alynCLAUDIO FACCHINELLI | Non è facile definire il genere (musicale, teatrale, coreutico?) di ciò che si è visto l’11 febbraio scorso nella sala grande del teatro Franco Parenti di Milano. Ma è proprio questa polivalenza che qualifica l’evento.
Si trattava di una serata di beneficenza, a favore di Alyn Hospital di Gerusalemme, un centro di eccellenza per la riabilitazione di bambini e ragazzi disabili, punto di riferimento di tutto il Medio Oriente, e non soltanto. In questi casi, spesso ci si accontenta di qualche nome famoso, meglio se televisivo, che richiami persone di buona volontà, disponibili a passare una serata a teatro per sostenere un’istituzione meritoria, mentre è secondaria la qualità intrinseca di ciò che succede in scena. Ma qui non è stato così.
Illusion Corners – questo il titolo dato all’evento – era, principalmente, un concerto jazz, nel nome di uno dei più estrosi, folli protagonisti della musica nera americana, Thelonious Monk. L’improvvisazione, l’imprevedibilità, la diversità, fornivano quindi la cifra che, con precaria ma lucida consapevolezza governava l’intero progetto, punteggiato da melodie a volte aspre e dissonanti, da ritmi spezzati, che si cercavano e rincorrevano, fra il pianoforte di Enrico Intra e la tromba, il sax, la batteria e il contrabbasso del Meridith4et, integrato dal clarinetto basso di Achille Succi. Ma, fra un pezzo e l’altro, due attori, Sara Donzelli e Alessandro Ferrara, provvedevano, dall’alto di una balconata, a gettare qualche sprazzo di luce sulla personalità di Monk, leggendo brani riferiti alla sua vita – ad uso di un pubblico costituito, per lo più, da non specialisti. Nelle loro parole si ricorrevano i nomi di Charles Mingus, Gregory Corso, Norman Mailer, Allen Ginsberg, compagni di avventure in quella strabiliante e trasgressiva stagione americana che è quella del secondo dopoguerra, della Beat Generation.
Alla creatività artistica di quel periodo faceva riferimento anche Philippe Daverio, testimonial d’eccezione, dichiarandosi non critico d’arte ma studioso di antropologia, sollecitato da una maliziosa Chiara Zerlini, in funzione di presentatrice. Ma proprio l’arte visuale, fin dal risuonare delle prime note, trovava un suo spazio: Renzo Francabandera, qui nel ruolo non di critico teatrale ma di pittore e illustratore, tracciava un contrappunto pittorico, con pennellesse, pastelli, rulli, ma anche a mani nude, su un pannello di due metri per quattro, creando un’opera che si ipotizza di mettere all’asta in una prossima occasione, sempre a beneficio di Alyn Hospital.
piera principeIn questo incrocio di linguaggi espressivi, in un orchestrato disordine, punteggiato dalle incursioni sul palcoscenico di una masnada di folletti (le giovanissime allieve della scuola di danza Arté), si inseriva il gesto asciutto e rigoroso di Piera Principe, danzatrice già distrutta da un incidente e risorta alla danza, in improvvisazioni col contrabbasso di Michele Anelli e col pianoforte – percosso, più che suonato – di Enrico Intra, mentre la voce sensuale di Sara Donzelli restituiva, per immagini e sensazioni, la storia di Piera.
Non so se ho reso l’impasto di emozioni, suggestioni, dipanate secondo un’ardita concordia discors, e l’empatia che dagli artisti sul palcoscenico si propagava nel pubblico. Certo, un evento, ideato da Ivan Bert (coordinatore e tromba del Meridith4et) e messo in scena dal giovane regista Alberto Oliva, che varrebbe la pena di replicare.

Foto di Marco Bignozzi

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