cianciana esibaRENZO FRANCABANDERA | La macina ideologica del secondo dopoguerra e tanto parlarsi addosso degli anni Settanta ha probabilmente contribuito a distruggere il valore di molte parole, e la parola proletario è fra queste. Le epoche, le mode, sono indissolubilmente legate all’uso di alcuni vocaboli, di una moda, di certe acconciature. Parrà finanche banale, ma guardare una foto di famiglia di Settant’anni fa riconduce subito ad un altro tempo: magari i baffi e i capelli lunghi dello zio in girocollo, o quelli a spazzola della sorella post punk. O le Timberland del cugino.
Solo i poveri assomigliano sempre a se stessi. La terra, la sua bassezza, che costringe l’uomo a piegarsi, a incurvarsi, a tornare animale, è la vera livella dell’umanità. La terra fa sudare, rovina le mani, ha un profumo e un colore inconfondibili, diversa a seconda che sia secca, bagnata, arida, fiorita, coltivata, incolta.
Cianciana, paesino agricolo di una Sicilia ormai spopolata, è il luogo che la compagnia Esiba sceglie per raccontare la sua storia. Il nostro preambolo vale ad ambientarla e a creare anche un presupposto logico rispetto a quello che, probabilmente, è lo scopo ultimo della creazione artistica. Lo spettacolo incomincia con i tre interpreti in canottiera, proletari che raccontano storie di paese, porgendo la dura storia al pubblico dapprima in modalità frontale, fermi, frammentando il racconto l’uno nella voce dell’altro. Poi la sequenza passa a descrivere il tempo del lavoro: siamo nella campagna Siciliana in un periodo intorno al secondo dopo guerra, alla ricerca dei motivi per l’atavica arretratezza di una terra incapace di ribellarsi. E’ qui che questo manipolo di nullatenenti prova a pensare una rivolta per riprendersi la dignità. Tutto monta, cresce, fino alla repressione durissima.
E’ proprio il postulato che lo spettacolo vuole porre in discussione: in Sicilia la protesta c’è stata. I tempi della riforma fondiaria hanno conosciuto sommosse, occupazioni, scioperi affondati nel sangue, schiacciati nella morsa letale stretta fra proprietà latifondista, la nascente criminalità organizzata e quell’intreccio di interessi gattopardeschi che ha prevalso non per l’ignavia di tutti, ma per la tragica sconfitta dei deboli. Placido Rizzotto e Portella della Ginestra sono forse solo i nomi più conosciuti, quelli che la cronaca e la storia “mediatizzata” ci hanno tramandato. Ma tanti altri sono i nomi, le vite spezzate, chiuse come luminosi ombrelli al termine di una pioggia di repressione.
E’ questo che Esiba Teatro racconta allo spettatore, alternando la cadenza tragica a quella comica con un complessivo equilibrio che si regge su un testo valido (drammaturgia di Milena Viscardi, testi Tommaso Di Dio, Milena Viscardi) e su tre interpretazioni all’altezza. Gli attori/registi Angelo Abela, Marco Pisano ed Eugenio Vaccaro sanno essere di volta in volta parola e gesto con grande naturalezza, intreccio narrato ed inflessione di paese; ricamano tutto attorno a parola ed immagine, accogliendo, in una struttura tutto sommato tradizionale di narrazione, alcuni interessanti inserti di physical theatre.
La trama evita di aprire parentesi scontate e gioca a lambire, regalandoci nel seguito dello spettacolo, le storie borderline degli emarginati costretti ad emigrare. La loro vita, le loro storie. L’industrializzazione, che a Cianciana non arriva, spinge gli ultimi fino alle periferie del nord. E’ lì che, numerosi, li ritroviamo ora con famiglia e figli, altri sono emarginati, dediti agli espedienti che sono a mala pena sopravvivenza. Dura da usare la parola proletario. Ma se la condizione è poco più che quella, e la povertà torna a mordere, forse l’impianto di analisi economica che ne aveva giustificato l’avvento sulla scena delle categorie sociali non deve essere poi tanto obsoleto come in questi ultimi anni si è fatto credere. A coloro a cui, anche oggi, a mala pena restano come ricchezza i figli, la cui forza è nelle braccia, a quegli uomini che Pellizza da Volpedo aveva così chiaramente ritratto, a costoro che nome si può dare?
Ora, e parliamo della realtà, non più della scena, ora che la finta ricchezza degli anni Ottanta e Novanta, che il delirante sogno fuori misura di quell’infame ventennio di illusioni sperequate si dissolve facendo tornare con più chiarezza ad affiorare l’affresco in cui i poveri son poveri e i ricchi son ricchi, ora questo spettacolo parla al pubblico senza sembrare retorica. Anzi, forse il più grande merito di questa onesta e ben costruita prova teatrale è proprio il riuscire a toccare argomenti che hanno a che fare con ciò che è più profondamente e semplicemente tradizione, origine, terra di provenienza, senza ammiccare, senza cercare la lacrimuccia, alternando in modo equilibrato i toni per arrivare a comporre un affresco che è di una terra, della sua gente e pian piano di una nazione, costruita per la gran parte più sulla disintegrazione che sull’integrazione.

Un video promo dello spettacolo
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