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giovedì, Marzo 28, 2024
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«Talita kum»: Valeria Sacco e il respiro della vita

talitaVINCENZO SARDELLI | Se nel teatro di parola bisogna capire per emozionarsi, in Talita kum, spettacolo di figure che la compagnia fiorentina Riserva Canini ha riproposto alla Zona K di Milano, accade il contrario. Occorre aprirsi alla fascinazione emotiva per afferrare il senso delle parole non dette. Così si possono penetrare i segreti di un’arte che unisce vali stili: il teatro su nero, le marionette, le ombre orientali.

Essenzialità, rigore di un linguaggio che ha nella sintesi e nella suggestione la sua forza espressiva, sono i caratteri di questa performance. Bravissima Valeria Sacco, accompagnata alla regia da Marco Ferro, a comunicare la molteplice forza poietica della bellezza (il profumo dei fiori, il potere vitale dell’acqua, una mela edenica, il fluire del tempo evocato da una sveglia) come allegoria del passaggio dall’ombra alla luce, dall’inanimato al respiro, dall’ignoranza e incoscienza al sapere rischiarato dal senso estetico e dal sentimento.
Dalla morte all’amore, dall’incubo al sogno alla vita. La vera comunicazione avviene nel silenzio: le parole creano equivoci.
La potenza del gesto e degli sguardi impregna Talita kum (in aramaico «svegliati bambina») liberamente ispirato all’episodio evangelico della figlia di Giairo, la bimba morta ridestata da Gesù. Un lavoro immateriale sulla doppiezza che ci contrassegna in quanto uomini.
La scena stessa richiama lo sdoppiamento. Sin da quel velo conico sullo sfondo, che, animato da luci gialle, rosse, azzurre, crea giochi d’ombre sotto le intimistiche note polistrumentiste di Luca Mauceri, Eleonora Pellegrini e Stefano de Ponti che emergono dall’indistinto. Sin da quella valigia in primo piano, contenente oggetti incoerenti (fiori, frutti, acqua, scarpe, sciarpa, una radio che non si sintonizza) metafora di un viaggio indefinito.
Con un pesante costume nero, nel buio della scenografia, una claudicante e imponente creatura scura tenta con fatica di trasferire l’alito vitale a una vermiglia creatura inerte, trasformando il proscenio in evocazioni bizzarre e immaginifiche. Lui e Lei sulla scena, robot disarticolati, manichini in equilibrio precario, in bilico tra danza e amplesso, trasferiscono l’uno nell’altra un’energia che sulle prime non diventa forza semovente. Poi sono le note sfolgoranti del Valzer sentimentale di Ciaikowsky a far emergere Lei dall’inverno esistenziale. A farle arpionare il respiro della vita.
Magistrale quest’arte del mimo, questo chiaroscuro psicologico che raggiunge il pubblico senza una parola. Non a caso Riserva Canini ha già portato con successo questo spettacolo in Colombia e Turchia, e ora si accinge a una tournée in Indonesia. Potenza insuperabile della mimica. Della musica. E della poesia.

Serve andare a scuola per chi fa arte? un videoreportage

civilta italianaRENZO FRANCABANDERA | Che praticamente l’incognita dell’artista è sempre quella: serve studiare per fare arte? O l’artista in quanto titano fatto di polvere di stelle, ha in sè, nel suo istinto, l’assoluto creato e creatore?
Me lo domandavo alla macchinetta del caffè in ufficio e meno male che la mia Michela sempre mi conforta, puntellando argomentazioni velleitarie con conoscenza vera. Fra i due, chi legge e sa è lei. Seleziono nr 14 alla macchinetta, 0,40 cent per un caffè macchiato: per chi fa scienza, conoscere il pregresso è necessario, perchè nulla nel progresso scientifico può arrivare che non sia stato preceduto da uno step di conoscenza precedente cui il nuovo teorema, la nuova congettura, anche quando di rottura e rivoluzionaria, si colleghi.
E lei: questo lo dice anche Ray Kurzweil in Come creare una mente – i segreti del pensiero umano!
io: addirittura? Allora non è una cazzata…
Lei: Certo che no: secondo lui il progresso di scienza e tecnologia segue un ordine gerarchico e questo consente che ci sia chi sviluppa teorie anticipatorie che fanno da base per quelle successive. Fa l’esempio di Darwin che “affrontò il problema di definire una teoria generale delle specie tracciando un’analogia con la tesi di Lyell, per spiegare i cambiamenti graduali delle caratteristiche delle specie nell’arco di molte generazioni”. Lyell, cui Darwin riconosce il debito di pensiero, “aveva avanzato “l’ipotesi che fosse stato proprio il moto delle acque a incidere” valli enormi e dirupi come il Grand Canyon “nell’arco di lunghi intervalli di tempo, in sostanza asportando un granello di roccia alla volta”.
Einstein stesso ha elaborato le sue teorie che hanno ribaltato una immagine del mondo fisico che resisteva da due secoli influenzando profondamente il corso della storia basandosi “su una serie di scoperte sperimentali del diciannovesimo secolo” (Quelle del 1803 fatte dal matematico inglese Thomas Young grazie al quale si era stabilito che la luce è composta da onde”; “l’esperimento condotto nel 1887 con cui gli scienziati americani Albert Michelson e Edward Morley che avevano cercato di confermare l’esistenza dell’etere”).
io: beh allora dammi gli estremi della citazione che poi quando scrivo il pezzo faccio vedere che leggo un po’, dai…

Dall’altro canto penso allora che per chi fa arte la scuola potrebbe non servire, perchè l’arte attiva forme di pensiero diverse, non necessariamente gerarchizzate e legate a ciò che ci ha preceduto. Certo anche Leonardo è andato a bottega da Verrocchio, ma se aspettavamo Verrocchio per pensare all’elicottero… E così anche Caravaggio, o Shakespeare, e Boccioni, e Picasso. La libertà istintuale del gesto artistico ha in sè qualcosa di talmente animale che in fondo è come un diamante grezzo, che al più ha bisogno di una pulizia da parte di un severo (ma bravo) maestro, come Pai Mei in Kill Bill, che odi per due anni e poi capisci che aveva ragione, e se un giorno hai un’arma per svoltare nella vita lo devi a lui. Ma per fare arte la scuola forse è un corollario all’istinto. Basta solo capire dove sta la propria indole profonda.
io: e questa cosa qui l’ha detta qualcuno?
Lei: Si, sempre Kurzweil dice che “Il mondo dell’arte in effetti è più avanzato del mondo della scienza per quel che riguarda il riconoscimento della potenza del sistema percettivo umano”.

Il pensiero mi è venuto perchè da un mesetto mi giro per le mani il materiale riguardante un incontro fra le scuole di teatro presenti a Milano, favorito da Officine Creative, una delle realtà fondanti il progetto OCA presso le Officine Ansaldo. L’evento era stato a suo modo interessante. Certo breve. Ma un momento per rompere il ghiaccio, aprire all’esterno, e potrebbe sviluppare suggestioni su metodi didattici, rapporti con e fra i docenti e gli studenti. Certo loro sostengono che la scuola serva. Per molti dei partecipanti, gli anni passati nelle scuole di teatro sono spesso riconosciuti come anni positivi, di formazione necessaria. E anzi (questo lo dico io buttando il bicchiere di plastica nel bidoncino della differenziata e tornando a sedere), a volte fra gli attori italiani e quelli stranieri si avverte una differenza di preparazione e studi, quasi che quelli tedeschi, o spagnoli, o inglesi, sappiano mettere più abilità al servizio dell’arte, conoscendo canto, musica, ed essendo dotati di skills fisico-performative più strutturate, tutte cose ovviamente studiate. Insomma, è come se gli italiani se la tirassero un po’ troppo, sapendo fare meno.
Ciò non dipende solo dai cattivi maestri, quanto piuttosto dalle velleità di un popolo capace di trovate spesso geniali, ma anche di un’armata furberia con cui spera di restare sempre a galla. Mi viene in mente il Palazzo della Civiltà Italiana all’EUR, la frase tutto intorno con gli italiani poeti, artisti e navigatori. Allora torno alla scrivania, e capisco che non c’è speranza. E che forse agli altri può anche non servire la scuola, ma per gli italiani è meglio di si. E anche con insegnanti adeguati. Di questi ultimi chiedere un curriculum, assistere a lezioni di prova, cercare chi fa faticare, insomma.
Il resto è legittimo sempre, ma è divertimento.

Il nostro video reportage 

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L’irresistibile fascino del Male

MARIA CRISTINA SERRA | manifestoLa violenza quotidiana in tutte le sue forme riempie il vuoto dell’animo umano, lo ingloba in spire asfissianti come un famelico serpente di morte e appaga la “bestia assopita” che alberga dentro di noi. Il male sta uscendo dai labirinti del sottosuolo, laddove l’aveva sospinto la legge dell’ordine sociale che a tutti prometteva benessere. La cronaca racconta di casi di follia individuale; la realtà è che il cuore nascosto della società sta esplodendo.
L’illusione che il male fosse ormai una categoria archiviata nel museo del Novecento è sfatata: la verità è che era solo lo sguardo dell’indifferenza a non vedere che crudeltà e crimini continuavano latenti a tessere le loro trame con le ordinarie esistenze; ad assumere forme mostruose che svolazzano sul dormiente ignavo, come nella celebre incisione di Francisco Goya, “Quando il Sonno della Ragione Genera Mostri”. Grigia profezia che ancora dopo due secoli mantiene inalterata la sua forza critica e spicca come un’icona del pensiero moderno fra i tanti capolavori esposti nella mostra “L’Ange du Bizarre. Le Romantisme Noir de Goya à Max Ernst”, al museo d’Orsay  (fino al 9 giugno).

Il titolo è mutuato da un racconto del fantastico di Edgar Allan Poe, che prolunga le sue ossessioni nella realtà visibile, seminando il dubbio che le inquietudini spettrali uniscono i confini della vita alle invenzioni letterarie. E’ anche il lato oscuro del romanticismo narrativo di Schelley, Walpole, Radcliffe, Goethe, Hoffmann, Barbey d’Aurevillye, Bram Stoker, che si nutre dell’irrazionale e scava negli abissi inesplorati dell’inconscio, prima di Freud, a definire un’epoca e a creare l’atmosfera inquietante in cui si snoda il percorso espositivo raccolto in tre sezioni: Romanticismo, Simbolismo, Surrealismo.

A conquistare il pubblico sono anche le proiezioni di 12 pellicole dagli anni ’20 ai ‘40, che hanno scritto la storia dell’horror, aprendo la strada al “Dark Fantasy” e agli effetti speciali dell’industria dell’evasione e del divertimento odierno.

FussliE’ un film espressionista de ‘22, “Nosferatu” di Murnau, ad introdurci nell’itinerario fra le vertigini dell’ignoto e del soprannaturale, dell’orrido, del grottesco, del sublime e del passionale in un crescendo di fascinazione tra sogno e realtà. “Il cinema di Murnau e di Lang, di Bunuel e Hitchcock è pieno di riferimenti”, spiega Fabre, Commissario dell’expo. “Il cinema svolge un ruolo cerniera: fa entrare l’arte romantica nera e la letteratura ermetica dentro la cultura di massa e nell’immaginario collettivo con prolungamento all’oggi”. Fu Mario Praz negli anni ’30 con “La carne, la morte e il diavolo” ad accostare l’aggettivo nero al romanticismo e a definire “una corrente di pensiero non chiusa in un periodo e in uno stile che nasce fra i tormenti rivoluzionari alla fine del ‘700 e si prolunga nel ‘900, non ancora identificabile nella storia dell’arte; ma speriamo che, l’aver riunito per la prima volta delle opere sparse in vari musei, possa rianimare la corrente sotterranea che le anima”.

E’ il soffio soprannaturale di Fussli, il suo erotismo gotico ed enigmatico, l’ambiguità e la teatralità dei suoi inferni a rapirci. “L’incubo” ha le sembianze della bella abbandonata fra i drappeggi, violata dall’orrida bestia raggomitolata sul suo ventre. Desideri bestiali lottano nel dormiveglia contro la soglia delle inibizioni. Il suo universo sadico assume le forme di “Satana che dialoga con Belzebù” e delle “Tre streghe” di shakespeariana memoria che puntano il dito sulla vaghezza delle certezze. Gli sguardi irrituali e dissacranti degli artisti sperimentano fino allo spasimo quei varchi di libertà spalancati dall’Illuminismo, ma la loro Ragione è mediata dall’accettazione delle pulsioni viscerali dell’animo umano, come forze di rotture e di equilibri. Notte e alba, morte e bellezza, si alternano con visioni contrastanti. “Due sorelle ugualmente terribili e feconde” per Victor Hugo. L’inventario della perversione umana si impasta di fango, colore e sangue in Goya; ha la potenza atroce dei “Cannibali” e l’orrore del “Volo delle streghe”; vive degli scontri titanici di Gericault; si occulta dietro ”L’ombra di Margherita” di Delacroix. I paesaggi desolati di Spilliaert e di Munch stordiscono, gli interni spogli di Vuillard disorientano, come le fitte foreste pietrificate di Max Ernest, i deliri onirici simbolisti di Moreau e le fantasmagorie veriste del “Cielo assassino” di Magritte.

Il tempo qui all’Orsay è azzerato. Il passato si tinge di eterno presente, la nostalgia si fa poesia mentre la barca di Bocklin si avvia, nella quiete sospesa e irreale dell’orizzonte, verso “L’isola dei morti”, circondata da impenetrabili falesie.

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Mondocane#9 – Questo non è teatro

ammazzaMARAT | Io volevo parlare di Buenaventura Durruti. Una di queste volte ne parlo. Perché pensare agli stalinisti che si sparano con gli anarchici mentre dal cielo piovono le bombe nazifasciste, mi fa sempre salire un po’ il sangue alla testa. Credo che sia una metafora di tante (possibili) cose. O forse mi piace vederla così. Ma poi è uscita la sentenza di Stefano Cucchi. E ho cambiato idea. Non so perché ma sono andato a rileggermi il secondo capitolo de Il maestro e Margherita. Il protagonista è Ponzio Pilato. Si è svegliato male, l’emicrania lo tormenta, è (in)sofferente all’odore dell’olio di rose. Lo sente ovunque. Mentre la testa pulsa. L’immagine è quella di un uomo che non ne ha mezza. No tiene ganas, avrebbe detto Durruti. Non è solo questione di responsabilità. Certo, c’è una certa dose di paraculaggine. Ma non si arriva a diventare Procuratore della Galilea se non si sanno prendere decisioni. E infatti il popolo lo odia, viene considerato un sanguinario. Quel giorno semplicemente non ne ha mezza. Figurarsi poi se gli presentano davanti quella specie di freakettone. Uno che lo chiama subito “buon uomo”, prima di imparare le maniere educate dalla frusta del centurione Ammazzasorci. Dialogano i due, dialogano fitto. Mentre la testa pulsa. Pulsa forte. E alla fine Pilato decide, conferma la condanna a morte e lo spedisce a giocarsi la vita al voto popolare. A me fa venire la pelle d’oca quel capitolo de Il maestro e Margherita. Ma (appunto) è letteratura. La letteratura è così, rende meravigliose le cose più meschine. Torni a leggerle. Ma Stefano Cucchi non è letteratura. Non è teatro. Stefano è morto. 37 chili di lividi addosso. L’hanno ammazzato gli Ammazzasorci che ci ritroviamo liberi per le strade. Quelli con cui riempiono le periferie per difenderci. Stefano l’hanno ammazzato gli Ammazzasorci e l’hanno fatto lentamente, da sadici, senza compassione. Impuniti che manco ci pensano. Che si giustificano. Se la raccontano che ti pare di sentirli: “ci ha insultati, ce le ha tolte dalle mani le botte”. Sempre uguali gli Ammazzasorci. E non tiratemi in ballo Pasolini. Ma questa non è letteratura. Se hai l’emicrania, a me non interessa più nulla. Non sei Bulgakov. Se hai la pressione delle istituzioni, di tua madre, dei tuoi figli, del tuo cane, a me non interessa più nulla. Perfino degli Ammazzasorci a me non interessa più nulla. A me interessa solo che c’era da fare giustizia e non hai voluto farla. E questo non è teatro.

Helno est mort une fois encore, il est sorti après minuit

……Helno est mort…, Helno est mort…

1000.000 remords…

Disegno di renzofrancabandera

Corso base di Galateo per un FILF dabbene

passeraALICE CANNONE | Che le donne, in dolce attesa e subito dopo l’arrivo del pasciuto pargolo siano più belle è una comprovata verità. Quando però Gino Latilla gorgheggiava che “Son tutte belle le mamme del mondo”, in realtà si riferiva alla produzione di ferormoni, e a quei capelli più morbidi, e a quegli occhi più lucidi e quel corpo più accogliente, che  sono solo il bieco escamotage di Madre Natura per non far scappare verso altri lidi il maschio Alpha con cui ci si è più o meno felicemente accompagnate. Ma se Dio creò la donna e poi venne la MILF (che, per gli animi più candidi, è l’acronimo di “Mother I’d Like to F**k”, ossia: madre con cui ci si vorrebbe volentieri intrattenere), lo stesso discorso diventa meno ovvio e decisamente meno fisiologico per il FILF, ossia il father.
In una coppia di MILF e FILF ben assortita i ruoli sono sin dall’inizio ben definiti: “Il vero perfetto Papà non delega del tutto alla mamma la diseducazione e rovina del proprio figlio.”(Aldo Busi, Manuale del perfetto papà). Ma soprattutto è evidente come la mancanza di fascino per un neo FILF possa  essere una débâcle non solo affettiva, ma anche professionale: è presto dimostrato. Si pensi ad esempio a Corrado Passera e a cotanta beltà di moglie Giovanna Salza. Lei MILF combattente sul fronte, lui che dopo la paternità non è ancora riuscito a calarsi appieno nella parte. E se la storia ha fatto di loro una first lady ed un first gentlemen mancati, la colpa non va attribuita certamente a GOMBLOTTI!!  e scontrini e magagne politiche, ma ad un physique du rôle decisamente non all’altezza della situazione.

Si offrirà qui di seguito un breviario di basico Galateo per aspiranti FILF, per non cadere nelle peggiori delle insidie.

  • Quando si esce di casa, stravolti dal menage con l’infante, prestare comunque sempre molta attenzione al proprio abbigliamento. Patacche di muco sui vestiti sanno intenerire solo quando si è all’asilo. O controllare almeno che i rigurgiti siano intonati al colore del paltò.

  • Non lasciate che lo status symbol su cui trasferite il vostro ego sia l’ultimo passeggino della Stokke, al posto della Z4. E sobillati dalle proprie compagne bisognerà quantomeno mascherare gli occhi iniettati di invidia alla vista di un modello più accogliente e munito di ruote turbo.

  • Durante la passeggiate al parco non esponete il pargoletto a mezz’aria a mò di ampolla di S. Gennaro il giorno della liquefazione del sangue, nella vana attesa che qualche babysitter diciottenne vi fermi e vi chieda ammiccante “Oh, ma com è bello! O ma quant è grosso! È suo?!”

  • In qualsiasi cosa si sia evoluto il vostro legame in termini di svago di coppia, sappiate che la spesa del sabato non è annoverabile nella lista dei preliminari.

  • Iniziare a puntare le offerte dei volantini Prenatal con la stessa foga con cui si studiava minuziosamente il volantino di negozi di elettronica è veramente l’ultima spiaggia di una virilità che sventola bandiera bianca.

Esempi di come si possa sapientemente abbinare paternità – addominale tartarugato – carriera non sono chimere. Ed esempio da manuale è il depilatissimo Stefano di Martino, fresco di “congedo di paternità” da Amici, per stare vicino alla compagna Belen Rodriguez e al suo primogenito Santiago. “Capita a volte che il padre si occupi della prole − un fenomeno abbastanza frequente fra i pesci.” (Simone de Beauvoir)

Corrado Accordino e gli insoliti accordi di Mozart

mozartVINCENZO SARDELLI | Facile per Corrado Accordino regalare settanta minuti di buon teatro se il soggetto della pièce è il talento maledetto di Wolfgang Amadeus Mozart. Facile perché, nella breve vita di Mozart, è condensata una miriade di episodi. Facile anche perché, nella scelta delle musiche, c’è solo l’imbarazzo della scelta, e sempre al riparo da brutte figure.

Ma c’è di più in Mozart, monologo prodotto dalla Danza Immobile che abbiamo visto al Teatro Libero di Milano. C’è il mito che irrompe nella vita di un adolescente sconvolgendola da capo a piedi. C’è un dialogo costante, spirituale e artistico, tra il genio del Settecento e un teatrante del 2013, efficace a distanza di due secoli.

Lo spettacolo Mozart (assistente alla regia è Valentina Paiano) racconta in parallelo la vita del compositore austriaco e quella dell’uomo Corrado Accordino. L’incontro risale ai sedici anni dell’attore, adesso 42enne. All’epoca era un adolescente timido e impacciato, con un variegato armamentario di maschere per camuffarsi nel branco: cresta e piercing, abbigliamento heavy metal, gusti musicali hard rock. Poi la folgorazione per Mozart, la rivoluzione nel modo d’ascoltare musica, di pensare e agire.

Mozart sregolatezza, talento e debiti. Mozart irrequieto enfant prodige, artista eclettico, uomo inappagato. Mozart avvelenata vita di corte ed epilogo bohemien.

I costumi di Accordino fanno pendant con una scenografia scandita da tortuosi drappi color tabacco che, agitati da giochi d’aria, creano effetti coreografici che si combinano con le musiche. Le dita dell’attore mimano note immaginarie. Le braccia evocano movimenti visionari. I comandi da direttore d’orchestra sono zoomati da luci circoscritte come giochi di prestigio.

Sulla scena, creata da Maria Chiara Vitali, compare anche una scimmietta peluche, animata dalla mano e dalla voce dell’attore.

Energia recitativa, gesti puliti, linguaggio forbito, Accordino propone un Mozart contemporaneo sia per l’inquietudine della sua opera, sia per la biografia scopertamente romantica.

Entriamo nel mondo musicale di un genio. Colpisce la commistione di fragilità e impudenza. Irretisce l’irruenza cantabile, la capacità di prendere in contropiede gli spettatori. Il colore delle armonie svela la competenza unica della musica nel raccontare i sentimenti.
Un fisico intossicato, quello di Mozart. Un’esistenza animata dai contrasti. Sublime e impetuosa l’arte, con la pletora stregata di accordi fantasmagorici. Sofferta la vita, da ingegno precocemente svezzato, dalla salute minata.

Questo Mozart bifronte lega con un filo sottile il compositore e l’attore. È continuo il rimbalzo tra passato remoto del maestro e passato recente dell’allievo. La passione per Mozart diventa per Accordino valore di riferimento, discriminante per qualificare le persone. Come quella ragazza, Sofia, portata a teatro a vedere Le nozze di Figaro: che delusione i suoi commenti insulsi, il jazz ascoltato alle cuffie, fino a cadere nel sonno profondo. Una storia d’amore sfumata.

Finisce sfumando anche il monologo di Accordino. Gli applausi sono per lui. Idealmente, sono anche quelli che mai potremo fare al compositore di Salisburgo.
Solo un suggerimento: limare alcuni episodi autobiografici, che frenano un minimo un ritmo per nove decimi avvincente.

Trailer
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Una delle opere di Mozart esplicitamente citate da Accordino: Il Concerto per violino nr. 3
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Quando è meglio andare a letto: ovvero Carosello nell’epoca dei Brand

carosello reloadedALESSANDRO MASTANDREA | Uno spettro si aggira per le strade delle nostre città e tra i tinelli delle nostre dimore. Non quello del comunismo immaginato da Karl Marx, quanto piuttosto un cane a sei zampe che, in guisa di murales, non può far a meno di dispensar consigli sul risparmio energetico. O magari, subito dopo, di un marchio stampigliato sul furgoncino di un indefesso lavoratore dei telefonini che, tra un’antenna in riva al mare e l’altra, ama stipare ciottoli e conchiglie di ogni forma e foggia nel furgoncino aziendale.
«Carosello Reloaded vuole rappresentare per il mercato pubblicitario una nuova e più evoluta forma di comunicazione nell’era del digitale multischermo, multipiattaforma: il Branded Entertainment, un’intersezione tra advertising e entertainment, tra pubblicità e contenuto editoriale». Così ha affermato di recente Lorenza Lei, a.d. di Sipra.
Parliamo allora dello spirito del Brand, che permea i palinsesti tv e le nostre intere esistenze.

Non se ne abbia a male la Lei se, a dispetto del tono enfatico e del vocabolario forbito, dovesse scapparci di segnalare quella certa discrepanza tra la dichiarazione e gli esiti raggiunti dalla “sua” neonata creatura, sorta di uovo di Colombo che, cavalcando dolcemente le onde dei ricordi, prova a rendere ancor più ambito lo spazio pubblicitario che precede il prime-time.
Per quanto celata dietro i fumi della nostalgia, di questa incongruenza interna a Carosello Reloaded potrebbe trovar traccia anche lo spettatore meno smaliziato. Se infatti appare piuttosto chiaro dove si collochi il “Branded”, è molto meno facile stabilire dove sia l’”Entertainment”, a conferma del fatto che anche per la TV pare vigere la “legge del remake”, con la copia che si dimostra quasi sempre incapace di raggiungere gli esiti dell’originale.
Della storica incarnazione, quella attuale sembra aver conservato solamente il nome e – in parte – la sigla, rimaneggiata con l’aggiunta di inserti in grafica digitale belli come denti dipinti di nero sui sorrisi delle modelle che campeggiano sulle insegne pubblicitarie. A confermare il sospetto che non si tratti di un semplice lifting, ma di un vero e proprio cambio di paradigma, è soprattutto la rivisitazione della struttura che caratterizza la versione storica. Se, allora, questa prevedeva una divisione netta tra la parte riservata allo spettacolo e quella prettamente pubblicitaria – dove la prima occupa un minuto e 50 secondi circa, mentre la seconda i restanti 30-, quella odierna prevede un unico lungo “spottone”, dai non meglio precisati intenti artistici. Quel che ne scaturisce è un contenitore privo di contenuti, dove la narrazione si fa indefinita come brodo primordiale e il Brand è l’unica forma di vita a emergere vittoriosa.
“Dopo il Brand il diluvio”, verrebbe da dire. Nemmeno le facce dei testimonial, da scaricare nel caso diventino tanto ingombranti da metterne in ombra la centralità – come capitò, anni addietro, a Nino Manfredi con una nota marca di caffè.
Non ce ne voglia dunque la Lei, dicevamo. Non ce ne voglia soprattutto se, per concludere, alla sua dichiarazione preferiamo le parole di Jean Boudrillard: “La società dei consumi è così la società dell’apprendimento del consumo, dell’addestramento sociale al consumo.[…] Il sistema industriale, avendo socializzato le masse come forza lavoro, doveva andare più lontano per realizzarsi e socializzarle (cioè controllarle) come forza consumo”.

Se ieri, da quel lontano 3 febbraio 1957 che diede i natali alla fortunata trasmissione, si era soliti dire: “i bambini a letto dopo Carosello”, oggi converrà invece seguire l’istinto – di genitori e cittadini, prima ancora che di consumatori- e non aspettarne neppure l’inizio.

P.S.: per approfondimenti, si consiglia la lettura di: “Come i bambini diventano consumatori”, Ed. Laterza.

http://www.youtube.com/watch?v=QaAoB78ONNI

Mondocane#8 – All tomorrow's parties

mondocane8MARAT | Nico me lo sussurra all’orecchio. Con quel suo vocione che fa a pugni coi lunghi capelli biondi. “Che vestito indosserà la povera ragazza alle feste di domani?” L’ascolto dal cellulare, neanche fosse la radiolina di una volta. Ma non c’è Sandro Ciotti, ci sono le feste di domani. Dove speri di rivederla. Quella che sei convinto che se non ci fosse stato lui ti avrebbe detto sì. Le feste che sorprendono. Che osservi col cipiglio snob del critichino. E poi invece sei lì che ti diverti. Come al Festival IT. Dove puoi scoprire che il teatro “indipendente” non è bellissimo ma almeno è vivace. Molto. Cosa che nei primi approcci può contare parecchio. Nell’incompiuta Fabbrica del Vapore, trionfo della mondanità alternative-chic. Dove Milano si accorge che l’autogestione dal basso funziona, con buona pace delle occupazioni liceali. E che se impari dalla musica, ci piazzi qualcosa da bere e una comunicazione (finalmente) all’altezza, perfino il teatro può funzionare. Certo, va un po’ messo a bolla. Dalla logistica alle porte aperte a tutti, che si trova roba da circoli ricreativi dopo-lavoro. Si potrebbe almeno pensare a una lineup… Ma si lavora in prospettiva. Fin dalla tavola rotonda con alcuni palcoscenici milanesi a far da maestrini e l’assessore Del Corno (quasi assente la critica). Sul tavolo: analisi delle condizioni di sussistenza degli “indipendenti”, ipotesi di riunirsi in associazione, opportunità o meno di farsi affidare uno spazio comunale (l’Ansaldo?). E un interrogativo a suonare come un’eco: ma quanta comunità muove il teatro “indipendente”? Slogan (sogno) vs praticità (realpolitik). Ovvero: voi affidereste una delle grandi potenzialità di Milano ai teatranti indie raccolti in gruppo? Nel caso voglio esserci. Fatemi partecipare alla rissa. Ma forse sarebbe più utile se l’ottima organizzazione di questi tre giorni – dove sono passate due mila persone – non si perdesse in voli pindarici ma dimostrasse lucidità. Per ribadirsi il prossimo anno, certo. Ma anche (e soprattutto) per porsi come voce politica “extraparlamentare”, consapevole delle proprie forze e dei propri limiti. Allora sì aprire un tavolo con il Comune. Magari per trovare nuove forme di patrocinio e promozione, canali privilegiati di visibilità, dialogo con gli operatori. Insomma, quale vestito s’indosserà in futuro? A volte anche un tubino nero alla Brenda Walsh fa sfaceli. Lo si è visto. Che se invece per uscire si aspetta di avere un paio di Louboutin si fa notte. E sai che noia.

Ciao Franca Rame, donna davvero speciale

franca in scenaMARIA CRISTINA SERRA | Franca Rame si è spenta ieri mattina a Milano e al nostro risveglio una nota di malinconia e di incredulità ha dato inizio alla nostra giornata.

Quasi che le anime nobili ci sembra non debbano mai lasciarci, ma idealmente accompagnarci nelle asperità e nelle dolcezze della vita.

Si è spenta una stella, ma ci ha lasciato una preziosa eredità. Era una donna forte dall’anima lieve, un’eterna ragazza sognante che l’esperienza degli anni aveva reso saggia, ma mai dura o disincantata. Che conosceva la certezza dell’amore e la fatica di preservarlo. Che dopo tanti anni e tante lotte, dentro e fuori il suo cuore grande, sapeva ancora dire del suo uomo: “Dario è il mio tutto”!

Eppure Franca Rame non è mai stata neanche per un istante “la metà di niente” né l’ombra di un grande uomo, teatrante magico e inventore di fantasmagorie di esistenza e di teatro, era soltanto una persona molto speciale, che ora avrà raggiunto le stelle, da dove potrà continuare a diffondere i suoi sorrisi luminosi e la sua ironia pungente.

Per ricordarci che la vita è leggerezza, ma non è mai sottrazione di peso, e che la distinzione tra ciò che è vero e nobile, e ciò che non lo è, resta ben visibile a tutti.

E’ sufficiente solo avere gli occhi liberi e la mente immaginifica di un bambino per vedere oltre le apparenze. E saper trascrivere la realtà, come poesia, su di un canovaccio che non è solo il teatro della vita, ma la vita che si fa teatro.

Vi lasciamo con due video: L’anomalo Bicefalo, spettacolo integrale con Dario Fo e una bellissima intervista a Franca che parla del suo rapporto con il compagno di una vita.

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[youtube http://www.youtube.com/watch?v=_qV3B98YE9o]

L’allucinato teatro-danza di Patrizia Aroldi e Afra Crudo

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VINCENZO SARDELLI | Maggio al femminile al Sala Fontana di Milano. Due monologhi tra teatro e danza, accomunati da una forte componente emotiva e ipnotica, hanno visto in scena Patrizia Aroldi con Giduglia e Afra Crudo con L’ultima madre. Convertita dal management al palcoscenico la prima, allieva alla scuola di Pina Bausch la seconda, lega le due performance la poetica drammaturgica di Danio Manfredini, straniante aruspice del teatro italiano, che ha collaborato a entrambi gli spettacoli.

In Giduglia Patrizia Aroldi si muove come una sonnambula: naso rosso-ciliegia, abitino a imbizzarriti veli bianconeri, gigantesca valigia, frustino sado-maso, scarpacce gradasse, megafono fatato, occhialoni; tutto rigorosamente zebrato. Tra i megaspecchi ossidati che compongono la scenografia campeggia la giduglia, vorticosa spirale metafora degli appetiti umani.
La giduglia risucchia questa donna pagliaccio dai tratti felliniani, dalla lenta danza solipsistica. Guidata da una voce fuori campo, la clownessa procede a ritroso nella propria anima. Titubante, depressa, poche idee ma confuse, duetta con un cappotto fantoccio, le cui mani scorrono malandrine sul suo corpo. Dialoga col proprio io sull’amore. Arriva al decadimento, al simpatetico sfogo con Dio in punto di morte.

La musica irrompe come sceneggiatura nella narrazione. Rimbalza da ritmi jazz and blues ai virtuosismi violinistici di In the Mood for Love (metafora della fugacità della bellezza e dell’amore) fino all’audacia espressiva della Patetica di Beethoven e alle note dello Stabat mater di Pergolesi. Le luci evocano atmosfere catalettiche. Creano sfondi surreali. Morte e rinascita convivono in questo sincopato percorso di conoscenza, che la parola non può esprimere in modi convenzionali. La protagonista biascica un grammelot disarticolato, che la potenza del gesto rende comunicativo. Con il lirismo delle piccole cose Patrizia Aroldi ci ricorda l’importanza di conoscere noi stessi. Siamo meno buffi quando non ci prendiamo sul serio. Siamo liberi se ci lasciamo sconvolgere dal potere dell’arte.

afra cÈ un teatro-danza terrigno e atavico quello di Afra Crudo nell’Ultima madre, visionario viaggio autobiografico dalle tonalità macabro-erotiche. Sullo sfumato di ricordi infantili, l’autrice ridesta un Sud arcaico. È un discesa primordiale. Una vecchia decrepita nella sua casa-prigione, riaccende stati di coscienza fantasmagorici. È un delirio di metamorfosi. La danza basita di Afra Crudo parte dalle viscere. Crea movimenti nevrotici, in una Puglia contadina che richiama atmosfere alla Carlo Levi. Affiora la presenza del male, con i rituali apotropaici narrati da Ernesto De Martino.
La danzatrice diventa cartomante, sposa, morta-vivente, fedele-bigotta, prostituta. Le trasformazioni nascono da un dialogo interiore, da un paganesimo di religione e stregoneria, di devozione familiare e sessualità compressa.

Questo spettacolo con un gusto dell’orrido emulo di Lovecraft e Dario Argento, fa uso di pochi elementi: un tavolino, una radio, una candela, un mazzo di carte, un fascio di fiori, una maschera da vecchia decrepita. Un camerino si ribalta e diventa bara. Al suo interno avvengono i cambi d’abito che animano le coreografie.
Un po’ danza macabra, un po’ sacra rappresentazione, il monologo volteggia tra Bach a Mendelssohn, tra il rock demoniaco di Marilyn Manson e le tonalità barocche di Henry Purcell, con incursioni jazz. Le luci di Nicola Righetti, fioche o aggressive, assecondano effetti sonori (curati con Giampaolo Verga e Andrea Miranda) che vanno dal fruscio della radio allo scrosciare della pioggia, dal guaire dei cani al mugghiare degli amanti.
Afra Crudo presenta il suo ballo pervasivo. Madonna addolorata dai veli nuziali profanati, angelo intirizzito dalle ali bigie, passa dal Tanztheater alla tambureggiante danza africana.
La ricercata armonia d’opposti nasce da un bisogno d’unione. Rivela il bisogno di un’espressione totale. Mira all’intensità del sentimento: doloroso, lacerante, con qualche stereotipo. Comunque d’impatto.

Giduglia: primi studi di un percorso che porterà la parola a diventare sempre più rarefatta:

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L’ultima madre, di e con Afra Crudo
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=CDA62DHVMsw&w=420&h=315]