una compagnia dedita alle arti performative, alla sperimentazione tecnologica e all’uso di oggetti vintage, Agrupación Señor Serrano, con il suo originale “Kingdom”. Il gruppo belga Gabriella Carrizo ci parlerà di stati di incoscienza e di dimensioni parallela nel lavoro “2/insomnio”. I nostri “Ricco/Forte” saranno impegnati in una rilettura dell’Orestea (“Sangue o Stato: traiettorie verso “Eschilo”, l’emblematico sottotitolo) e, infine, desta curiosità il progetto a tre voci AdA Venezia (Author directing Author) che vede coinvolti Neil LaBute, Marco Calvani (autore e regista molto attivo all’estero) e Nathalie Filion nella stesura di tre distinte pièce che verranno poi portate in scena in un’unica serata frutto di regie incrociate: Calvani dirigerà la pièce della Fillion, questa dirigerà LaBute mentre l’autore statunitense curerà il testo di Calvani. E dunque un ennesimo investimento nell’idea che il teatro da sempre e per sua natura necessita di condivisione e scambio. Umani prima che artistici (informazioni: www.labiennale.org).

Con Cover, una scala per scalare il paradiso

CoverScala2ANNA POZZALI | In una città confusa, in chiara difficoltà, presa com’è da sgomberi e realtà culturali in precario equilibrio e incerto destino, fa quasi strano recarsi a teatro per vedere uno spettacolo che vuole intenzionalmente offrire uno squarcio di gioia e coraggio. Peraltro, riuscendovi bene.

È successo al Teatro Due di Roma in cui va in scena fino all’11 maggio Cover: staiway to heaven spettacolo di e con Caterina Genta e Marco Schiavoni.

Performance teatrale ma anche teatro canzone e spettacolo multimediale: una drammaturgia volutamente composita tra musica dal vivo, canzoni, danza, proiezioni e video performances; eppure risolta in un racconto di danze, recitativi e tredici canzoni che si possono definire oggi dei “must evocativi”: che dire, infatti, di Staiway to heaven dei Led Zeppelin, By this river di Brian Eno, Meraviglioso di Modugno e Ma che colpa abbiamo noi di The Rokes? Al loro fianco alcuni affinati esperimenti poetici come quello di Ecco canzone originale del duo Genta-Schiavoni e Canción Otoñal la poesia di Federico García Lorca musicata qui dai due artisti.

Caterine Genta e Marco Schiavoni sono gli unici interpreti dal vivo ma non i soli in assoluto: altri artisti sono intervenuti offrendo il loro contributo allo spettacolo, da Fabio Nardelli leader della Rock Band romana degli UNIPLUX che interviene in alcuni video, alla voce fuori campo di Alessandro Gassman che recita la versione italiana di Stairway to heaven, fino a Shel Shapiro che partecipa con il video Come Back. Di Marco Schiavoni quasi tutti gli arrangiamenti originali e l’esecuzione musicale, mentre a Caterina Genta spetta la traduzione, l’elaborazione dei testi e l’interpretazione vocale e danzata.

Diverse dunque le tracce narrative dello spettacolo e, tutte fluidamente concertate, si intrecciano nel racconto dedicato a Un mondo migliore, così come dichiarato dalla stessa Genta in apertura dello spettacolo: un mondo in cui si possa creder alle cose belle, una realtà complessa e onnicomprensiva nella cui molteplicità scompaiono differenze e opposizioni.  Le canzoni, i recitativi e le danze si succedono gradino dopo gradino e accompagnano lo spettatore in questa scalata al paradiso.

E se la musicalità e le canzoni coinvolgono lo spettatore in una dimensione familiare, vicina e di appartenenza, è certo nell’interpretazione danzata che si trova la chiave di volta dell’intero spettacolo, quell’attimo di slancio verso il coraggio, la gioia, la speranza e l’entusiasmo. Il movimento continuo, estremamente armonico, che si sviluppa in disegni circolari che dalle braccia diradano e si diffondono in tutto il resto del corpo sino a non distinguere più il loro inizio e la loro fine. Quel corpo silenzioso e che pure attraversa il palco del Teatro Due, così sovrastante la platea, conduce lo spettatore a sentirsi, con sorpresa, colmo di semplicità. Le video performances di una danzatrice che seguita a danzare insieme e sullo sfondo di Caterina Genta sono complici e complementari di questo continuum narrativo: le limpide immagini si fanno piacevolmente prepotenti fino ad uscire dal fondale ed espandersi oltre, sulle mura attorno alla platea e a questo punto davvero lo spettatore ne viene travolto.

Una performance certamente risolta che raccoglie dimensioni differenti e contributi ad ampio spettro: da Eros Ramazzotti a Federico García Lorca, passando per la voce di Alessandro Gassman e terminando con “A tutti i folli” di Steve Jobs. Caterina Genta e Marco Schiavoni hanno il merito di adoperare la loro esperienza, trascorsa l’una alla scuola di Pina Bausch come danzatrice solista e coreografa e l’altro dedicata alle composizioni di numerose musiche di scena e videografie, per portare avanti la loro ricerca e sperimentazione artistica verso le contaminazioni artistiche e drammaturgiche.

Impossibile allora rifuggire l’entusiasmo di questo spettacolo onesto, dalle chiare e dichiarate intenzioni, fatto di armonia corporea, voce e pienezza di immagini; impossibile non finire per crederci a questo spirito positivo, a questa gioia, o almeno a questa parentesi di equilibrio e comprensione.

2 Battuage – Quel groviglio di identità irrisolte

157_imgANNA POZZALI | Un ragazzo siciliano approdato sulle strade della metropoli in attesa del provino della vita, un transessuale che si tiene stretto quel pezzo di marciapiede conteso dalla concorrenza, un ragazzino represso che cerca, non trova, il coraggio di affrontare la propria sessualità e una ragazza greca arrivata in Italia e vittima di clienti violenti. Tutti personaggi della stessa storia, tutti protagonisti della stessa lotta per trovare la propria identità e affermarla, qualunque essa sia. Un mondo impietoso, attraversato da tensioni che oltrepassano le storie e ne disegnano i confini/contorni: l’etica, la società, l’ordine morale delle cose, gli affetti.

Questo è Battuage visto al Teatro dell’Orologio e secondo lavoro della giovanissima compagnia Vuccirìa Teatro, formata nel 2012 e già vincitrice del Roma Fringe Festival 2013 con Io, mai niente con nessuno avevo fatto. Joele Anastasi è autore, regista e interprete di questo lavoro insieme al cofondatore della compagnia Enrico Sortino, a Federica Carruba Toscano e al bravissimo Simone Leonardi. A curare i costumi e la scena composta da fetidi orinatoi è Giulio Villaggio, e le luci volutamente kitsch sono di Davide Manca.

La stesura drammaturgia procede episodica, ci racconta gli stralci di vita che attraversano quel sudicio bagno pubblico o tutt’al più si riversano sul marciapiede di fronte. Non ci allontaniamo mai dal contesto e se sappiamo di più dei protagonisti è solo perché ce lo confessano loro, quando si estraniano da quel luogo e da quel tempo per confessarci le frustrazioni e i disagi che li hanno condotti in quel torbido mondo notturno. Intensi momenti di dolore in cui il corpo, partecipe, muove da quelle parole un’energia convulsa e violenta che manca di sensualità.

Risulta quindi poco chiara la scelta dell’autore di interrompere, d’un tratto, questa narrazione riflessiva per inserire invece il finale in una dimensione meno astratta e più descrittiva: una moglie disperata e delusa uccide il proprio marito e il suo amante transessuale colti mentre consumano il tradimento; e quel matrimonio, precedentemente intravisto in una funzione religiosa che consumava l’amore dietro il racconto malato di una vita matrimoniale distorta, si scopre tardivamente essere il preambolo di una tragedia. A perdersi è il ritmo dello spettacolo e a rompersi è la tensione dello spettatore che fino a quel momento aveva preso parte al dramma dal quale, in ultima battuta, viene invece escluso: la resa dei conti viene rappresentata dai tre protagonisti di quel triangolo senza rimando alcuno al coinvolgimento emotivo dello spettatore.

Il viaggio nell’animo umano e nelle sue fragilità termina dunque bruscamente ma non perde di significato perché quel che ci resta addosso di Battuage è il senso di decadenza che qui assume forme estreme (comunque non lontane dalla realtà), parlandoci di qualcosa che oggi conosciamo bene: di Salvatore è pieno il mondo, di ragazzi che si consumano in attesa del treno di una vita e che, impreparati, puntano alla fama più trash pensando così di risolversi. Oppure la smania di piacere, attrarre, e nel senso più malato del termine: sensualità ed erotismo sono i nuovi precoci terreni di sviluppo di relazioni. Ma, ancora di più, l’incapacità di questo mondo di comprendere la diversità: la libera sessualità è ancora considerata dai più una visione distorta dell’ordine delle cose che appartiene al senso comune, disturba la quiete pubblica e rimesta le abitudini.

Questo viaggio oltre la moralità così sfacciato è più sincero di noi.

1Battuage – Se non resta che il sesso per sentirsi vivi

Battuage_1541LAURA NOVELLI | Una schiera di orinatoi appoggiati su quinte girevoli che si trasformano in camerini a vista dove svestirsi e truccarsi, o in recessi misteriosi per incontri sessuali a pagamento. Al centro, uno spazio performativo ritagliato nel nero e adibito a palcoscenico televisivo dentro il cui recinto urlare la propria rabbia, masticare la propria disillusione, confessare al pubblico l’indicibile. Si celebra qui il macabro rito sociale che Vucciria Teatro disegna in “Battuage”, secondo lavoro della compagnia siciliana vincitrice del Roma Fringe Festival 2013 e del Bando 2014 Stazioni d’Emergenza/Nuove Creatività di Galleria Toledo con quel “Io, mai niente con nessuno avevo fatto” che già raccontava storie crude di emarginazione e diversità ed esprimeva gli esiti di una ricerca drammaturgica interessante.

Questa nuova incursione nel disagio, nella perversione, nell’ambiguità di una strada che non fa sconti a nessuno, debuttata in prima nazionale al teatro dell’Orologio di Roma nell’ambito di “Dominio pubblico”, porta sempre la firma del venticinquenne Joele Anastasi (autore, regista e interprete) e insieme con Enrico Sortino (cofondatore del gruppo) e Federica Carruba Toscano, entrambi nel cast anche della precedente produzione, recita Simone Leonardi. Personalità sceniche molto diverse tra loro, e tutte capaci di una generosa energia emotiva e fisica, che tuttavia insieme restituiscono il dolore di un’umanità sbranata dal destino, dai sogni di successo, dall’acre necessità di vendersi per riconoscersi: uomo o donna, giovane o vecchio, sposato o celibe, italiano o straniero non fa differenza, tanto un angolo di solitudine spetta a ciascuno.

Il re di questa strada buia, continuamente allusa attraverso un linguaggio volgare e violento, parrebbe essere Salvatore (lo stesso Anastasi): slip neri, tacchi vertiginosi, giubbino in pelle indossato come una rock star, Salvatore è scappato dalla Sicilia per fare l’attore e invece è finito a battere su un marciapiede e aspetta da dieci anni che qualche cliente lo presenti alle persone giuste. E’ arrabbiato, inquieto, sconvolto ed urla la sua disperazione attraverso un microfono che amplifica i passaggi più lirici e personali di questa scrittura a tratti secca e a tratti poetica, dove però si insinua spesso una tendenza ad essere troppo espliciti, troppo diretti, troppo morbosi. Tanto che anche la potenza degli altri personaggi – il transessuale romano e il marito gay di Leonardi, la prostituta greca e la moglie omicida della Carruba Toscano, il giovane cliente incappucciato e il trans siciliano di Sorvino – viene messa talora a repentaglio da una sorta di barocchismo scenico che rischia di diradare l’attenzione del pubblico. Fatta salva, tuttavia, la forza di una visione che mostra promettenti segni di originalità e che, aprendo l’immedesimazione a continui intarsi brechtiani e cabarettistici, approda ad uno spettacolo di varietà – per certi versi simile a “Le variabili umane” della compagnia Atopos – dove a tratti e all’improvviso rifulge una verità autentica. E’ proprio in questi scarti che si annida la genuina bellezza di un lavoro forse ancora acerbo ma carico di suggestioni grottesche. Basti pensare alla scena del compleanno di Salvatore, con quella torta che rompe il gelo dell’ennesima notte di marchette e mette a nudo l’angoscia esistenziale di un ragazzo fragile che soffia sulle candeline e piange e ride, e ride e piange. E un pensiero corre alla struggente poesia de “Le cinque rose di Jennifer” di Annibale Ruccello.

Livada de Visini (Giardino dei Ciliegi) – il videoreport dalla Romania

Cluj_1ANDREA CIOMMIENTO | Di sera in sera gli attori e le attrici del Teatro Nazionale di Cluj (Romania) interpretano diligentemente i loro personaggi all’interno di una macchina che macina decine di spettacoli al mese grazie a una schiera di tecnici capaci di far sparire intere scenografie in due ore e mezza senza battere ciglio. Al comando piramidale dell’intera struttura il regista di ogni produzione designato temporaneamente alla direzione del gruppo stabile in questo agire per punti meccanici.

Partiamo dall’Italia insieme allo staff della Fondazione Pontedera Teatro per il debutto romeno del Giardino dei Ciliegi (Livada de Visini) diretto da Roberto Bacci. Il regista ha già lavorato con alcuni attori di Cluj nel suo precedente Amleto e in questo ritorno allestisce l’opera cecoviana portandone in scena tredici tra nuovi e vecchi collaboratori.

La trama in sé si esaurirebbe in cinque minuti ma Cechov ripiega l’opera in una ragnatela di relazioni che nel lavoro allestito fioriscono dinamicamente. Nel primo atto imposta la partita, chi è chi, e quale ruolo interpreta. Prima di esaurire le informazioni passano cinquanta minuti. Dal secondo atto osserviamo il grande incontro con la paura, la natura, il mondo che arriva (la Russia), la presenza dei viandanti, la musica e i violini che si spezzano per un suono morente e non materiale fino alla perdita del giardino.

Cluj_2L’idea generale dell’allestimento è lo spazio vuoto, una specie di deserto dei ciliegi in cui gli attori sono armati di valigie, segni materiali dell’arrivo e della partenza. La definizione di casa è legata strettamente alle relazioni tra i personaggi e non tanto a una costruzione dal punto di vista scenografico, riducendo l’intera scena a un luogo di passaggio con un ponte che attraversa la platea e che rappresenta il viale.

Dal punto di vista della direzione teatrale i ciliegi sono gli spettatori e il teatro è l’armadio della famiglia che nell’opera ricordiamo essere l’omaggio di Gaev. L’armadio centenario detiene tutte le storie e i ricordi, una iperbole propria del personaggio di Gaev che nasconde la verità e che scomparirà insieme al giardino e alla memoria della famiglia stessa. I ciliegi sono il passaggio transgenerazionale, il proseguimento del proprio destino inseguito da Lopachin per la costruzione di un futuro malgrado la distruzione del presente. Risaltano poi Charlotte e le sue magie decise a deformare la realtà in una particolare forma di realizzazione dell’esistenza attraverso l’inganno e Liujba con un’affettività stretta alla prostituzione emotiva e sentimentale in fuga dalla consapevolezza di sé.

Qui il giardino non è fermo ma vive la mutazione del suo tempo. Si fa segno di una conversione generale dell’essere umano nella storia, un discorso sociale di classi che si succedono l’una all’altra, un passaggio sulla proprietà e sull’identità di chi è padrone o fantasma della sua epoca.

Il nostro videoreport racconta le ultime ore prima del debutto con immagini del backstage, dello spettacolo e l’intervista a Roberto Bacci:

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=-F42Ql5LtGo&w=560&h=315]

Morire in volo: Iacopo Braca fuori dal Sotterraneo, oltre il palcoscenico

iacopo bracaMATTEO BRIGHENTI | Fare, dire basta, lasciare, telefonate, testamento. Il 25 aprile scorso, giorno della Liberazione, Iacopo Braca si è liberato dei riflettori. “Da un anno sono fuori dalle nuove produzioni di Teatro Sotterraneo. Ho continuato a fare le repliche dei vecchi spettacoli, ho portato avanti progetti artistici miei, ma a ottobre dirò addio al teatro. Non andrò più in scena, con nessuno.”

Il regista, attore e performer fiorentino adesso vuole essere e fare altro. Morire in volo. 17 anni di teatro, alla Residenza per anziani “Il Giglio” di Firenze, è il primo passo: un “harakiri” condiviso per guardarsi dentro, elaborare i perché di una scelta, comunque definitiva, attorno a un tavolo con estranei e amici, poi maestri, colleghi, amori di una carriera sulla scena “presenti” al cellulare, via Facebook e Skype. Tutti o almeno quelli raggiungibili in 5 ore, dalle 11 alle 16 (poi diventate 18). Da Roberto Corradino a Laura Dondoli, da Giancarlo Cauteruccio a Benno Steinegger a Luca Camilletti.

“La mia non è una scelta di tipo economico, è di vita. Ho nuovi interessi, nuove visioni. Rimanere dov’ero mi è sembrato un limite, anche perché, secondo il mio punto di vista, l’ho già vissuto alla grande.”

Braca parla con serenità spiazzante, ha 34 anni, ma ha già raggiunto ciò che voleva: insieme al collettivo Teatro Sotterraneo www.teatrosotterraneo.it (fondato a Firenze nel 2004 con Sara Bonaventura, Matteo Ceccarelli e Claudio Cirri, ai quali si è unito in seguito Daniele Villa) ha vinto, tra gli altri, l’Ubu Speciale, ha diretto un’opera lirica, Il signor Bruschino di Gioachino Rossini per il Rossini Opera Festival, ha avuto insomma successo, di critica e di pubblico.

“A me è sempre interessato il pubblico. Prima di entrare in scena contavo le persone per capire a quanti arrivava il nostro messaggio. Il teatro è un ottimo mezzo per comunicare. Mi dispiace, però, per i contesti in cui l’abbiamo fatto, sarebbe stato bello andare in spazi con bacini di utenza più ampi.”

Forse è per questa sua “ossessione” di comunicare al maggior numero di persone possibile che anche la scelta di abbandonare il teatro è diventata teatro. L’occasione si è presentata con il progetto Esperimento deserto (http://esperimentodeserto.wordpress.com), liberamente tratto da Il deserto dei Tartari di Buzzati, un percorso di residenze in spazi teatrali e non che affronta il tema della passione, ideato, realizzato e condotto dal compagno d’avventure Alessio Martinoli (Braca l’ha diretto in Fight_tentativi di sopravvivenza dell’essere umano e in Fallo! Un omaggio a Lenny Bruce). Martinoli lo ha invitato a parlare del suo romanzo preferito, lui ha scelto Lo straniero di Camus e ha proposto di usare la giornata per riprendere in mano le tessere del puzzle della sua biografia teatrale e scrivere il libro di cui parlano da mesi. Hanno chiamato quindi il drammaturgo Lorenzo Garozzo (Premio Hystrio scritture di scena 2013 per JTB), con cui hanno collaborato per una delle declinazioni di Fight: sarà lui a sostenere, con Martinoli, lo sguardo e le domande di Braca, lui metterà ordine e darà forma a questa confessione-spettacolo. Così è nato Morire in volo. 17 anni di teatro.

Una telefonata dietro l’altra, Braca scorre i “grani” della sua formazione, gli inizi con Stefano Massini, l’incontro con Claudio Ascoli e la scoperta del teatro fisico oltre quello di parola, la prestigiosa collaborazione con il Living Theatre, finché un giornalista non gli dice: “Che fai? Questa roba è vecchia di 30 anni!” È l’estate del 2004. Deve decidere: partire con loro per New York o dedicarsi seriamente a Teatro Sotterraneo, che ha già fondato per “condividere un percorso con degli amici”. Braca sceglie di dare una possibilità al futuro. “Dobbiamo tutto alla nostra freschezza, all’immediatezza, al lavoro sul ritmo, sulla frammentazione totale come in Post-it e sull’opportunità di far entrare lo spettatore in maniera semplice, anche con una risata. Questi sketch, propri del teatro comico, ma virati sull’ironia, con la possibilità quindi di essere anche seri, erano una novità.”

Poi, finisce la spinta, il razzo perde propulsione, i giorni chiusi in sala-prove diventano un’astrazione dal mondo insopportabile, il sistema si mostra in tutta la sua falsità. Le vie d’uscita per Iacopo Braca sono state il suo matrimonio e la pedagogia: insegnare a dire una cosa e dopo farla, portare avanti obiettivi artistici che abbiano delle ricadute sulla propria vita. “Voglio utilizzare la mia esperienza nell’ambito della formazione. A fine giugno metterò online la mia nuova attività. A ottobre saluterò per sempre il palcoscenico.”

Braca, dunque, dice addio al mestiere del teatrante, non alla disciplina, alla quotidianità, non alla convinzione di stare facendo qualcosa per gli altri, con gli altri, attraverso di sé. Il suo allora non è un abbandono: è la ricerca di una nuova forma di fare teatro. Libera, vera, concreta. Altrimenti, come dice Kostja ne Il gabbiano di Čhecov, meglio niente.

Orphans, una ragnatela che trattiene anche le emozioni

orphansVINCENZO SARDELLI | Orfani di genitori. Orfani soprattutto di valori. Sono i protagonisti di Orphans, pièce teatrale di Dennis Kelly che abbiamo visto allo Spazio Tertulliano di Milano, con Alice Redini, Dario Merlini e Umberto Terruso. Lo spettacolo, con regia di Luca Ligato, presenta le nevrosi di due fratelli verso la trentina legati da un rapporto disfunzionale, un’infanzia trascorsa all’orfanotrofio, chiusi in quel che resta della loro famiglia d’origine. Complici, fino alla collusione.

La scena è una tavola imbandita, sedie e tavolo bianchi. Bianchi come l’intreccio di corde sullo sfondo, intrico, intrigo, ragnatela mortifera. Come la patina di rispettabilità che avvolge il loro tranquillo milieu borghese.

Danny ed Helen, una giovane coppia in dolce (con una punta d’agro) attesa, si accingono a cenare. Irrompe Liam, fratello di lei, agitatissimo, la maglietta sporca di sangue. Qualcuno è ferito, potrebbe essere morto. Che fare? Prestargli soccorso? Chiamare la polizia? Far finta di niente? Soprattutto: qual è il ruolo di Liam nella vicenda?

Inizia un estenuante scaricabarile, un palleggio di ricatti morali che cristallizza la situazione allo status quo. La maglietta di Liam scaraventata in lavatrice, con tanto d’occultamento delle prove del reato, è metafora di una realtà ipocrita avvitata in se stessa. Liam nasconde scheletri nell’armadio, ma anche sorella e cognato non scherzano: i suoi sono solo più smaccati.

Ognuno cela un lato sordido. Ognuno si adegua al cinismo altrui. È un “armiamoci e partite” della moralità. Anche il cibo è allegoria di rimorsi da soffocare: una mangiata li seppellirà.

La coscienza abbrutita porta i protagonisti alla quiescente accettazione del peccato: si chiama omissione. Ognuno delega, tutti lasciano la palla a tutti. Danny prova a uscirne, ma è uno slancio morale velleitario. Rinuncia: per quieto vivere, per tiepidezza, perché assorbito negli ingranaggi al ribasso dei due fratelli. Prevale la scelta di non osare. L’adeguamento è resa, è colpa. La verità viene a galla, con un retroterra di violenza, qualunquismo, sospetti e razzismo. In questa famiglia mettere al mondo un figlio non sarebbe dono ma coazione a ripetere.

Questo testo ha qualcosa della catarsi delle tragedie classiche: rifiutiamo l’abiezione, l’ipocrisia, il cinismo mascherato da pietas familiare. Ma la qualità globale dello spettacolo non convince. I dialoghi saranno pure realistici, ma anche ripetitivi, soprattutto ai fini di una drammaturgia. I protagonisti sono schematici, privi di sfumature, prevedibili. Tipi, più che personaggi: il contrario della bugia non è la verità, ma la complessità. La stessa recitazione, i gesti, sono meccanici. Non emerge questo grande amalgama tra gli attori, che ogni tanto provano a regalare la vibrazione di pancia, con accessi d’ira inconsulti e scoppi passionali che appaiono però premeditati, poco spontanei. La regia è senza sussulti, partendo dai suoni e dalle luci.

C’è spazio per la catarsi, riflettiamo su una società contemporanea in via d’implosione. Le emozioni, però, sono un’altra cosa.

Un metodo errante per l’infanzia: Conversazione con Chiara Guidi/Socìetas Raffaello Sanzio

Chiara guidi FRANCESCA GIULIANI | Terminata la quarta edizione delle giornate di puericultura teatrale a Cesena, Chiara Guidi ci racconta “Puerilia”, un festival che nasceva con l’intento di dilatare la visone che sta attorno alla concezion del teatro dell’infanzia.  

PAC: Partiamo dal termine “teatro dell’infanzia”. 

CHIARA GUIDI: Ho sempre utilizzato il termine “infanzia” perché indica non tanto una tipologia di età, una generazione, ma una predisposizione a vedere le cose sospendendo l’uso immediato della ragione. Nel bambino la distanza tra la percezione e il ragionamento è breve. A guidarlo nell’esperienza del mondo è la logica della sensazione, la stes
sa che dà voce al movimento messo in moto dall’opera. L’infanzia, è, per me, parte integrante del lavoro artistico perché mette in campo quello sguardo che sento la necessità di riacquistare: lo sguardo dell’immaginazione.

PAC: Da festival a giornate di puericultura teatrale: com’è avvenuto il passaggio?

CHIARA GUIDI: “Puerilia” si è inserito come una presenza anomala all’interno del programma teatrale che il comune di Cesena organizza per le scuole. Volendo scardinare la logica del teatro cosiddetto “per ragazzi”, sentivamo la necessità di azzardare una forma che facesse scaturire una relazione diversa tra l’arte e l’infanzia e ci chiedevamo come il teatro di ricerca potesse soddisfare le richieste di un teatro rivolto ai bambini. Ho invitato gruppi teatrali contemporanei, tra i quali i Pathosformel, i Santasangre, e ho inscritto i loro spettacoli di ricerca in una precisa cornice all’interno della quale si potesse scatenare un racconto. Questo perché il rapporto con l’infanzia, oltre ad avermi ricordato l’urgenza di verità di cui necessita il racconto, mi ha fatto comprendere che l’unico modo possibile per creare una relazione con il bambino è attraverso la narrazione. Da festival “Puerilia” si è, poi, cambiato in giornate di studio dedicate all’infanzia in relazione al teatro e, in generale, all’arte. È questo il momento in cui ho cominciato a riflettere su quale sia il metodo che mi ha guidato e mi guida, tutt’oggi, nel lavoro con l’infanzia.

PAC: Com’è avvenuta la strutturazione del Metodo Errante?

CHIARA GUIDI: Sentivo che per parlare della nostra ricerca teatrale dovevo mettere a fuoco il metodo che sottende la nostra pratica artistica che già dalla fine degli anni Ottanta si è rapportata con l’infanzia. La nostra attenzione è rivolta a un tipo di spettatore che non è il bambino ma uno spettatore che accetta di vedere nella forma teatrale un principio di movimento. La forma teatrale, l’arte in generale, mette in moto l’immaginazione di chi guarda. L’arte ci chiama a entrare dentro e questo è ciò che noi le chiediamo, di entrare in un’altra visione possibile della realtà. È da questa condizione che parto per interrogarmi sul chiamare i bambini all’arte. I bambini non ci chiedono arte, ma una relazione d’arte, che porta a un vedere e percepire la realtà da un’altra prospettiva.

PAC: Il Metodo Errante mette in gioco tre figure: i bambini, gli insegnanti e gli attori. Partiamo dai corsi di aggiornamento per gli insegnanti delle scuole di Cesena.

CHIARA GUIDI: All’inizio della cultura umana, era per intuizione immaginifica che l’uomo poteva conoscere. Quest’immaginazione, oggi, non è più l’oggetto della nostra conoscenza. Pensando, ad esempio, alla scuola, è difficile che un insegnante si rivolga a un bambino da un’angolazione immaginifica, anche se, per attirare l’attenzione sul bambino, è necessario utilizzare il suo sguardo e quindi accettare che l’immaginazione diventi una forma di conoscenza. Questo è ciò che ho proposto agli insegnanti: una visione di arte che mettesse in relazione la reazione del bambino rispetto all’oggetto artistico. Ho iniziato con il Potere analogico della bellezza, quindi la metafora; poi, il Potere analfabetico della fantasia, quindi la sospensione del ragionamento, e quest’anno, il Potere anacronistico dell’anima.

PAC: Che cosa intendi per anima? 

CHIARA GUIDI: L’anima è difficile da poter circoscrivere come definizione, se non ricorrendo agli antichi, ai filosofi, eppure ci riguarda. Rispetto a una sensazione che nasce spontanea all’interno del proprio corpo, l’anima è l’innamoramento, la scintilla che guida l’espressione attraverso delle rappresentazioni, delle immagini, degli inseguimenti, dei contatti, delle sospensioni. Si tratta di un atto d’amore, com’è un atto d’amore che lega l’artista all’opera d’arte, com’è un atto d’amore quello che porta un bambino a giocare scoprendo nella forma della sedia un cavallo.

PAC: Che tipo di rapporto creativo instauri con gli attori?

CHIARA GUIDI: Con gli attori c’è una fase preliminare d’incontro. Mi presento davanti a una quindicina di attori il venerdì prima dello spettacolo, racconto una vaga traccia di quello che vorrei realizzare e attraverso di loro individuo dei ruoli. Gli consegno l’incipit di uno spettacolo di cui non conosco il corpo. Poi il venerdì notte lavoro, il sabato si prosegue, la domenica mattina nasce il finale e nel pomeriggio si va in scena. La preparazione è velocissima e c’è il rischio di incontrare attori che non hanno quella capacità di cui ti aspetteresti, ma qui sta l’abilità, nel poter far emergere una verità.

PAC: Come organizzi lo spettacolo in previsione dell’ingresso dei bambini in scena? 

CHIARA GUIDI: Ho assunto nella forma di preparazione degli spettacoli le caratteristiche del gioco infantile e il gioco, quando nasce, è spontaneo. La struttura che scrivo concepisce la reazione del bambino e so, grazie all’esperienza, alla maternità, che il bambino è una figura d’arte che va a completare la struttura che metto in moto. La struttura è in potenza, è la geografia del luogo, è la messa a fuoco dello spazio entro il quale poter agire e suscitare l’azione. Non creo lo spettacolo per il bambino ma con il bambino che viene a completare una struttura che lo attende.

PAC: “Non possiamo creare osservatori dicendo ai bambini: “Osservate!”, ma dando loro il potere e i mezzi per tale osservazione, e questi mezzi vengono acquistati attraverso l’educazione dei sensi”, scriveva Maria Montessori. Se per insegnati e attori, gli adulti, il Metodo Errante è un andare verso, con i bambini si tratta di un errare per, a favore di uno spettatore futuro, anche?

CHIARA GUIDI: Perché dobbiamo dire “Osserva!” se lo sguardo lo mettiamo già in atto vivendo in un ambiente che ci invita, costantemente, all’osservazione? La distanza che creiamo tra la parola e l’azione non fa altro che ritardare una responsabilità personale rispetto alla realtà e alle cose che ci circondano. Se noi ritorniamo a una visione personale della realtà, se torniamo all’autorevolezza della persona e a una personalizzazione della cultura, allora possiamo creare non solo uno spettatore futuro, ma anche un uomo in grado di vedere, nella realtà, quello che la realtà nasconde. C’è un processo metaforico tra me e l’oggetto che guardo, che anche la scienza riconosce attraverso la sistematizzazione di leggi che rivelano uno sforzo per vedere oltre la realtà. Questa è, anche, la capacità dell’arte: dire cose che diversamente non si potrebbero dire. Come potrei parlare della morte al bambino se non avessi l’arte? Come potrei parlargli delle relazioni litigiose tra famigliari, che magari vive, se il teatro non mediasse sublimando questa separazione con il gioco? Come la favola, l’arte diventa una proposizione interessante da rivolgere al bambino per evitare di dirgli “Osserva!”, ma perché quell’osservare diventi una pratica.