fbpx
sabato, Aprile 20, 2024
Home Blog Page 5

Giorni felici: il Beckett umanissimo di Civica, con Demuru e Abbiati

Ph Duccio Burbieri

RENZO FRANCABANDERA | “No better, no worse, no change. No Pain.”
In questa immutabilità di deprivazione sensoria, il dolore fisico e psichico è neutralizzato in un eterno grigio, ben rappresentato dalla scenografia di Roberto Abbiati (interprete anche del personaggio maschile Willie) e ispirata ai cretti di Burri, ma qui in monocromo grigio.
Al centro della scena, quasi a fare da tappo a un vulcanello, a una mezza solfatara, posta più che tirannicamente in cima a qualche montagna come Wilson immaginò un decennio e passa fa, si trova infitta in una montagna fino al busto Winnie (Monica Demuru), la protagonista di Giorni felici di Samuel Beckett, testo capitale della seconda metà del secolo scorso che torna in scena in questa stagione per la regia di Massimiliano Civica in una produzione del Metastasio di Prato.
La drammaturgia di Samuel Beckett in Happy Days offre nella sua monotona ripetitività un’analisi complessa della condizione umana attraverso i suoi protagonisti, Winnie e Willie, insieme ad altri personaggi simbolici e solo evocati come Shower/Cooker e Mildred. L’opera teatrale esplora i temi universali dell’identità contemporanea nella società occidentale: la solitudine, la routine, la speranza e la disperazione, presentando un quadro cupo ma al contempo commovente della vita, lettura che questo allestimento prova sotto molti aspetti a enfatizzare. La luce in cui la coppia si trova (di temperatura piena e finta, ben misurata da Gianni Staropoli), unita alla monotonia e ripetitività delle azioni, sono certo simboliche della lotta quotidiana per trovare senso, significato e scopo nella loro esistenza limitata, ma la scelta che Civica fa e che Demuru nella sua notevolissima interpretazione raccoglie e rilancia è proprio quella di rendere questo personaggio non algido e astratto ma fragilmente quotidiano.

Ph Duccio Barbieri

La donna, sulla cinquantina, secondo le precise indicazioni del drammaturgo che aveva nei suoi testi l’abitudine di descrivere minuziosamente spazi e ambienti in cui la vicenda doveva aver luogo, è simbolicamente sepolta fino alla vita in una montagna di terra, immagine della sua condizione di prigioniera di una routine oppressiva e senza speranza.
Tuttavia, nonostante la situazione disperata, Winnie cerca costantemente di mantenere un’apparenza di normalità e ottimismo, affermando ripetutamente che ogni giorno sarà una “giornata felice”.
La sua costante lotta per trovare un senso di normalità e felicità nonostante le avversità è uno dei temi centrali di Giorni Felici, che al suo debutto conobbe un’accoglienza invero assai tiepida, ma che nel tempo tornò progressivamente in auge, fino a divenire uno dei grandi classici del teatro del Novecento.

disegno eseguito live da Renzo Francabandera

Ma quella che in questa lettura viene accentata è la postura un po’ nostalgica, il rimanere legati a quella “vecchia maniera” salvifica e tranquillizzante con cui le cose venivano fatte in un tempo solo evocato ma non contestualizzabile.
La Winnie di Demuru risulta straordinaria  al nostro sguardo perchè è un personaggio letterario assoluto, ma allo stesso tempo umanissimo, con sentori di signora in coda alla cassa al supermercato, bouquet di quella che nel mondo cinico e ateo dei social si sventola con il calendarietto plastificato nella antisala dell’ufficio dell’Inps, perlage di quell’altra ancora che evoca tisane e antichi rimedi ma con un moderno piglio new age che, ci mancherebbe, si stava meglio quando si stava peggio – dice – mentre commenta acida la nuova foto postata dall’amica, che mamma come le si vedono le rughe!
Che manco esistevano i social quando Beckett scrisse, ma è come se fossero già inglobati ugualmente nell’umanità che raccontava, per dire quanto fosse capace di raccontare non la superficie ma la profondità della psiche umana!
Demuru riesce a essere, in un cambio di smorfie, ora letteratura, ora caricatura di satira sociale à-la-Mannelli.
Pur in questo suo viversi mediano, senza slanci, non manca di darsi una posa vagamente ero-ammiccante, con cui provare a contrastare il tempo che passa, con un bustino ricamato e un vedo/nonvedo per portare i seni in vista, quel trucco e quella vanità che però contrastano con una borsa che sembra più quella di Mary Poppins che una luìvuitton (si nota la malizia appuntita e anche feroce nei costumi di Daniela Salernitano, che con pochissimi attributi scolpisce i personaggi).
Willie, marito di Winnie, di converso funge da contrasto all’ottimistica determinazione muliebre. Ignorando in gran parte la donna (Civica lo fa apparire di spalle, spesso assente allo sguardo dello spettatore) e impegnato in un sonno atavico e senza tempo o nella lettura del giornale (unici momenti in cui il sembiante fisico di Abbiati appare alla vista), l’uomo incarna l’apatia e la distanza emotiva che spesso affliggono le relazioni umane.
La mancanza di comunicazione e connessione tra Winnie e Willie evidenzia la solitudine e l’isolamento che affrontano entrambi, nonostante la loro presenza fisica vicina l’uno all’altro. Ma qui, pur essendo Demuru impegnata in quello che a conti fatti è un monologo con episodiche interruzioni da white noise maritale, il Wilie di Abbiati resta un personaggio che in qualche vago modo prova persino a imbastire una risposta; non di certo un vero e proprio dialogo, per carità, ma quella rassicurante attestazione l’uno all’altro di essere in vita. Come fanno i senescenti, che per mitigare l’ansia della morte si chiamano spesso al telefono per esser certi che dall’altra parte si campi ancora, affogandosi per il resto in quelle discussioni vuote sul “cosa mangi?”, “ma hai visto cosa è successo…!”.

Ph Duccio Burbieri

Lo spettacolo inizia con il suono della sveglia, si alza un sipario di telo bianco (un velo pietoso, a conti fatti) svelando un mondo arido in cui i due personaggi sono immersi. Il velo ricalerà (e la sveglia risuonerà) fra il primo e il secondo atto, per poi sollevarsi ancora dopo una ipotetica nottata. Al riprendere del giorno, Winnie è ormai sepolta dalla montagna fino al collo, impossibilitata ormai a muoversi.
La lettura che dà Civica si fonda sull’idea che il “quasi monologo” della donna sia un tentativo di comunicare, semplice, nel suo farsi disperatamente continuo. Si affida per l’operazione a due interpreti particolarissimi della scena contemporanea italiana, dal portato artistico complesso, capaci di cifre e sfumature ampie e poco comuni. Demuru è attrice che ha l’abilità di dare alla voce un’espressività peculiare, frutto del suo specifico talento canoro.
Abbiati è artista immaginifico, che opera sui segni scenici sia come attore che come creatore degli spazi scenografici (sua, come si diceva, è l’ambientazione e l’installazione materica realizzata per questo allestimento), ma è anche altissimo disegnatore (la scenografia continua infatti su un telo dipinto, a fondale, una sorta di “eccetera eccetera” che prolunga all’infinito la geografia disumanizzata dello spazio scenico materico in primo piano).
Mentre nel caso di Abbiati si può parlare di una voluta assenza scenica, che dà ancora più enfasi alle sue puntiformi e sporadiche apparizioni, Demuru ha una presenza umanissima e quasi familiare. L’uno è un Buster Keaton a torso nudo, un personaggio che viene fuori dai libri di Jerome K. Jerome, un povero cristo in mutande ma che non manca il vezzo della paglietta deluxe e del giornale inglese. Lei uguale ma al femminile, con un cappello che non si capisce bene se finisce per farla assomigliare più a un Napoleone sconfitto o a un Cristoforo Colombo che non vede terra. Insomma sono come tutti noi, capitani navigatori da acqua bassa, ansiosi velleitari che pretendiamo il marchio deluxe sulle cose che andiamo a comprare al discount.
L’uso magistrale del linguaggio e della postura da parte dei due attori, ben governati da Civica che lascia i loro due talenti navigare liberi nel mare di Beckett, contribuisce alla creazione di un’atmosfera surreale e, più che opprimente, sardonicamente rassegnata: ogni azione e ogni parola assumono un significato più spesso, e arrivano allo spettatore costringendolo a un doloroso tedio in cui specchiarsi.
E quando Willie a fine spettacolo, a quattro zampe, prova a scalare la montagna, protendendo una mano verso il suo amore che lo reclama, il gesto si fa volutamente equivoco, e non si capisce se si protenda verso di lei o verso la pistola. Un gesto perfetto, che qui vale lo spettacolo e la presenza cameo di Abbiati a cui servono pochi secondi per pennellare il suo genio. E infatti l’ambiguità dell’intenzione è così sottilmente leggibile, che la visione di questo Beckett finisce persino con una tragicomica risata.
Cosa può sopravvivere a questa umanità suicida e rassegnata? Qualche sparuta piantina, che nel grigio cementizio pare mantenere un sembiante verdognolo e trovare la sua strada verso la vita nonostante tutto: è la natura che in potenza si afferma, a dispetto dell’essere umano.
Da vedere assolutamente. Da tempo non girava un Beckett così “giusto”.
Dopo le date in Emilia al nuovo Teatro delle Passioni di Modena, ospite di ERT, lo spettacolo è in questi giorni al Piccolo di Milano.

 

GIORNI FELICI

di Samuel Beckett
traduzione Carlo Fruttero
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Roberto Abbiati e Monica Demuru
scene Roberto Abbiati
costumi Daniela Salernitano
luci Gianni Staropoli
assistente alla regia Ilaria Marchianò
suggeritore Filippo Baglioni
direttore di scena Loris Giancola
elettricista e fonico Daniele Santi
sarta Annamaria Clemente
coordinamento tecnico dell’allestimento Marco Serafino Cecchi
assistente all’allestimento Giulia Giardi
cura della produzione Francesca Bettalli e Camilla Borraccino
ufficio stampa Cristina Roncucci
foto e video documentazione Duccio Burberi
grafica ed editing Francesco Marini
produzione Teatro Metastasio di Prato
foto Duccio Burberi

In accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di The Estate of Samuel Beckett c/o Curtis Brown Group Limited

 

Danza in Rete off: a Vicenza la nuova generazione della danza internazionale

RENZO FRANCABANDERA | Un’altra grande stagione di danza quella pensata a Vicenza da Piergiacomo Cirella e Loredana Bernardi, i Direttori Artistici di Danza in Rete, rassegna dedicata al linguaggio della musa Tersicore, con una serie di eventi che da metà febbraio a inizio maggio animano il territorio del capoluogo veneto.
La rassegna è promossa dalle Fondazioni del Teatro Comunale Città di Vicenza e del Teatro Civico di Schio.

Anche questa edizione non vive solo nei teatri, ma anche in luoghi simbolici e negli spazi urbani delle due città, con la danza a sviluppare, anche in sedi inaspettate, il suo potenziale di relazione e di rintracciamento dell’identità del territorio.
Parliamo quindi di un evento diffuso, che si realizza in spazi diversi, sia nei teatri principali che in ambiti artistici e siti monumentali, con numerosi appuntamenti tra spettacoli, performances, incontri di approfondimento con esperti e artisti, che incrociano a loro volta operazioni di audience development e engagement, da tempo cifra di questa parte della programmazione del TcVi.

È un’edizione ricchissima anche per la sezione Off di Danza in Rete, affidata alla direzione artistica di Alessandro Bevilacqua, che in questi anni ha tessuto relazioni di calibro nazionale e internazionale capaci di dare il senso di un prezioso percorso pluriennale di crescita, portando la rassegna e la sua sezione sperimentale a divenire un vero e proprio incubatore-vetrina del meglio della giovane danza italiana e non solo.

Chiaro esempio di questo fermento la giornata del 9 marzo,​​ realizzata in collaborazione e con il contributo de La Piccionaia – Centro di Produzione Teatrale di Vicenza, dove ad alcune nuove giovani realtà italiane si sono aggiunte le esperienze della piattaforma israeliana 1|2|3, promossa dalla direttrice artistica del Centro Suzanne Dellal, Naomi Perlov; si tratta di una realtà concepita per dare nuove possibilità alle future generazioni di coreografi in Israele, per aiutarli nello sviluppo di strumenti di composizione e di un linguaggio originale.
Gli artisti che partecipano al programma provengono da esperienze molto differenti fra loro e in questo spazio a suo modo protetto, dentro l’intricato tessuto della cultura israeliana, cercano nuove tonalità aggiuntive rispetto al codice coreografico che in Israele ha interpreti già molto forti. A Vicenza hanno presentato alcune coreografie due giovani ma già interessanti artisti della piattaforma: Tamir Golan che ha proposto il solo di apertura del pomeriggio del 9 marzo, Wabi Sabi e il successivo duetto Oxytocin, interpretato insieme a Gil Elgrabli, e il talentuoso Reches Itzhaki con un suo assolo, Nitta.

Wabi-Sabi, danzato sulle note di Shinju di Hako Yamasaki, è la resa in forma coreografica di un concetto ben noto alla cultura giapponese di derivazione buddhista, ovvero quello di bellezza imperfetta, che nutre tutto ciò che è autentico, accettando tre semplici verità: nulla dura, nulla è finito, nulla è perfetto. Una sorta di bellezza triste che l’artista rende con movimenti lenti e calibrati e poi improvvise accelerazioni che ritornano su alcuni gesti ripetuti, come le due mani che si uniscono nella posa di chi sta cercando di sciogliere un nodo con l’indice e il pollice delle due mani uniti. Più animalesca e selvatica la postura di Itzhaki, che si muove in Nitta come fosse una piccola bestia suggestionata dallo spazio circostante in cui si muove curiosa, su una base melodica di ritmi di samba veloce, Pallett di Khosrow and Shirin.
Tamir Golan chiude la proposta delle tre brevi coreografie israeliane con il duetto Oxytocin, un incontro di fisicità ma anche di passioni, in cui emergono con chiarezza le dinamiche di relazione amorosa, con i suoi slanci ma anche con le sue dinamiche ripetitive e le nevrosi. L’ossitocina è un ormone che viene secreto nelle donne e negli uomini durante l’orgasmo ed è noto anche come “ormone dell’amore”. È anche un neurotrasmettitore che svolge un ruolo nelle relazioni sociali e può influenzare la formazione della fiducia interpersonale. E lo spettacolo che si apre su inseguimenti e intrecci ariosi, si chiude proprio in una posizione incastrata dove i due danzatori/personaggi si costringono l’un l’altro a soggezioni e dinamiche vincolate e vincolanti. Potenza e dannazione del sentimento.
Al danzatore la creazione di duetti è valsa il premio “Outstanding Creator”. Tamir è stato scelto per partecipare con le sue opere all’Holland Dance Festival (Den Hagg, Olanda) e a MILANoLTRE (Milano, Italia), e nell’autunno del 2023 ha creato un nuovo lavoro per il Conservatorio nazionale di Parigi, Francia.

Dopo l’affollato incontro con il pubblico dei coreografi israeliani e la loro maestra, è stata la volta della proposta di Spellbound, con Sola Andata. Spellbound Contemporary Ballet nasce nel 1994 per volontà del coreografo Mauro Astolfi cui si è aggiunta alla guida dopo due anni Valentina Marini.
Lo spettacolo vive di ambientazioni d’antan in cui le figure protagoniste di questa vicenda, non spiegata ma sufficientemente esplicita, appaiono pian piano, quasi fossero fantasmi di una antica vicenda domestica che viene rievocata. I particolari costumi conferiscono alla situazione scenica l’atmosfera vintage, così come le luci, che creano un interno notte. Un tavolo, delle sedie. Una donna si avvicina al tavolo e mima il gesto di una carezza. Poco dopo entrerà il secondo performer in scena a dare materialità alla superficie su cui quelle carezze si ponevano, la sua testa, la sua nuca.
I due sembrano avere una relazione, ma poco dopo un’ulteriore figura femminile entra in questo spazio intimo. Non è chiaro mai il ruolo perturbante di questa terza presenza che sconvolge la dinamica duale ma è sufficiente a creare un andamento narrativo a tre, che mantiene vivo lo sguardo sulla coreografia di Astolfi fatta di presa di distanze e sensuali avvicinamenti, i cui interpreti sono Maria Cossu, Giuliana Mele, Alessandro Piergentili.
Le note di regia parlano della tentazione, del richiamo di un viaggio di sola andata, del momento in cui ci si indirizza per qualcosa di definitivo, per quella scelta che sarà per tutta la vita. Una specie di strano dejavù dal gusto vagamente cechoviano quello a cui si assiste in scena, ma un po’ più perturbante.

La seconda parte della serata ha seguito al Teatro Astra, dove gi spettatori fruiscono in sequenza Danze Americane, un solo di Fabrizio Favale, presenza ormai salda nella coreografia indipendente italiana e che è a DIR Off con questo interessante progetto selezionato anche alla NID – Platform 2023 e da ResiDanceXL, e a seguire A Solo in the Spotlights, della giovane rivelazione Vittorio Pagani, una creazione selezionata anche per Aerowaves 2024 e per la Vetrina della giovane danza d’autore 2023 – Network Anticorpi XL.
Partiamo dall’assolo danzato da Fabrizio Favale che presenta 3 delle complessive 7 sequenze coreografiche, proposte come fossero evoluzione di esercizi dentro un training.
Il danzatore, partendo da alcune tecniche e modalità specifiche della danza moderna e postmoderna americana (da cui l’autore stesso proviene per formazione, come chiarisce in un messaggio letto in italiano e inglese ad inizio spettacolo) propone esercizi di maestri come Josè Limon, Tricia Brown e Merce Cunningham, proposti al pubblico dapprima, per così dire, in purezza; poi lo stesso esercizio viene riproposto su base musicale e successivamente sviluppato in una versione arricchita da spunti e stimoli più vicini al segno coreografico contemporaneo, mostrando il legame fra questi meravigliosi germogli originari del secolo passato e le declinazioni gestuali e artistiche che da quelle ancora vivono nel presente della danza.
Dalla tecnica del grande maestro messicano Limon, che si sviluppa attraverso una suddivisione in isolamenti di impulsi localizzati, indirizzati in tutte le direzioni, passando per la successiva ricerca di Brown, fino a chiudere con l’Adagio di Cunningham, andando così ad attraversare con pochi ma chiarissimi segni i decenni centrali del secolo scorso, quelli fra gli anni Trenta e gli Anni Cinquanta. Full Scholarship presso American Dance Festival 1990, Favale, giovanissimo, nel 1996 è stato nominato “miglior danzatore italiano” dal Premio G. Tani e dopo aver portato il suo codice in Italia e all’estero, nel triennio 22-24 Fabrizio Favale è Artista Associato di MILANoLTRE.
Qui negli esercizi, al principio dei quali vengono abbassate alcune quinte e il fondale per lasciare visibile la scatola nuda del palcoscenico e quindi lo spazio dell’arte svuotato di artifici, viene usato come concetto di fondo il principio per cui la tecnica ha condotto il linguaggio al presente.
È un commovente viaggio nella storia dell’arte della danza, a ben guardare, con i frammenti proposti non a caso in avanzamento cronologico: questo rende visibile ad esempio il passaggio dalle forme ancora ibridate con la gestualità del balletto di Limon, a quelle più psicologiche e libere di Brown fino al rapporto di Cunningham che libera il movimento dal bisogno di “spiegare” la musica, facendo esplodere il corpo in tutto il suo potere significante.
Il lavoro ha un suo nitore, particolarmente leggibile da chi è appassionato di storia, di evoluzione dei segni, di comprensione del loro farsi, mescolarsi, riprendersi e lasciarsi per andare oltre. Sotto questo profilo Danze Americane, un po’ come Lezioni Americane di Calvino, vuole tornare su alcuni concetti chiave per riportarli all’oggi con uno sguardo al futuro.

A Solo in the Spotlights di Vittorio Pagani è un tuffo nei meandri dello spazio scenico, affidato alla esuberante e piena corporeità viva di un giovane talento, che proprio in quanto giovane, si pone il tema centrale del proprio posto sul palco che, in quanto artista, è anche il proprio posto nella società.
Pagani è artista formatosi negli ultimi anni in Inghilterra. Dal 2023 fa parte del collettivo LARVÆ, gruppo di professionisti dello spettacolo supportato dalla Compagnia Equilibrio Dinamico: performer e coreografo originario di Milano, nel 2018 si è unito al Ballet Junior de Genève dove ha ballato le creazioni di alcuni tra i coreografi più influenti a livello internazionale. Nel 2021 ha creato il passo a due Around 5:65, selezionato per RIDCC2022. Laureatosi in Expanded Dance Practice nel 2023 presso la University of the Arts London, a The Place London ha creato l’anno scorso A Solo in the Spotlights, selezionato poi per Resolution2023, la Vetrina della Giovane Danza d’Autore 2023 e Aerowaves2024.

Lo spettacolo lo vede solo in scena a giocare con il corpo e la parola, in una drammaturgia che lo spinge a raccontare il suo essere giovane danzatore oggi, fra contraddizioni, pulsioni, tensioni al futuro, fallimenti. In questo raccontarsi, mentre alcune proiezioni di matrice testuale scandiscono la narrazione, il giovane pare affidarsi alla sua giovanile esuberanza barocca, in questa ostentazione del proprio sè portata all’estremo. Pregevole il disegno luci di Mark Webber e i costumi di fluorescenza pink di Bruna Scazzosi. Il solista esplora così, dentro un mélange di musiche techno pop contemporanee, gli aspetti della vita da danzatore, ma anche come si cambia quando si finisce sotto i riflettori, fino quasi al bisogno di doversi nascondere per tornare ad essere se stessi. La coreografia ha diversi spunti di interesse e il corpo di Pagani ha una fisicità interessante e capace di declinare molteplici identità, che in questa creazione appaiono leggibili. Si tratta di un artista promettente a cui rivolgere attenzione.

 

WABI SABI
coreografia e performance Tamir Golan
musica Shinju di Hako Yamasaki
costumi Tamir Golan

NITTA
coreografia e performance Reches Itzhaki
musica Pallett di Khosrow and Shirin
costumi Adam Elezrah, Achinoam Cina

OXYTOCIN
coreografia Tamir Golan
danzatori Gil Elgrabli, Tamir Golan
musica Mica Levi
editing musicale Tamir Golan

 

SOLO ANDATA

coreografia Mauro Astolfi
interpreti Maria Cossu, Giuliana Mele, Alessandro Piergentili
luci Marco Policastro
musiche autori vari
produzione Spellbound Contemporary Ballet
coproduzione Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza

DANZE AMERICANE

coreografia e danza Fabrizio Favale
set, costume e art work First Rose
coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Vicenza, Festival Danza in Rete, Festival MILANoLTRE, KLm – Kinkaleri / Le Supplici / mk
con il contributo di MIBAC, Regione Emilia-Romagna, Comune di Bologna
con il sostegno di h(abita)t – Rete di Spazi per la Danza
il progetto è stato realizzato con il contributo di ResiDance – luoghi e progetti di residenza per creazioni coreografiche, azione del Network Rete AnticorpiXL

> Progetto selezionato alla NID – Platform 2023 / sezione Open Studios
> Progetto selezionato da ResiDanceXL – luoghi e progetti di residenza per creazioni coreografiche, azione del Network Anticorpi XL

A SOLO IN THE SPOTLIGHTS

coreografia Vittorio Pagani
interprete Vittorio Pagani
aiuto alla drammaturgia Hannes Langolf, Martin Hargreaves
testi originali Vittorio Pagani
video Vittorio Pagani
produzione The Place London
coproduzione LARVÆ
produzione esecutiva Equilibrio Dinamico Company
disegno luci Mark Webber
costumi Bruna Scazzosi
musiche di Adolphe Adam, Tomat, kwajbasket, Patti Smith e Allen Ginsberg e Queen

> Creazione selezionata per Aerowaves 2024
> Spettacolo selezionato per la Vetrina della giovane danza d’autore 2023 – Network Anticorpi XL

 

Le cornici della società, intervista a Stefano Simone Pintor su Dorian Gray

GIULIA BONGHI | Dopo Toteis e Peter Pan – The Dark Side, Dorian Gray è la terza opera commissionata dalla Fondazione Haydn di Bolzano e Trento a compositori dell’Euregio Tirolo-Alto Adige-Trentino. Con la direzione artistica di Matthias Lošek, la programmazione dedicata all’opera ha mosso dei passi coraggiosi nel segno dell’innovazione e della sperimentazione, raggiungendo obiettivi importanti come la vittoria del Premio Abbiati per la messa in scena dell’opera Written on skin, l’ideazione del concorso Fringe e la realizzazione di tre importanti produzioni. Il progetto Dorian Gray, con la musica di Matteo Franceschini, libretto e regia di Stefano Simone Pintor, sarà in scena al Teatro Comunale di Bolzano sabato 16 e domenica 17 marzo 2024.

Ho avuto il piacere di intervistare il regista, di ritorno dal ritiro di un premio a Parigi. L’Académie des beaux-arts ha assegnato il Grand Prix – des membres libres al regista Robert Carsen, che doveva devolvere il riconoscimento in denaro a tre artisti di cui apprezza l’operato. Si è rivolto alle nuove generazioni, indicando la regista e coreografa Eleanor Burke, lo storico della moda Alexandre Samson e l’autore e regista Stefano Simone Pintor.

Ph Andre Macchia – Foto di scena della prova Antepiano

Mancano ormai pochi giorni al debutto. Come procedono le prove?

Le prove procedono bene. Siamo giunti alla fine della terza settimana e devo dire che siamo dove dobbiamo essere. Abbiamo una settimana ancora di prove in cui dobbiamo sistemare molto lavoro da un punto di vista tecnico, però sta funzionando tutto bene e siamo tutti molto contenti del percorso. Si prospetta un’opera molto promettente.

L’interesse specifico per il romanzo di Oscar Wilde com’è nato?

All’inizio è stato Matthias Lošek che ha commissionato a Matteo Franceschini un’opera nell’ambito di un progetto della Fondazione Haydn. Sono giunti all’idea di creare un’opera su Dorian Gray, idea che, diciamo così, Matteo coccolava da tempo. La cosa si spiega da sola: ovviamente è un romanzo di Wilde incredibile. Poi sono subentrato. Avevo fatto già, nel 2018, un’opera scritta da Roberto Vetrano, sempre edita da Ricordi, che si chiamava Ettore Majorana. Cronaca di infinite scomparse. Era venuta in tournée al Teatro Sociale di Trento con la Fondazione Haydn. Dopo mi è giunta la commissione di fare la regia di Falcone – il tempo sospeso del volo di Nicola Sani, sempre al Teatro Sociale, due anni fa, in occasione del trentennale della strage di Capaci.

Abbiamo lavorato, io e Matteo, lungamente per elaborare la struttura dell’opera e poi per scriverla insieme. Naturalmente io il libretto, lui la musica, ma sempre con un continuo scambio.

Può anche essere sensato che la prima messa in scena di un’opera scritta da un librettista e un compositore, venga effettivamente messa in scena da uno dei due. Anche delle prime opere, quando la figura del regista non esisteva, chi curava la messa in scena era chi l’aveva scritta.

In realtà mi capitano un po’ tutte e due le cose. È bello vedere come ci interpreta un terzo elemento. Alla fine, la ricchezza viene dallo scambio. D’altro canto, hai ragione anche tu, cioè quando l’opera la metto in scena io, vado a fondo di tante cose.

Gioco sempre un po’ su questo, ma in realtà è una vera filosofia: quando scrivo, cioè, considero l’uno e l’altro – lo scrittore e il regista – due persone diverse. Quando scrivo l’opera non penso mai alla soluzione registica, perché credo che sarebbe un gioco di economia che mi aiuterebbe verso una soluzione e che però tarperebbe le ali alla creatività della scrittura e viceversa. Invece, il regista si trova a dover risolvere un testo per la scena. È risolvere il problema a dare adito alle idee migliori; quindi, non ci penso mai più di tanto all’inizio e dopo mi ritrovo a chiedermi «adesso come lo faccio questo testo?».

Ci si deve mettere in difficoltà. 

Sì, esatto. Parole sante. Poi non tutti sono proprio d’accordo. Però sì, io questa cosa la sposo in pieno.

Le tematiche del romanzo. Nel Dorian Gray abbiamo l’arte come specchio, la vita come forma d’arte, la vanità, l’apparenza, la paura di perdere la bellezza e la gioventù, l’influenza e la corruzione, l’omosessualità. Quali sono quelle che hai affrontato di più, che ti interessano di più, che magari sono ricorrenti nella tua vita artistica.

In realtà le abbiamo affrontate praticamente tutte. Anzi, senza praticamente. Ne abbiamo anche aggiunte altre. Perché è un po’ uno spaccato della nostra società e noi viviamo una società molteplice, multimediale e frammentaria. Tutto questo influenza la nostra vita quotidianamente.

Dopo aver studiato a fondo il romanzo, la cosa più importante che è venuta fuori è che cosa succede fra Dorian Gray e gli altri o, meglio, chi è Dorian Gray per gli altri. Anche leggendo un paio di citazioni e che poi ho messo all’inizio del libretto. Una è una risposta che diede Oscar Wilde a un critico: «ognuno vede i propri peccati in Dorian Gray». Quali siano i peccati di Dorian Gray, nessuno lo sa. Li vede colui che li ha commessi e in realtà è questo il motivo della continua attualità dell’opera.

Oscar Wilde aveva capito perfettamente che non c’è niente come la potenza dell’immaginazione del lettore che completa il racconto, con le proprie esperienze e il proprio portato emotivo. È un’opera che diventa senza tempo, perché ciascun lettore di ciascun tempo la completa, come dicevo, proiettandoci i propri demoni o desideri più reconditi. E così fanno anche gli altri personaggi rispetto a Dorian Gray. Hanno delle ossessioni quasi patologiche nei suoi confronti. Dorian funge un po’ da detonatore delle pulsioni degli altri. Per cui è venuta fuori l’idea di questa inversione logica, che poi un’inversione non è perché è dentro al romanzo, di avere Dorian con la sua stessa vita che diviene il ritratto delle vite degli altri. Lo specchio.

L’altra citazione è quella della prefazione famosissima al libro: «è lo spettatore e non la vita che l’arte realmente rispecchia». Quindi tutto il nostro spettacolo doveva divenire una sorta di grande ritratto del pubblico. Da qui è nata l’idea di avere una struttura molto corale, a capitoli, ciascuno dedicato a un personaggio secondario, potremmo dire, della storia. Ciascuno di loro vede il proprio Dorian Gray in una maniera diversa e si proietta in esso.

Ogni capitolo è nominato con il nome di un personaggio che abbiamo selezionato: Basil Hallward, il pittore; Sibyl Vane, l’attrice; Alan Campbell, il chimico; Gladys Monmouth, che racchiude un po’ tutti i personaggi femminili della storia; James Vane, il fratello di Sybil; Harry Wotton, il filosofo. Ripercorrono ognuno la storia dal punto di vista del personaggio e si intrecciano fra di loro.

Si incrociano le storie, a volte si rivedono degli episodi che già avevamo visto in un altro capitolo, ma riprendendoli un pochino prima o un pochino dopo e anche, soprattutto, dal punto di vista di un altro. Dorian rimane in tutto questo immantinente, immutabile, non si coglie. Per citare Aldo Busi e la sua bella prefazione al Dorian Gray, nell’edizione Mondadori, è il «Mephisto assente», che c’è e non c’è. Non si capisce se sia vero, se ci sia o non ci sia, se sia una proiezione, oppure se sia un personaggio, una persona a caso, un ragazzo appena arrivato a Londra, in questa società che si auto dipinge come perfetta ma in realtà diventa coercitiva nei confronti degli altri.

Ph Andre Macchia – Foto di scena della prova Antepiano

È esemplificativo come inizia e finisce il libretto: «We… You… I… They… He… She… Dorian». Sembra davvero che Dorian sia una proiezione di tutti gli altri personaggi. Sembra che lottino da soli, contro sé stessi.

Chi è questo Dorian? Questo doppio di ciascuno di loro? Studiando e immergendomi nella letteratura del doppio, che era cara alla letteratura Vittoriana – basti pensare a R. L. Stevenson, a soggetti come Dr Jekyll e Mr Hyde, ma anche alla nascita della psicologia freudiana – mi sono imbattuto nella teoria del doppelganger, che, caso vuole, ha lo stesso acronimo di Dorian Gray. C’è stata questa, diciamo, illuminazione e Dorian Gray, a quel punto, è veramente diventato il doppelganger di tutti gli altri personaggi.

Alla fine, chi sia questo Dorian Gray nessuno lo sa e sta allo spettatore stabilirlo. Ma non è neanche importante, cioè è più una domanda che viene lasciata a ciascuno di noi. Ne viene fuori uno spaccato di sei personaggi la cui ispirazione è nel libro, ma soprattutto è nella nostra quotidianità. Mi sono ispirato ai testi di Oscar Wilde, soprattutto al De Profundis, le lettere dalla prigionia, oltre che, naturalmente, al romanzo stesso, Il ritratto di Dorian Gray. Ma la cosa che più mi ha lasciato senza parole è stato leggere i quotidiani, dove si trovano veramente dei tali che sembrano i personaggi del Dorian Gray, ma portati all’oggi.

Quindi abbiamo un Basil Hallward che sostanzialmente non riesce più a riconoscere qual è il confine fra un’ossessione per una Musa e un’ossessione per un ragazzino e quindi diventa uno stalker. Abbiamo una Sibyl Vane che fugge nel mondo delle ombre, usa il teatro e l’arte come una sorta di terapia per problemi familiari latenti e proietta davanti a sé l’idea di un Principe Azzurro che non esiste; quindi, sostanzialmente, vive in un mondo allucinato. Harry Watton è il tipico narcisista manipolatore. Ci sono storie così, nella nostra quotidianità, che sono terribili e da questo punto di vista potremmo anche definirla una tragedia contemporanea la nostra.

Ciascun personaggio in un qualche modo incarna uno dei nostri vizi contemporanei, la deriva sociale della nostra società. Non sono vizi del singolo individuo, ma sono vere e proprie derive sociali. Ci sono state ispirazioni anche dal testo di Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, che individua appunto le derive della nostra società, come consumismo, sociopatia, diniego. Tra queste, per esempio, il diniego è stato quello forse che, perlomeno a me, fa più paura di tutte.

Trovo che ci sia un senso di universalità. Trattare tematiche che dipingono la nostra società, che hanno a che fare con tutti, compreso il grande tema dell’ignoranza, ad esempio. Possiamo definirlo un carattere peculiare della tua ricerca artistica?

Mi verrebbe da dire una specie di attivismo artistico. Oggi viviamo in un’epoca dove non esistono più le grandi narrazioni. Non esistono più i grandi intellettuali di un tempo. Non si crede più, le religioni sono sempre meno seguite, oppure seguite in maniera estremizzata. Non si ascoltano i filosofi. Quindi agli artisti, secondo me, è dato il compito di portare avanti una domanda su noi stessi. Noi ci rifugiamo nel leggere i libri, nel guardare film e serie-tv, nell’ascoltare musica. Quanto l’artista ha salvato con il proprio lavoro il mondo?

L’arte ci salva.

È una vera e propria missione. Perché noi abbiamo bisogno delle storie per comprenderci. Quindi in realtà credo veramente che l’intellettuale moderno possa essere in questo momento l’artista, e quindi quello che pone delle domande. È attivismo e anche lavoro politico, nel senso di indagine sulla nostra società, sulla nostra polis.

Dorian Gray è pieno di argomenti che, rispetto a due secoli fa, oggi sono esplosi. Per esempio, consideriamo solo quello della bellezza. Per me è stato abbastanza chiaro vedere come la bellezza fosse conseguenza di un’ossessione per il tempo che svanisce. All’inizio Dorian Gray, quando vede il suo ritratto, dice «perché non posso fare che sia lui a invecchiare al posto mio? Perché non posso rimanere sempre lo stesso?». Quando sei così giovane sei nel massimo della tua potenza biologica e puoi fare tutto. Pian piano, man mano che invecchi, non è altro che un decadimento fisico, corporeo, a volte mentale.

A un certo punto Dorian dice: «questo ritratto mi ha rubato il tempo».

Il tempo in quest’opera è trattato in vari modi dalla scrittura musicale di Matteo Franceschini, che ha fatto veramente un’indagine personale artistica sull’utilizzo del tempo. L’ho fatto anch’io, a mio modo, applicato al testo, all’intersezione fra le storie dei vari personaggi. Il tempo si dilata anche nel libretto, vi sono parti che svaniscono e che poi ritornano; quindi, anche graficamente c’è la rappresentazione di questo. Come vediamo mille Dorian Gray diversi, ognuno di noi percepisce anche il tempo e sé stesso nel tempo in maniera diversa.

Ph Andre Macchia – Foto di scena della prova Antepiano

L’opera lirica è una forma artistica che si presta a raccontare grandi storie.

C’è anche l’astrazione della musica che ti permette in qualche modo di parlare a un livello diverso, ma mantenendo tutta la potenza, anzi aumentando la potenza del linguaggio teatrale.

Tra l’altro, c’è tantissima musica nel romanzo di Dorian Gray. Sono citati per esempio dei momenti in cui Dorian suona dei duettini al pianoforte, o quando va all’opera a vedere il Lohengrin. Oltre a citare, ovviamente, Shakespeare, o altri testi come À rebours di Huysmans, che aveva tra l’altro ispirato tutto il libro di Wilde, insieme alla leggenda faustiana. Cita l’arte in molti ambiti; sappiamo che il discorso sull’importanza dell’arte per le nostre vite, per Wilde è fondamentale.

La macchina scenica che state creando – lo scenografo è Gregorio Zurla, i costumi sono di Alberto Allegretti, Fiammetta Baldiserri firma le luci e Virginio Levrio il video design – è semplice in quanto estremamente efficace, ma allo stesso tempo complessa e articolata. 

La sensazione che ho tentato di costruire è un linguaggio filmico, magico e misterioso. Abbiamo questa grande cornice sul boccascena che racchiude all’interno i vari mondi, tempi, spazi, storie, eventi, personaggi che andiamo a creare. Quindi vari quadri o ritratti di personaggi. Però ci sono tanti altri micromondi che a volte coesistono fra loro. Ci sono tante cornici che si intersecano, proprio come le vite o gli eventi di questi personaggi. Con l’andare e venire di cornici e con l’utilizzo della macchineria teatrale, un continuo passare senza soluzione di continuità da una parte all’altra. L’effetto è veramente interessante e molto fluido. Ogni capitolo è autoconclusivo, però è intrecciato agli altri.

Lo trovo molto fedele a Oscar Wilde negli intenti, il che non vuol dire che sia fedele o che debba essere fedele necessariamente nella linea narrativa, perché è un altro strumento il teatro, rispetto al romanzo. C’è un’economia diversa di scrittura e quindi gli eventi possono anche cambiare. I personaggi possono avere una biografia anche parzialmente diversa. Però gli intenti, almeno per come li ho ricevuti io da lettore, erano questi e questa è stata la nostra traduzione.

D’altronde, il significato di un’opera non si esaurisce nell’opera in sé e neppure negli intenti dell’artista. L’arte è sempre una questione di domande.

L’intento è proprio quello di lasciare delle domande. Ecco, il ruolo dell’artista.

 

DORIAN GRAY

Musica di Matteo Franceschini
Libretto di Stefano Simone Pintor

Dorian Gray Laura Muller
Basil Manuel Nuñez Camelino
Sibyl Giulia Bolcato
James Ugo Tarquini
Alan Alexandre Baldo
Gladys Elena Caccamo
Harry Mathieu Dubroca

Orchestra Haydn di Bolzano e Trento
Direzione d’orchestra Rossen Gergov
Regia Stefano Simone Pintor
Scenografia Gregorio Zurla
Costumi Alberto Allegretti
Luci Fiammetta Baldiserri
Video Design Virgilio Levrio

Teatro Comunale di Bolzano
Sabato 16 marzo, ore 20.00
Domenica 17 marzo, ore 17.00

PAC LAB | Il Re Chicchinella di Emma Dante chiude (in bellezza) il ciclo su Basile

CHIARA AMATO* | In occasione dell’ultimo spettacolo di Emma Dante, in prima assoluta in a Milano fino al 28 marzo, il Teatro Studio – Melato cambia la propria struttura, con una gradinata frontale allo spazio scenico, che avvicina gli attori al pubblico, disposto solitamente su una platea emiciclica.
Lo spettacolo Re Chicchinella è tratto da una fiaba de Lo cunto de li cunti ovvero lo trattenemiento de peccerelle, nota raccolta di novelle in lingua napoletana, che Giambattista Basile pubblicò nel 1634 e dedicò ai membri dell’Accademia Napoletana degli Oziosi (da otium latino inteso come svago).
L’opera di Basile, nota anche con il titolo di Pentamerone (cinque giornate), è una raccolta di cinquanta fiabe, raccontate in cinque giornate da dieci narratrici: i racconti sono collocati in una cornice che segue lo schema del Decameron di Boccaccio anche se diversi sono il linguaggio e i temi trattati. Infatti l’autore seicentesco aveva arricchito le fiabe popolari utilizzando il dialetto napoletano nelle sue espressioni gergali, colorite fino al turpiloquio, perchè riprendessero i toni della nuova commedia dell’arte. La partitura metrica è decisamente barocca e riesce a sollevare dal basso la morale che ognuno di questi racconti vuole lasciare al lettore, ricordando i drammi shakespeariani (come ebbe a scrivere Benedetto Croce).

La regista torna quindi a indagare questo autore dopo i precedenti due lavori, La Scortecata e Pupo di zucchero, chiudendo così questa trilogia fiabesca. Spiega Dante che ‘Re Chicchinella racconta la storia di un sovrano malato (…) circondato da una famiglia anaffettiva e glaciale che ha un solo interesse, ricevere un uovo d’oro al giorno. L’animale vive e si nutre dentro di lui, divorando lentamente le sue viscere’.
Il fine è sempre quello di svelare lati dell’animo umano attraverso il grottesco, il paradossale, la comicità e la tragicità dell’esistenza e delle relazioni, in questo caso familiari e di corte. Lati bui e miseri delle dinamiche di potere commentando le quali il Re malato risponde ‘a che servono li denari?!’ se questa è la vita che lo aspetta?

ph. Masiar Pasquali

L’opera si apre con una scena interamente nera, elaborata dalla stessa regista che insieme a Sabrina Vicari si è occupata anche dei costumi, e un’immagine molto suggestiva: gli attori (Annamaria Palomba, Angelica Bifano, Stephanie Taillandier, Viola Carinci, Davide Celona, Roberto Galbo, Enrico Lodovisi, Yannick Lomboto, Samuel Salamone, Marta Zollet, Samuel Salamone, Viola Carinci, Marta Zollet) vestiti a lutto indossano maschere di gallina e borbottano versi, sgranando fra le mani un rosario; ai loro piedi un ammasso nero di tulle, piume e balze si comincia a muovere.
Da questo fuoriesce a torso nudo il Re (Carmine Maringola) che comincia a relazionarsi con i suoi due paggi (Davide Mazzella e Simone Mazzella). Viene spiegato che tutta la tragicomica vicenda è iniziata quando una volta, defecando, e non avendo mezzi con i quali pulirsi, aveva utilizzato una gallina che credeva morta, ma che invece si era introdotta nel suo deretano. L’animale si nutre di quello che lui ingerisce e per questo il protagonista inizia a digiunare, sperando che la gallina muoia e che la sua corte non sia più interessata solo all’aureo tornaconto: siamo infatti di fronte a una parabola che fonde la leggenda di Re Mida e la favola di Esopo sulla gallina dalle uova d’oro.
Segue l’arrivo delle damigelle, che indossano reggiseni decorati di gemme, parapalle e scarpette che richiamano la danza classica. Queste formano un vero corpo di ballo e infatti il loro unico linguaggio in scena è eminentemente corporeo (raramente brevi frasi in lingua francese). L’effetto generato è comico grazie al loro muoversi all’unisono, come galline impazzite in un pollaio, e nel ripetere le stesse frasi a turno: si sputano cibo addosso reciprocamente, mangiano con ingordigia, si sporcano e danzano da una parte all’altra della scena.
La storia narrata riguarda il Re Carlo III d’Angiò e in scena, tra i suoi familiari reali, appaiono la figlia e la moglie, dalle quali non si sente né amato né capito ma solo sfruttato.
La prima indossa un abito bianco piumato e un fiocco rosso fra i capelli mentre la seconda un abito lungo nero dalle maniche bianche: i colori potrebbero simboleggiare il carattere molto infantile della principessa, che infatti parla anche come una bambina, e l’austerità e la rigidità della regina che non è innamorata del suo sposo, anzi tutt’altro.

ph. Masiar Pasquali

I due coniugi reali si denigrano e battibeccano in scena con toni volgari, masticano il dialetto napoletano con grande abilità e si affrontano fisicamente molto da vicino, in cerca dello scontro. La disperazione del Re giunge al culmine, mentre tutti banchettano allegramente sotto i suoi occhi, e prega il medico di tirargli via il pennuto animale dal culo.
Le infermiere, vestite in culotte, parapalle e top bianco, insieme al medico in total-black rimandano alla famosa scena di Arancia Meccanica di Kubrick, dove il protagonista viene tenuto immobilizzato contro la sua volontà per poi arrivare alla ‘guarigione’: la musica è sacrale, ma in questo caso non arriva il lieto fine e il re crolla morto a terra, dopo una convulsa danza macabra.

ph. Masiar Pasquali

A conclusione tutti gli interpreti in lutto circondano il corpo che giace a terra, disponendo inginocchiatoi da chiesa lo avvolgono in un’ipocrita preghiera e spunta il pennuto (Odette Lodivisi), questo sì ben voluto e caro a tutta la corte. Sulle note di Passacaglia di Battiato, si chiude l’opera con il plauso del pubblico, che durante lo spettacolo ride, non di rado davvero a crepapelle.
Il lavoro diretto da Dante ha vari punti di forza nell’equilibrio ben calibrato fra la violenza della lingua e la leggerezza delle battute, tra la bellezza dei costumi e del movimento scenico degli interpreti. Proprio quest’ultimo riflette un lavoro intenso che la compagnia deve aver chiaramente sostenuto durante le prove: il corpo e la fisicità, nonostante la danza sia marginale rispetto al recitato, sono gli elementi cardine dello spettacolo e si ricollegano a una particolare sensibilità della regista che ha sempre guardato al codice coreografico a complemento della presenza scenica.
Gli attori si muovono spesso in maniera corale, sembrano guitti della Commedia dell’Arte, c’è nudità come a voler amplificare questa centralità del corpo. Si è immersi in uno tempo arcaico e in uno spazio tra la favola e la realtà perché le dinamiche relazionali sono fin troppo reali e offerte al pubblico con carica forte e senza convenevoli.
Gli abiti meritano una menzione particolare per due ordini di ragioni: sono belli ed eccessivi, ricordano lo stile di Dolce&Gabbana e delineano i personaggi. Sono parte integrante dei caratteri e anticipano la natura degli animi dei protagonisti di questa favola sui generis, tutta in piena coerenza con la cifra di Basile, al cui stile si resta coerenti, pur nella rilettura del tempo presente.
Il risultato è che l’impronta della regia di Emma Dante accresce le parole dell’autore napoletano, dandogli contemporaneità, pur rimanendo in uno spazio/tempo lontano e irreale.

 

RE CHICCHINELLA
Prima assoluta
libero adattamento da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile
scritto e diretto da Emma Dante
elementi scenici e costumi di Emma Dante
luci Cristian Zucaro
assistente ai costumi Sabrina Vicari
con Carmine Maringola (Re), Annamaria Palomba (Regina), Angelica Bifano (Principessa), Davide Mazzella, Simone Mazzella (Paggi), Stephanie Taillandier (Dama d’onore), Viola Carinci, Davide Celona, Roberto Galbo, Enrico Lodovisi, Yannick Lomboto, Samuel Salamone, Marta Zollet (Dame di corte), Samuel Salamone (Dottore), Viola Carinci, Marta Zollet (Infermiere), Odette Lodovisi (Gallina)
coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Atto Unico/Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, Carnezzeria, Célestins Théâtre de Lyon, Châteauvallon-Liberté Scène Nationale, Cité du Théâtre – Domaine d’O – Montpellier / Printemps des Comédiens
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma
coordinamento di produzione Atto Unico/Compagnia Sud Costa Occidentale Daniela Gusmano

Teatro Studio Melato, Milano | 9 marzo 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Il teatro documentario e la manifestazione dell’onirico: La Banca dei Sogni di Domesticalchimia a Padova

RENZO FRANCABANDERA | Questo modo di fare teatro è antico. Il teatro documentario ha radici profonde nella storia delle arti performative, e la sua evoluzione nel corso del tempo ha riflettuto i cambiamenti sociali, politici e culturali del mondo circostante. Partendo dall’innovazione introdotta da Erwin Piscator nel primo Novecento fino alle moderne declinazioni di oggi, è possibile tracciare un percorso affascinante che evidenzia il ruolo cruciale di questa forma d’arte nell’interpretare e rappresentare la realtà, insieme alla fortuna. Piscator era stato già un secolo fa un pioniere del teatro politico e documentario, introducendo una nuova visione del teatro come strumento per analizzare e commentare gli eventi contemporanei. Attraverso l’uso di montaggi, proiezioni di filmati e l’incorporazione di elementi giornalistici nelle sue produzioni, Piscator aveva creato una forma di spettacolo che sfidava le convenzioni teatrali tradizionali e coinvolgeva attivamente il pubblico nel processo di riflessione politica e sociale.
Dopo L’Istruttoria di Weiss di metà degli Anni 60, giusto per fare il rimando più celebre, in epoca contemporanea, una rinascita del teatro documentario ha cominciato a prendere forma a partire dalla fine degli anni 90, con nuove declinazioni da parte di artisti che, sfruttando anche le nuove dotazioni multimediali che consentono di lavorare anche fuori dallo spazio teatrale convenzionale, hanno avuto un grande esito internazionale, da Roger Bernat a Rimini Protokoll o Milo Rau e Lola Arias, per nominare alcuni fra coloro che hanno avuto recenti circuitazioni anche nel nostro Paese.
Diverse sono le compagnie italiane che hanno scelto questa formula di espressione per il proprio codice scenico. Fra queste, negli ultimi anni, un particolare successo ha avuto l’azione di Domesticalchimia, compagnia fondata nel 2016 da Francesca Merli (regista), Elena Boillat (perfomer e coreografa) e Federica Furlani (sound designer
e musicista)  Intorno a questo nucleo, si
aggiunsero presto Camilla Mattiuzzo (drammaturga), Laura Serena (attrice) e Davide Pachera (attore).
Già con il primo lavoro, Il Contouring Perfetto, spettacolo prodotto con il sostegno di ERT Emilia
Romagna Teatro e Rami Residenze Artistiche, la compagnia risultò vincitrice del Festival“Avanguardie 20 30”. Sono seguiti nel 2018 Una Classica Storia d’Amore Eterosessuale, vincitore del Premio “Theatrical Mass” indetto da Campo
Teatrale e del Bando di Opera Prima Festival per la categoria nuove scoperte.
Si arriva così al successivo progetto La Banca dei Sogni, che 
si propone di raccogliere e documentare i sogni delle persone attraverso interviste audio e video, per poi trasformarli in materiali artistici da utilizzare in performance teatrali. Questo approccio permette di dare voce ai sogni individuali e di esplorare le loro connessioni con la realtà quotidiana e l’esperienza umana.
Questo lavoro d’inchiesta sull’attività onirica di persone di tutte le fasce d’età che collegandosi alla pratica del teatro documentario, si configura come forma artistica che combina elementi della realtà con quelli della rappresentazione teatrale, offrendo al pubblico come prospettiva di fondo, non immediata ma che si arriva a leggere chiaramente in controluce, una riflessione indiretta su tematiche sociali, politiche o esistenziali. Il progetto pur nelle difficoltà del tempo pandemico, ha avuto un particolare successo e molti teatri in diverse regioni italiane l’hanno sostenuto, “adottandolo”.
L’ultimo in ordine di tempo a chiedere alla compagnia un intervento sul proprio territorio è stato il Teatro Stabile del Veneto che ha ospitato gli artisti a Padova per un’indagine che ha coinvolto tra l’altro molte realtà e associazioni del territorio e che si è conclusa sia con la consueta restituzione spettacolare, sia con una partecipata tavola rotonda, tenutasi l’8 marzo dopo lo spettacolo, e a cui hanno partecipato oltre agli artisti (Merli, Serena e , anche docenti universitari (la prof. Cina e il prof. Cellini del dipartimento di psicologia e neuroscienze), esponenti dell’associazionismo coinvolti nel progetto (Sebastiano Rizzardi e Nicola Bernardi), coordinati nel dialogo da Diletta Rostellato del TSV.
L’intento è stato quello di riflettere, al termine della replica, insieme al pubblico presente sulle similitudini che esistono tra teatro e antropologia, tra teatro e psicologia, tra teatro e filosofia mostrando anche come l’interdisciplinarietà tra queste realtà all’apparenza così differenti, possa creare un’alleanza efficace, mettendo il linguaggio dell’arte a comunque denominatore.

Ispirate dall’omonimo libro degli antropologi J. & F. Duvignaud e F. Corbeau, che con i sogni hanno raccontato le tensioni di classe della società francese degli anni ‘70 e ‘80, Domesticalchimia ambisce con questa operazione a raccontare la nostra società, nel percorso esistenziale e anagrafico che va dal bambino all’anziano, una scansione temporale che si dà anche nello spettacolo, che evolve proprio per scene che raccontano l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta e la vecchiaia attraverso i sogni di persone anagraficamente coerenti con questo dato anagrafico.
Come si arriva a questo?
La compagnia ha intervistato bambine/i, adolescenti, adulte/i e anziane/i di Padova come di diverse città d’Italia prima di questa, da Firenze, a Milano, Novara, Treviso, Lecce e Trieste, ogni volta restituendo quanto raccolto con una nuova riscrittura scenico-drammaturgica.
L’idea non è quella di fare psicanalisi o interpretazione, ma di scattare una fotografia, o meglio una radiografia del nostro presente, condotta attraverso uno strumento che generalmente si considera intimo, captando le tematiche che riguardano ciascuna età della vita, dai sogni per il futuro alle prospettive del tempo del lavoro, fino alla progressiva decadenza che l’essenza vivente conosce nell’ultimo tempo dell’esistenza. Lo spettacolo, come forma di restituzione, diventa quindi una sorta di termometro della specifica comunità su cui il progetto si innesta, traendo spunto dai “sognatori” che Domesticalchimia incontra di volta in volta con la sua indagine.

Vengono quindi messe in scena storie vere di persone comuni, utilizzando spesso tecniche di intervista e testimonianza per creare uno spettacolo autentico e coinvolgente e a differenza che nelle altre città, qui la sperimentazione è stata ulteriore. Infatti il modulo creativo in origine prevedeva che i sognatori stessi fossero in scena. Qui invece Merli, da sempre affascinata dalla pratica cinematografica, crea un dialogo fra i due artisti in scena (Laura Serena, Marco Trotta).

In questa nuova formula, il teatro documentario di Domesticalchimia continua a evolvere, spingendosi oltre i confini tradizionali della rappresentazione scenica tal quale. Con i nuovi media disponibili, ma che già Piscator usava un secolo fa, gli artisti hanno a disposizione nuovi strumenti per raccogliere storie e testimoniare esperienze, creando spettacoli che si nutrono della partecipazione diretta del pubblico e si inseriscono nel contesto contemporaneo in modi sempre più innovativi e coinvolgenti. L’evoluzione storica del teatro documentario è stata caratterizzata da una costante ricerca di nuove forme espressive e di nuove modalità di coinvolgimento del pubblico. Da Piscator all’attualità, questa forma d’arte ha dimostrato la sua capacità di adattarsi e rinnovarsi, rimanendo sempre fedele alla sua missione di dare voce alle esperienze e alle testimonianze del contemporaneo.

Nel contesto dello spettacolo teatrale, i sogni diventano una fonte preziosa di ispirazione e materia prima per la creazione artistica. Gli attori, attraverso l’interpretazione dei sogni raccolti, offrono al pubblico una visione intima e personale di mondi interiori, trasformando le esperienze oniriche in narrazioni vivide e coinvolgenti. Attraverso l’uso di elementi scenici, come luci, suoni e movimenti coreografici, gli attori riescono a trasmettere l’atmosfera surreale e suggestiva dei sogni, invitando il pubblico a esplorare il proprio inconscio e ad interrogarsi sul significato profondo delle proprie visioni notturne. Qui, dal sogno professionale del giovane ragazzo la cui vita è stata attraversata dalla malattia, fino ai sogni del ragazzo Asperger e all’ipotetico dialogo per un’assunzione lavorativa, e poi alla vita segnata dall’esperienza traumatica del sisma di un giovane dalla doppia vita, fino alla signora che aiuta in una comunità i malati di Alzheimer, oltre la semplice rappresentazione artistica, come testimoniato anche dall’incontro dell’8 marzo, La Banca dei Sogni si pone come uno strumento di ricerca che consente di esplorare tematiche legate alla memoria, all’identità e alla percezione della realtà.

Nello spettacolo, attraverso l’analisi dei sogni, che a volta sono sogni lucidi sulle proprie speranze concrete di vita, e la loro trasformazione in materiale teatrale, il progetto offre uno spazio di riflessione e di confronto sulle dimensioni nascoste dell’essere umano. Si è generato così anche a Padova un dialogo aperto e profondo sulla natura dell’inconscio e sulle sue manifestazioni artistiche, e ovviamente molti esiti, pur venuti fuori nel dialogo con persone che hanno attraversato esperienze traumatiche/post traumatiche, non sono state poi portate in scena proprio per proteggerle e lasciarle in quello spazio di trasformazione affidato all’arte ma non reso pubblico con l’esito spettacolare. È bene chiarire che non si tratta di un’istallazione interattiva ma di un vero e proprio spettacolo, c’é una trama legata all’evolvere delle età della vita, attraversate da “personaggi” che sono sia gli “spettattori” (in questo caso partecipanti al progetto di indagine onirica) sia gli attori in scena, mentre la regia lavora oltre che alla resa cinematografica (invero particolarmente accurata e di qualità fotografica molto alta) anche al montaggio dei materiali esterni e alla presenza scenica dei due performer con drammaturgia site specific.

La Banca dei Sogni rappresenta un esempio di come il teatro documentario possa essere utilizzato per esplorare tematiche complesse, offrendo al pubblico un’esperienza artistica e sociale stimolante. Attraverso la fusione tra realtà e sogno, su cui la drammaturgia si apre e si chiude, collegandosi ad un’esperienza di messa in scena goldoniana e di una sua possibile adesione al reale, il progetto invita gli spettatori a immergersi in mondi interiori e a scoprire nuove dimensioni dell’esistenza, in un cortocircuito fra tempi, spazi e racconti, che si esalta nei tratti documentari, dimostrando così il potere illuminante dell’arte teatrale.

LA BANCA DEI SOGNI

Un progetto di Domesticalchimia
ideazione di Francesca Merli, Laura Serena
drammaturgia Matteo Luoni
regia Francesca Merli
con Laura Serena, Marco Trotta
in video Andrea Bortolami, Luisa Pasti, Enrico Balestra, Andrea Benetton, Guido Sciarroni, Khalil, Giusy Molena
indagine a cura di Matteo Luoni, Francesca Merli, Laura Serena, Marco Trotta
musiche Federica Furlani
disegno luci Francesca Merli
assistente alla regia e cura dei costumi Enrico Frisoni
riprese video, montaggio Stefano Colonna
foto di scena Serena Pea
produzione TSV – Teatro Nazionale
si ringraziano Casa Priscilla, Liceo Nievo, Stranger Teens Oncologico, Talents Lab Lego, Cucine Economiche Popolari, Associazione IASI pronto anziano, Associazione Alzheimer di Piove di Sacco, Università degli Studi di Padova – Dipartimento di Psicologia Generale , PADOV-HA!

PAC LAB | Clorofilla di Gandini al Torlonia: la rivoluzione green che parte dai bambini

ph Claudia Pajewski

ELVIRA SESSA* | È con grande agilità sul versante fisico e affiatamento su quello attorale che gli attori diretti da Roberto Gandini hanno messo in scena Clorofilla, spettacolo prodotto dal Teatro di Roma e dal 7 al 17 marzo sui palchi del Teatro Torlonia, sempre nella capitale. Liberamente tratto dal romanzo fantaecologico Clorofilla dal cielo blu di Bianca Pitzorno, con un adattamento per la scena realizzato dallo stesso Gandini con Roberto Scarpetti, il lavoro, pensato per un pubblico dai 6 anni in su, offre spunti di riflessione per tutte le età su temi come i cambiamenti climatici e gli spazi verdi nelle metropoli, con ironici cenni al giornalismo sensazionalista e alle fake news sui social media.

ph Claudia Pajewski

Clorofilla racconta le avventure di due bambini, Michele e Francesca, spediti dalla mamma a trascorrere l’estate a Roma da uno zio che non hanno mai visto. Finiscono, per una serie di equivoci, a casa del professor Erasmus, sapientissimo botanico e socio onorario della “Lega dei nemici dei bambini, cani, gatti e animali affini” il cui patrono è il Re Erode. Nel laboratorio del professore i  bimbi conoscono Clorofilla, una piccola extraterrestre simile a una pianta, precipitata sulla Terra nella notte di San Lorenzo e che rischia di morire a contatto con lo smog della Terra. Erasmus è tutto intento a trovare la formula che le salvi la vita. La storia è un avvicendarsi di esperimenti scientifici, corse sui tetti dei palazzi e irruzioni della polizia, mentre Roma si trasforma un po’ alla volta da città di cemento in una giungla tutta verde.
“Abbiamo scelto di affrontare il tema del cambiamento climatico in maniera gioiosa, con un linguaggio diverso da quello ansiogeno dei media.” spiega il regista Roberto Gandini rivolgendosi alla platea prima dello spettacolo.

ph Claudia Pajewski

Basta assistere allo spettacolo per riscontrare quanto i piccoli manifestino entusiasmo e calore, con risate, domande, gestualità, interagendo con gli attori e superando ogni barriera tra realtà e finzione.
In quell’ora di rappresentazione capiscono che la recita è per loro.
Molto si deve alla spiccata capacità espressiva e comunicativa degli interpreti Francesca Astrei, Paolo Minnielli, Giulia Navarra, Maria Teresa Campus, Danilo Turnaturi, tutti con una formazione accademica (chi dal Centro Sperimentale di Cinematografia, chi dall’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico o dall’Accademia d’ Arte del Dramma Antico). Colpisce in particolare l’esuberanza del professor Erasmus (Paolo Minnielli) credibile e convincente sia quando si infiamma nella sua lotta contro i bambini, sia quando si rivela profondamente affettuoso e premuroso verso i due bambini, Michele e Francesca.
A coinvolgere il pubblico sono anche danze, canti (testi di Gandini), musiche (Andrea Filippucci) e scenografie modulari, abilmente dipinte (pittrice e decoratrice Susanna Lunadei, scene di Paolo Ferrari e del laboratorio scenotecnico del Teatro di Roma in collaborazione con l’Accademia delle Belle Arti di Roma), capaci di trasformarsi dal prima in palazzoni di cemento, per diventare poi pareti domestiche o quelle di un commissariato di polizia, e infine giardini incantati che avvolgono il Colosseo e la cupola di San Pietro.
La spensieratezza e la fantasia, che guidano la pièce, si rivelano così non una evasione ma un canale privilegiato per interrogarci sui temi spinosi dell’inquinamento terrestre e leggerli con lo sguardo fiducioso dei bambini.

CLOROFILLA

adattamento teatrale Roberto Gandini e Roberto Scarpetti
regia Roberto Gandini
con Francesca Astrei, Maria Teresa Campus, Paolo Minnielli, Giulia Navarra, Danilo Turnaturi
musiche Andrea Filippucci
testi canzoni Roberto Gandini
scene Paolo Ferrari
costumi e marionette Tiziano Juno
assistente alla regia Silvia Mirabelli
pittrice/decoratrice Susanna Lunadei
realizzazione scene laboratorio scenotecnico del Teatro di Roma
collaborazione alla realizzazione delle scene e dei costumi le studentesse dell’Accademia di Belle Arti di Roma Valentina Gafforio, Roberta Infante, Denise Marino, Rebecca Mazzucco, Valentina Meo, Sofia Minciullo, Iolanda Nicoletti, Jeysi Juliana Puccetti

Teatro Torlonia, Roma, 9 marzo 2024


* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Arichivi Viventi: la parola agli artisti

CRISTINA SQUARTECCHIA | Il focus di Archivi viventi è la vita artistica durante gli anni Ottanta. I maestri e i protagonisti di quel fermento creativo che si sono mossi tra sperimentazione e ricerca nei territori ancora incontaminati da nuovi linguaggi coreografici, aprendo la strada a nuove modalità compositive, rischiano oggi di perdersi tra i tanti rivoli delle storie di danza. Ogni singola narrazione si fa per questo preziosa in questo progetto, ogni aneddoto, pratica e curiosità rievocata risveglia memorie individuali che si intrecciano a quelle degli altri in una rete di condivisioni. Ascoltare gli artisti che a Pescara hanno percorso a ritroso parte della loro storia tra immagini, costumi di scena, l’indimenticabile valigia de Il cortile portata da Giorgio Rossi, libretti di sala e manifesti ha riportato in vita ciò è stato. Li unisce inequivocabilmente, oltre l’arte della scena ed i corpi, pieni di storie e saperi, il comune desiderio di raccontarsi.
Dopo l’intervista a Laura Delfini – che ha sottolineato «da parte di tutti ho sentito la spinta data dal piacere della condivisione» – anche ad ognuno di loro abbiamo rivolto una domanda, uguale per tutti.  È intervenuta  Anouscka Brodacz nella doppia veste di curatrice di Matta in scena 2024 sezione danza e come artista coinvolta in Archivi viventi, ripercorrendo la genesi e la messa in scena di Mutazione realizzato con la danzatrice Sandra Fuciarelli. Giovanna Summo, legata al folklore del centro sud italiano e caratterizzata da una ricerca sul corpo e la scena di taglio antropologico ha ritrovato le sue motivazioni artistiche.  Claudia Monti ha invece ricordato i suoi inizi all’Accademia di belle arti di Genova come modella insieme ad altri danzatori con i quali ha fondato il felice collettivo di Arbalete. Alessandro Certini, iniziatore della contact improvisation in Italia ha mostrato alcuni libretti di sala ed inviti del 1979 quando si esibiva con la famosa Katie Duck. Ed infine Giorgio Rossi che è ritornato ai Sosta Palmizi, a quell’entusiasmo originario che diede vita a Il cortile.

Che cosa ha significato per te raccontare una parte del tuo percorso artistico?

Anouscka Brodacz: Quando sono stata scelta nel progetto di Laura Delfini per Archivi  Viventi, a parte l’apprezzamento immediato per il progetto, mi sono immersa nella ricerca della mia documentazione degli anni ‘80 con grande entusiasmo, nonostante le difficoltà di reperire materiale fotografico e l’assenza totale di video. Sono passata poi a richiedere ad alcune mie danzatrici dell’epoca testimonianze e verifiche di dati e stati d’animo delle nostre vicende artistiche. Fatto che ha creato una condivisione di entusiasmo e piacere nel scartabellare documenti, programmi di sala, le poche foto e raccontarci ricordi e aneddoti. Lo stesso piacere che ho condiviso poi, nel maggio 2023 a Tuscania, con gli artisti invitati. In tutti e due i casi c’è stato per me un rinnovato il piacere di condividere il nostro percorso creativo, senza indulgere nella nostalgia, ma rivedendo il nostro comune resistere nella ricerca e sperimentazione della danza.

Giovanna Summo: Ritornare con la memoria e raccontare un breve episodio del mio percorso artistico nel progetto Archivi Viventi è stato molto significativo e vitale. Negli ultimi anni della mia vita ho fatto la scelta di vivere molto tempo in India, interrompendo la mia attività in Italia, studiare una nuova tecnica, antichissima, di teatro danza indiano, portandomi a tralasciare e dimenticare il percorso di teatro danza occidentale. Dopo alcuni anni in India ho avuto l’esigenza di rapportarmi nuovamente alla mia esperienza precedente di ricerca nel teatro danza occidentale, integrandola con la nuova realtà. Il progetto Archivi Viventi è arrivato in questo momento della mia vita, perfettamente in sintonia con la mia necessità. Ricordando e rivivendo le mie esperienze artistiche con uno sguardo nuovo e distante, molti aspetti poco considerati allora sono risultati interessanti e significativi. Mi è stato chiaro anche come alcuni interessi artistici, che mi hanno portato alla scelta un po’ estrema degli ultimi anni, fossero già presenti allora negli anni ’80. In generale la visione del “paesaggio artistico” di quegli anni, mio e dei miei colleghi, visto a distanza, ha assunto un senso di unità ed integrità maggiore e di coerenza. Partecipando ad Archivi Viventi è emerso in me un maggiore apprezzamento e una profonda gratitudine per le esperienze vissute, una consapevolezza maggiore sul fatto che ognuno di noi costruisce con la propria vita, in modo unico, da condividere con gli altri.

Claudia Monti: Con Archivi viventi si è creata la circostanza per raccontare, ma il desiderio di riprendere le fila di quello che avevo fatto si era formata qualche tempo prima. C’era il desiderio e anche il divertimento, oso dire la gioia, di ripercorrere alcuni momenti importanti e di cimentarsi con la parola, che per noi artisti della danza non è il canale privilegiato per comunicare. Sotto la guida attenta e sensibile di Laura Delfini mi sono trovata a raccontare parti di una storia più complessa insieme ad artisti attivi nello stesso periodo. I vari racconti raccolti vengono da un ceppo comune -l’aver vissuto quegli anni- ma ciascun racconto si estende e si ramifica in direzioni diverse. Ascoltando si scoprono legami, si è invitati a fare collegamenti tra piani diversi del tessuto sociale ed artistico. I racconti sono un intreccio tra biografia e mestiere. Sono uno stimolo per una osservazione del presente, perché riattualizzano. Non è il passato ma è qualcosa in me ora nel presente che parla dell’esperienza. Raccontare parte del mio percorso ed essere ascoltata mi ha permesso di riassaporare il mio passato, e sentire che danzare è stato il mio modo di mantenermi in relazione con il mondo. Rielaborare per mettere in relazione, per far sentire una coscienza allargata. Tutto questo crea valore. Svela quanto ancora abbiamo in comune, noi e i più giovani, nella vocazione, nello slancio per il nostro mestiere. E la cosa più importante e preziosa di Archivi viventi è proporre che il rapporto tra le generazioni passi dall’ascoltare.

Alessandro Certini: Nel volgere lo sguardo al passato, nell’evocare i primi percorsi artistici e professionali, vengono pizzicate inevitabilmente le corde delle emozioni. Superata la naturale nostalgia prodotta da questo rovesciare gli occhi del tempo (citando G. Penone), mi trovo ogni volta con Archivi Viventi a ri-contestualizzare i ricordi, a passare di nuovo le soglie, per andare oltre, per valutare ed evolvere. Vedo che sono ancora vive le motivazioni che hanno sostenuto il lavoro di ieri e ne noto il nutrimento. Nutrimento umano non solo artistico, alimento per le esplorazioni future.  Il tempo è certamente tiranno, ma è anche e soprattutto servitore del presente.

Archivi viventi: intervista a Laura Delfini, ideatrice e curatrice del progetto   

CRISTINA SQUARTECCHIA | La forza delle narrazioni, prima ancora di incuriosire chi ascolta, è quella di attivare la memoria in chi racconta. La danza, arte povera di narrazioni per sua natura effimera, non lascia traccia ed esiste nel momento in cui la si esegue. La curiosità e l’interesse di domandare e domandarsi cosa è accaduto risveglia e fa esistere per una seconda volta ciò che è stato. Ogni forma di narrazione storica parte da qui. Archivi viventi, progetto a cura di Laura Delfini va in questa direzione e racconta le storie di quei protagonisti, pionieri e innovativi coreografi della scena coreutica anni ’80 recuperando storie, memorie e pensieri coreografici. Il progetto, che ha inaugurato la rassegna Matta in scena 2024 lo scorso febbraio per la sezione danza a cura di Anouscka Brodacz allo Spazio Matta di Pescara, ha portato alcuni protagonisti a raccontarsi, a ricordare parte delle loro creazioni, inizi e percorsi sulla scena danzante di quegli anni. A Pescara hanno preso parte: Anouscka Brodacz, Claudia Monti, Giovanna Summo Alessandro Certini e Giorgio Rossi. Raccontare partendo da un aneddoto, un oggetto, un costume, un qualsiasi tratto distintivo della loro ricerca coreografica ha attivato la micronarrazione in uno scenario più ampio delle storie di allora. Mettere in moto la memoria raccontando significa dare una seconda vita al vissuto individuale e collettivo.

Abbiamo ascoltato le narrazioni di tutti e Laura Delfini, esperta di coreologia e analisi del movimento nella visione labaniana, studiosa di danza, danzaeducatrice e counselor, ci ha raccontato come è nata e si è sviluppata questa avventura in danza.

Com’è nata l’idea di questo progetto?

L’idea è nata durante il 2020, nel periodo in cui eravamo chiusi in casa per via della pandemia ed eravamo abituati a connetterci via computer. Ho cominciato a dialogare con alcuni coreografi, in particolare con Claudia Monti, Giovanna Summo e Ian Sutton, che mostravano il desiderio di fare qualcosa per contrastare il rischio di perdita della memoria del lavoro di un’intera generazione di danza di ricerca attiva in Italia sin dai primi anni Ottanta. Con loro ci siamo incontrati più volte online finché si è definita una modalità di ricerca. Archivi Viventi vede il suo numero zero nascere nel dicembre del 2020 attraverso un incontro online con ospiti esperti a cui chiedevamo un feedback. La loro restituzione fu estremamente positiva e ci incoraggiarono a proseguire. Attraverso il supporto di Silvana Barbarini e di Vera Stasi nel 2021 abbiamo avuto l’opportunità di realizzare una prima residenza a Tuscania che ha contributo fortemente a una definizione più puntuale della ricerca. Da allora il progetto procede in maniera intermittente anche in rapporto ai finanziamenti disponibili.

Quali sono i coreografi che hai incluso in questo progetto? E perché loro e non altri?

Gli artisti che hanno dato il loro contributo al progetto sino ad oggi sono Sisina Augusta, Paola Bianchi, Anouscka Brodacz, Alessandro Certini, Monica Francia, Claudio Gasparotto, Claudia Monti, Giorgio Rossi, Francesca Romana Sestili, Giovanna Summo, Ian Sutton, Ariella Vidach e Teri Weikel.
La scelta avviene prima di tutto in base a dati storici e stilistici. Incontro chi si occupa di danza di ricerca già a partire dagli anni Ottanta. Gli inviti ai coreografi si sono definiti anche in base ad una ricerca risalente a trenta anni fa. Nel 1994 curai assieme a Silvana Barbarini e a Giorgio Rossi una rassegna svoltasi al Teatro Vascello di Roma dal titolo Danza d’autore: memorie, realtà, prospettive. Furono dieci giorni molto densi di presentazioni danzate sia dal vivo sia in video, ma anche di momenti dedicati alla parola e al dialogo. Successivamente e in rapporto alla rassegna pubblicai Coreografie contemporanee un volume che raccoglie i dati delle coreografie di 52 artisti. Sono schede compilate dagli artisti stessi, ciascuna per ogni loro opera. Anche quella è una fonte a cui attingo. Infine la cosa più importante è il desiderio di raccontarsi. Da parte di tutti ho sentito la spinta data dal piacere della condivisione.

Quante puntate ha avuto Archivi viventi dal 2020 a oggi e dove?

I luoghi di presentazione ad oggi: Tuscania 2021 e 2023, Roma, Modena, Sesto Fiorentino, Genova, Pescara. Personalmente sono stata invitata a parlarne in due convegni e ad un talk curato da Stefania Di Paolo (TalkwithDance). Ne ho scritto in un’intervista che mi ha fatto Paolo Ruffini nel 2021 consultabile qui.

Aggiungo qui qualche dato. Sino ad oggi il progetto è stato sostenuto da:
Vera Stasi/TUSCANIA DANZA 2021 grazie al sostegno del Ministero della Cultura, Promozione Danza Art. 41 e della Fondazione Carivit;
Associazione per lo sviluppo della danza Arbalete (Genova)
Vera Stasi/DARE LUOGO 2023 grazie al sostegno della Chiesa Valdese/Bando 8×1000;

ed è stato supportato e presentato dal vivo:
Progetti per la Scena curato da Silvana Barbarini / Supercinema (Tuscania, 2021)
Cosmonauti curato da Alicja Ziolko / Spazi Urbani (Tuscania, 2021)
Interazioni curato da Salvo Lombardo / Chiasma (Roma, 2021)
CineDanza Festival, Drama Teatro (Modena, 2021)
Art Lives Matter a cura di Company Blu (Sesto Fiorentino, 2022)
Festa per la Cultura a cura di Associazione Controchiave (Roma, 2022)
Resistere e creare con il sostegno di Fondazione Luzzati/Teatro della Tosse, Associazione Sarabanda, Associazione Arbalete (Genova, 2022)
Dare Luogo curato da Associazione Vera Stasi / Casanave alle Mura (Tuscania, 2023)
Matta in Scena curato da Artisti per il Matta (Pescara, 2024)

Prossima tappa? 

Le azioni si svolgono su più fronti: da una parte continuo a raccogliere le narrazioni, dall’altra cerco e accolgo con gratitudine gli inviti di chi sceglie di investire sul progetto, infine cerco finanziamenti per ampliare la ricerca e per creare un sito internet dedicato; su questo ultimo fronte la mia preziosa partner è Silvana Barbarini. Nel caso della presentazione a Pescara, abbiamo risposto ad un caloroso invito della coreografa Anouscka Brodacz, curatrice della sezione danza di Matta in Scena 2024. Per quel che riguarda i materiali rintracciabili online attualmente siamo ospiti di Vera Stasi che ci ha dedicato un’intera sezione nel sito www.progettiperlascena.orgNel 2011 Marinella Guatterini avvia il progetto Ric.Ci Reconstruction Italian Choreography Contemporary anni ‘80/’90 con lo scopo di rimettere in moto la memoria attraverso la ripresa di alcune delle coreografie storiche che hanno segnato la danza d’autore e contemporanea di quegli anni. Nel 2016 viene pubblicato il volume Le pioniere della nuova danza italiana. Le autrici, i centri di formazione, le compagnie., un altro progetto, questa volta editoriale, che cerca di recuperare una parte degli inizi della storia della danza moderna e contemporanea in Italia, poco raccontata. Archivi viventi è una di queste operazioni di recupero. Quanta danza è rimasta ancora da raccontare?

La danza da raccontare è ancora tantissima. Concentrarsi sulla quantità, però, non è utile perché si sviluppa solo frustrazione e senso di impotenza. Personalmente ho scelto una strada molto diversa in cui parto dal dato certo che la mia ricerca non sarà mai esaustiva; e ciò non mi preoccupa. Sono impegnata a migliorare costantemente la comunicazione in modo che ciò che viene narrato sia ricevibile da chi ascolta e osserva. Come studiosa convertita a processi creativi di ricerca so che questo progetto ha una infinita potenzialità sia per l’affermazione e il consolidamento di identità artistiche trascorse, che per la trasmissione alle future generazioni.

Lello Cassinotti e il teatro sonoro nel libro “Artaud e i suoni della crudeltà”

ELENA SCOLARI | Come si fa a far uscire la musica da un libro? Lo ha fatto Lello Cassinotti con il volume Artaud e i suoni della crudeltà edito da Ponte Quarantatre. Cassinotti è attore e performer, fondatore della Compagnia Delleali teatro, esplora da sempre con particolare passione il mondo dei suoni e della voce attraverso il corpo/strumento. Lo stimolo di partenza di ogni suo lavoro è dettato da un immaginario visivo o sonoro. Realizza letture di poesia sonora, installazioni o contesti visivi in cui agisce in prima persona.
Ora ha creato un bellissimo libro d’arte in cui coabitano i suoi collage grafici con interventi di numerosi attori, artisti, musicisti, poeti, insegnanti, scrittori, registi che hanno affiancato il loro personale contributo all’immagine, in forma libera, immaginando (oppure no) un pensiero legato alla musica, al suono o ad Artaud.
Il volume contiene anche preziosi e ricchi testi della studiosa di teatro Vincenza Di Vita, della filosofa Florinda Cambria, del regista, drammaturgo e critico Franco Ruffini.
Forse è stato proprio lo spirito di quel pazzo di Antonin Artaud a ispirare un’operazione così articolata e variegata, niente affatto “crudele” ma anzi generosa e stimolante per tutti quelli che sfoglieranno queste pagine, fatte di carta piacevole anche al tatto.

Abbiamo dialogato con l’autore Antonello Cassinotti di questa avventura editoriale e artistica.

Cosa ha a che fare Artaud con te e con il tuo teatro?

Io non sono un intellettuale ma studio, leggo e sono curioso, il mio approccio al teatro è sempre stato pratico. Mi piace abitare la macchina, lo faccio come organizzatore, come insegnante e anche come performer.
Anna Maestroni del TTB (Teatro Tascabile di Bergamo, n.d.r.), per prima mi parlò di Artaud, io ero giovincello e a quel tempo non ho troppo approfondito ma poi alla Scuola del Teatro Arsenale mi fecero leggere L’arte segreta dell’attore – Un dizionario di antropologia teatrale” di Barba e Savarese, poi testi sul teatro Nō giapponese – Kuniaki Ida era già tra gli insegnanti – e poi lessi “Il teatro e il suo doppio“. E pensai: che personaggio! Mi ha affascinato la vita di Artaud, prima e più che le sue teorie e peripezie attorno al teatro e al cinema. E per un po’ è rimasto sul comodino.
Nel mio primo spettacolo, poi, Tutto quello che avreste voluto sapere sugli occhi storti e di cui non avete mai osato chiedere, che fa riferimento al film di Woody Allen (Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso e non avete mai osato chiedere, n.d.r.), raccontavo l’aneddoto della mia vita in cui sono diventato strabico a causa di un’indigestione di banane.

Che è un fatto biografico degno di Artaud, diciamolo.

Già! Mia madre mi ha sempre raccontato che avevo un anno e mezzo, eravamo in vacanza, mio cugino più grande mangiava una banana, ovviamente la volevo anche io e così gliene presi un pezzo, l’ho mangiata e poi nel giro di qualche ora mi è salita la febbre. Avevo fatto un’indigestione che ebbe un effetto amplificato, ebbi scompensi nervosi, convulsioni… e in seguito a questa crisi i miei occhi subirono un danno.
Nello spettacolo di cui ho accennato cito Artaud quando – più o meno – afferma che la gente ha fame e la cultura non ha mai sfamato nessuno. Ho trasposto questa osservazione al concetto simbolico della fame insaziabile, una bulimia di vita che porta alla questione della sovrapposizione tra teatro e vita. Tutti noi teatranti ne siamo vittime. Banane o non banane. Sentiamo la necessità di alimentare quel modo di vivere che sovrappone vita e arte. Per Artaud questo riguardava la poesia del teatro, per lui il teatro era poesia. Significava rivoluzionare se stessi.

Ritmo scandito – collage di Lello Cassinotti

Com’era questo spettacolo al potassio?

Lo spettacolo era una parabola in cui un personaggio, in un teatrino (il cui boccascena era la copertina de Il teatro delle marionette di Von Kleist), chiedeva una banana, gli veniva data, poi ne chiedeva una seconda che otteneva con difficoltà, poi ancora altre con maggiori difficoltà, man mano con gradini sempre più alti, a metà spettacolo gli serviva una mappa per trovare la banana, una vera caccia. Il personaggio scova uno scrigno ma nessuno saprà mai cosa ci ha trovato o non trovato; da lì in avanti comincerà a prendersi tutte le banane che vuole, le ruberà, con uno scarto sempre maggiore di necessità. Alla fine avrà e mangerà banane su banane. Una indigestione crudele.
La gente rideva da matti fino allo spiazzamento finale: lo spettacolo si chiudeva con la frase: «Come successe a un bambino nel 1961, in una località in provincia di Bergamo denominata Leffe, a cui si storsero gli occhi e rimasero così per sempre».

Quali sono stati gli altri incontri artaudiani sulla tua strada?

Sono stati in tante forme diverse e con tante persone diverse: ho conosciuto l’autore e fotografo Maurizio Giannangeli (il cui intervento è nel volume) e nelle conversazioni con lui Artaud usciva sempre, è un personaggio che mi è stato sempre presente benché non lo capissi fino in fondo, e forse nemmeno ora ma credo che Artaud non vada capito, Artaud va frequentato. Ci sono troppi Artaud da conoscere: la sua idea di teatro, la sua vita, Artaud letterato, antropologo, filosofo…
Vidi César Brie in Talabot (regia di Eugenio Barba) in cui recitava la conferenza Le théâtre et la peste, vidi spettacoli dell’Odin Teatret; vidi il lavoro di Danio Manfredini, che mi sembrò di stile decisamente artaudiano; poi lessi il saggio di Artaud Van Gogh il suicidato della società, scritto – su richiesta – in seguito alla visita alla mostra dedicata al pittore dal Musée de L’Orangerie di Parigi e ne rimasi molto colpito per la visione “sociologica” che ne emergeva, di un artista schiacciato e impedito dal contesto in cui era calato.

Arriviamo al tuo interesse per la musica: il suono segue da sempre il tuo percorso, hai fatto anche studi “beniani” (legati a Carmelo Bene), ti piace mescolare suono e voce per farne materia. Hai trovato osservazioni di Artaud su questo elemento del tuo fare teatro?

Rispetto alla musica ho portato Artaud verso di me. Io avrei voluto essere un musicista, ho provato con la tromba ma non ottenevo cose abbastanza belle in rapporto alla fatica, così ho pensato di fare musica in un altro modo, con la voce, per arrivare a un’idea musicale del teatro, in cui ogni gesto e ogni luce sia parte di una composizione. Sperimentando ho costruito spettacoli in cui il testo veniva meno, diventava materia sonora, il fruitore non capiva le parole perché le rompevo, le acceleravo. E qui stava il nocciolo della mia decostruzione.
Ho collaborato con musicisti come Nino Locatelli e Giovanni Fontana (entrambi presenti nel libro). Quest’ultimo mi ha fatto conoscere la dimensione dell’improvvisazione, ho sperimentato la poesia sonora attraverso musicisti come Luigi Pasotelli, un poeta sonoro e visivo che crea composizioni grafiche su partiture, a un certo punto della sua carriera si è scoperto performer e ha cominciato a chiamare i suoi interventi “teatrini sonori”. L’unione era dunque possibile. E così ho lavorato sul passaggio dal verbale al non verbale in scena per comporre poesia sonora.
Chi si considera performer non fa teatro, realizza la totalità, l’estremizzazione dell’uomo-teatro, Artaud era il teatro nella vita e fuori, quindi era un performer.
Il mio teatro è una continua indagine su come intrecciare, come far coabitare la pulsione musicale con quella teatrale.

Il libro è esso stesso una composizione: ci sono i tuoi collage – a loro volta creazioni composte – e poi c’è la parola scritta, come esce la musica da qui?

La musica è nel senso delle parole, nel significato degli interventi raccolti, a volte in maniera esplicita altre invece nel ritmo e nell’armonia dei contributi.
Il primo (mio) contributo, Il grido silenzioso, è accoppiato al collage Il grido lanciato, in quella pagina si parla di musica; nella pagina di Eliogabalo o l’anarchico incoronato a cui mi riferisco, Artaud parla di musica per parlare di teatro.
Dal punto di vista più diretto ci sono poi alcuni QR code che rimandano a file audio da ascoltare.
In origine non ero nemmeno partito con l’idea di fare un libro.

Il grido lanciato – collage di Lello Cassinotti

E come hai stabilito che la forma libro sarebbe stata la giusta via?

Data la mia passione indagatoria per la musica parallela a quella per Artaud, ho cominciato ad appuntarmi tutte le sue frasi che avevano a che fare con la musica, frasi dove ci fosse almeno un termine che riportasse alla musica o alla sonorità. È stato anche un gioco terapeutico per prendermi un tempo fuori dal lavoro di organizzazione. Contestualmente ho iniziato a costruire i collage, senza nessuno scopo preciso, poi li ho associati alle frasi che avevo raccolto, cominciando a pensare che questa unione avrebbe potuto diventare un libro.

Come hai scelto le persone per il libro e quali consegne hai dato loro?

La maggior parte l’ho scelta per rapporti di fiducia reciproca e per un modo simile di abitare il palco. Ho chiamato i colleghi con i quali condivido una dimensione compositiva del mettere in scena o che trovo abbiano un modo di fare musicale: tra i tanti, Roberto Latini per il suo rapporto artistico con Gianluca Misiti, César Brie e Danio Manfredini per le ragioni raccontate prima, Andrea Cosentino per il suo essere un po’ musicista e per la sua personalissima frequentazione teatrale con le teorie di Artaud.
Tengo molto poi alla presenza di Giovanni Fontana, poeta e performer che ha fatto parte dei più importanti movimenti di poesia sperimentale e performativa degli anni ’60 collaborando a numerose riviste di poesia sonora tra cui Baobab di Adriano Spatola e Giulia Nicolai. Il suo contributo comprende un piccolo poema di Artaud del 1946 che Jean-Jacques Lebel inviò alla rivista La Taverna di Auerbach e che in Italia è stato tradotto e pubblicato solo nel 1989-90 proprio da Giovanni.
Vincenza Di Vita poi mi ha aiutato suggerendomi altre persone che pensava adatte per un’operazione del genere.
A tutte le persone che hanno accettato l’invito ho mandato l’immagine di un mio collage e la frase a cui l’avevo associato, lasciando libertà assoluta per la forma del contributo. Letteralmente carta bianca. Ho soltanto suggerito che le linee tematiche giravano intorno al suono e ad Artaud ma senza che nemmeno queste fossero vincolanti.

Quali sono i primi riscontri dopo l’uscita del volume?

Io sono felicissimo! Oltre che per il volume in sè anche perché durante le presentazioni sembra nascere nel pubblico un interesse più ampio di quanto sta nel libro stesso. E questo è uno degli obiettivi. Il mio sogno è che si organizzi un giorno una tavola rotonda su teatro e musica in Artaud.

Ma intanto a Bergamo ci sarà presto un’occasione importante, dicci qualcosa al riguardo.

Sì! A Bergamo il TTB organizza una settimana di studi su Artaud che si aprirà proprio con la presentazione del mio libro, il 10 marzo alle ore 17. L’evento si intitola Gli orienti di Artaud – Poeta, attore, visionario, uno dei grandi profeti del teatro. Ci saranno mostre, seminari, laboratori, performance e si terrà dal 10 al 17 marzo presso il Monastero del Carmine.

ARTAUD E I SUONI DELLA CRUDELTÀ

Autore Antonello Lello Cassinotti
Organizzazione Ponte43
In collaborazione con delleAli Teatro e Theatron 2.0
Curatela scientifica e coordinamento Antonello Lello Cassinotti
Coordinamento editoriale Ponte43
Grafica e impaginazione Armando Fettolini
Referenze fotografiche Giudicianni & Biffi – Mezzago
Stampa La grafica – Trento

Alta Formazione gratuita di ERT: la Scuola di Drammaturgia Fisica con Michela Lucenti

RENZO FRANCABANDERA | Spesso la formazione specialistica risulta onerosa per chi vuole formarsi. Da anni ormai Fondazione Emilia Romagna Teatro realizza per il tramite della Scuola Internazionale di Alta Formazione Teatrale Iolanda Gazzerro, (finanziata Rif. PA 2023-20216/RER, finanziata con risorse del Programma Fondo sociale europeo Plus 2021-2027 della Regione Emilia-Romagna e approvata con Deliberazione di Giunta Regionale n. 2096 del 04/12/2023), corsi formativi per figure del mondo dello spettacolo e dell’arte dal vivo. I corsi di Alta Formazione della Scuola, diretta da Valter Malosti, hanno l’obiettivo di mettere in contatto giovani artisti con maestri che li aiutino a perfezionare le arti apprese e, in alcuni casi, a metterle in discussione. Lo strumento principale è il workshop pratico, strutturato secondo precise scansioni di tempi e contenuti, sottoposto a una continua verifica critica da parte dell’artista che guida il corso.
Diversi sono i corsi per i quali sono già stati chiusi i bandi mentre è attivo quello destinato a giovani attori, ballerini e performer fisici per il corso che sarà tenuto da Michela Lucenti: Le Parole del Corpo: Scuola di Drammaturgia Fisica. La Drammaturgia Fisica, che parte sempre da un rigoroso e rinnovato lavoro coreografico, implica un lavoro di squadra tra drammaturghi e compositori, mirando alla scrittura di veri copioni che coinvolgono parole, suono, immagini e danza per narrare un presente più complesso ed elusivo.
I corsi di specializzazione come questo vogliono essere un luogo di didattica applicata, tra pedagogia e sperimentazione teatrale e quello di Lucenti si inscrive nel quadro del focus sulla drammaturgia fisica Carne, fortemente voluto dal Direttore Valter Malosti e affidato alla coreografa e ballerina fondatrice di Balletto Civile e artista associata dell’ERT per il triennio 2022/2024.

Le Parole del Corpo: Scuola di Drammaturgia Fisica
nasce dall’urgenza di indagare e sperimentare la relazione tra danza e teatro, a partire dal corpo.
L’obiettivo del corso è quindi sostenere e stimolare la creatività emergente dei giovani performer che sappiano combinare il lavoro d’azione e la scrittura coreografica con un vero e proprio discorso drammaturgico, senza trascurare il processo verso la scrittura di un nuovo segno/linguaggio, al fine di rendere possibile un vero nuovo panorama del teatro fisico/di danza.


Tra maggio e ottobre 2024, i partecipanti saranno guidati da Michela Lucenti e da importanti artisti nazionali e internazionali nell’esplorazione delle tecniche e dei linguaggi della danza e del teatro, con l’obiettivo di esplorare insieme un linguaggio ibrido e multidisciplinare che possa rispondere alle nuove esigenze espressive dei giovani artisti che pongono il corpo al centro del proprio processo creativo.
Lucenti ha una carriera ricca di esperienze che l’hanno vista emergere come una delle voci più significative nel panorama della danza e del teatro contemporaneo in Italia. Nata da un background formativo presso la Scuola del Teatro Stabile di Genova, e dopo aver co-fondato negli anni ’90 la compagnia L’Impasto insieme ad Alessandro Berti, nel 2003 Michela Lucenti ha dato vita a Balletto Civile, un progetto artistico nomade caratterizzato dalla ricerca di un linguaggio scenico totale, diventato un punto di riferimento nel panorama della danza contemporanea italiana, con produzioni innovative e provocatorie che hanno esplorato temi sociali, politici ed esistenziali con audacia e profondità.

ph Andrea Macchia

Ma oltre alla sua attività artistica, per la quale ha ottenuto anche diversi riconoscimenti, Michela Lucenti si è dedicata con passione all’insegnamento e alla formazione attraverso workshop, masterclass e corsi di alta formazione, dove ha ispirato e guidato gli studenti verso la scoperta della propria voce artistica e della propria espressione autentica. Il suo impegno nel campo dell’insegnamento si è manifestato anche nella direzione artistica di importanti festival e programmi educativi, come il Festival Resistere e Creare e il Festival Fisiko! presso il Teatro della Tosse di Genova.
Nel 2022, Michela Lucenti è diventata artista residente presso l’Emilia Romagna Teatro e curatrice della rassegna di drammaturgia fisica Carne, consolidando ulteriormente il suo ruolo di mentore e guida nella comunità artistica.

Michela Lucenti mira dunque a ispirare le nuove generazioni di artisti con la sua passione, la sua creatività e la sua dedizione alla ricerca della verità espressiva, legando l’esperienza alla diretta applicazione sul campo di quanto studiato. Al termine del corso è infatti prevista una dimostrazione pubblica del percorso pedagogico, all’interno della stagione di una delle sedi dell’ERT o del programma Carne.

**Programma:**

Il corso si svolgerà dal 6 maggio al 20 luglio e dal 9 settembre al 19 ottobre 2024, con attività di project work da gestire in autonomia nel mese di agosto.

**Durata del Percorso Formativo:** 740 ore, di cui 540 ore d’aula e 200 ore di project work.
Attestato di frequenza.

**Iscrizione:** Il corso è gratuito.
I partecipanti devono frequentare almeno il 70% delle ore complessive previste dal programma.