effetto-larsen-3RENZO FRANCABANDERA | Abbiamo assistito nelle settimane passate allo spettacolo Innerscapes di Effetto Larsen, compagnia milanese diretta da Matteo Lanfranchi che propone progetti di ricerca sui linguaggi performativi, durante la rassegna milanese Danae, che da anni raccoglie con intelligenza e caparbietà interessanti episodi di arte performativa e spettacoli di natura ibrida, che incrociano arti sceniche e altre manifestazioni della creatività.
Lo spettacolo in questione, il cui progetto di 20 minuti ha vinto il premio intitolato a Lia Lapini e assegnato durante Voci di Fonte, si basa su un susseguirsi di sketches ispirati a episodi di piccola emotività sentimentale, la cui cifra rimane volutamente intiepidita attraverso la creazione di ambienti più o meno domestici che, con tecnica di stop motion e sequenza da slide show di catalogo d’architettura d’interni, fanno da sfondo, ma a volte assurgono a dimensione di protagonista, di questa riflessione sul vivere del nostro tempo.
Il vissuto è leggero fino a raccontare episodi invero banali come la caduta di unbicchiere, o un incontro casuale di due persone, per comporsi in un volutamente tragicomico inno alla leggerezza, un concetto che però nella declinazione della compagnia è assai lontano da quello decantato come valore da Calvino.
Quattro gli attori in scena, Beatrice Cevolani, Francesca Di Traglia, Lorenzo Piccolo e Marco Ripoldi due che interpretano personaggi maschili e due che interpretano personaggi femminili, con vicende anticipate da giochi di parole che prendono vita in proscenio con l’utilizzo di lettere d’alfabeto su piccoli tabellini mobili, e composti da Lanfranchi stesso, creando un effetto di ironica didascalia di ciò cui si assiste.
Fra interessanti passaggi di luce e musiche ben descrittive, fermo azioni e slittamenti analogici da una sequenza all’altra, lo spettacolo scorre senza mai segnare un passo, un momento definitivo, in quella liquidità che è proprio del nostro tempo, come ha avuto a dire più d’un pensatore contemporaneo.
La questione che emerge rilevante di questa creazione è che in questa liquidità di pensiero, nessuna delle sequenze assume mai la caratteristica (per noi ancora determinante e fondante dell’atto scenico) della necessità. Tutte le sequenze potrebbero essere spostante all’interno dello “slide show”, alcune finanche espunte, senza che l’impianto generale ne venga a soffrire.
Esiste dunque una robusta area di superfluo che la regia non è riuscita ad eliminare o su cui evidentemente il pensiero creativo non ne ha avvertito la necessità. Ma questo, a nostro avviso, crea uno scollamento fra intenzione ed esito piuttosto divergente.
Ci sono alcuni episodi divertenti, tutto è lieve, nei colori, nei piccoli mobiletti e nella miriade di oggetti che gli attori portano velocemente sul palcoscenico fra un cambio e l’altro e che con velocità impressionante riescono a creare ambienti di vita. Ma, dopo venti minuti, di fatto il gioco resta abbastanza uguale a se stesso, ed ha già detto tutto. A ben vedere anche prima dei venti minuti, forse già dopo dieci. Il problema è che il tutto dura cinquanta minuti, quindi, al netto dei dieci-quindici di declinazione dell’idea base, ne restano quaranta su cui ci sentiamo di poter dire abbastanza poco se non che, in alcuni momenti un po’ più noiosi e scontati, saremmo volentieri usciti a guadagnarci un po’ di sole di primavera.

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Orti insorti
Dopo oltre 200 repliche, Orti insorti di Elena Guerrini può ben dirsi una sorta di manifesto di forma spettacolare che si è fatta via via largo fino a portare ad un piccolo festival estivo nelle campagne del grossetano organizzato dall’attrice e a un vero e proprio movimento d’opinione.
L’idea alla base di tutto, a suo modo rivoluzionaria, è quella alla base del negotium fra artista e spettatore, e che vuole superare la tradizionale dimensione dello sbigliettaggio, per percorrere la via più interessante e originale del baratto.
Per assistere ad Orti insorti lo spettatore non paga infatti un biglietto, ma offre una bottiglia di vino, o d’olio, o una conserva, o un pezzo di formaggio. Perché l’idea alla Guerrini è venuta proprio per iniziare a riflettere su un’altra dimensione possibile di economia dello spettacolo. E questa è un’idea senz’altro meritoria, che finora non aveva avuto nessun interprete così convinto e tenace, tanto da strutturarlo in una forma così definita e strutturata.
Lo spettacolo è stato di recente replicato nella sua forma “deluxe” come la chiama lei (quella con tre persone in scena, ma la Guerrini a volte, nei contesti con più vive ristrettezze economiche, arriva da sola con un filo di lampadine) presso il Paolo Pini di Milano, all’interno di una più ampia e interessante rassegna sull’alimentazione che rientra fra gli eventi preliminari di Expo 2015.
La drammaturgia racconta storie di paese, la semplicità basica della vita di campagna, mentre un’assistente dell’attrice, in secondo piano, prepara un minestrone e un musicista trae da un flauto fatto con un rametto cavo, suoni imprevedibili. E’ un po’ una storia di famiglia, che incrocia le storture del nostro vivere, capace di bruciare molto velocemente merci e valori senza riflettere sul loro valore intrinseco.
Certo dopo 200 repliche non ha molto senso stare a dire cosa va e cosa meno di questo spettacolo. Certamente ha delle parti godibili e una capacità di dialogare in forma semplice con il pubblico che lo rende divertente e leggero.
Ci sono parti più ingenue che potrebbero essere eliminate o abbreviate. Sono quelle dal tono, se non di diretta interpretazione, di storielle da barzelletta. Sono ingenue e dopo un po’ fanno perdere forza al tentativo della Guerrini. Come pure un po’ di luoghi comuni sulla maggior o minor sensibilità ambientale del cittadino settentrionale: facendo mente a quanti scempi edilizi e ambientali sono stati perpetrati in lungo e in largo in Italia, non si può pensare almeno alla corresponsabilità di molti residenti che quegli scempi hanno permesso, autorizzato, legalizzato.
Molti abitanti dei boschi di Brianza potrebbero insegnare tecniche della biodiversità ai residenti in zone “presunte environmental friendly”.
Altre parti, che al contrario raccontano altre vite, altri esperimenti di sostenibilità più contemporanei, andrebbero invece più sviluppate, per giustificarne la prossimità con la prima parte, dal tono più intimista e di famiglia, favorendo così una maggior omogeneità del tessuto narrativo.

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