Fin dagli esordi l’Odin Teatret ha creato uno stile ben riconoscibile e ha fatto scuola. Nel corso dei decenni poi, (quasi cinque ormai) lo ha messo a punto fin quasi a cristallizzarlo. Ne La vita cronica gli elementi tipici “odiniani” ci sono tutti: una linea drammaturgica non troppo leggibile, una trama musicale composita e strutturata, gusto barocco nei costumi, attenzione formale. La coerenza del percorso è dovuta in buona parte alla continuità del gruppo, stabile molto più di una famiglia: Roberta Carreri, Jan Farslev, Tage Larsen, Iben Nagel Rasmussen e Julia Varley sono i primissimi membri dell’Odin Teatret. Kai Bredholt è da più di vent’anni parte della compagnia, da quasi dieci Donald Kitt e anche le giovanissime Elena Floris e Sofia Monsalve, per la prima volta in scena con l’Odin, vantano un’annosa conoscenza e frequentazione del gruppo. Non sono mancate le collaborazioni esterne e internazionali nel corso dei decenni, quelli che Eugenio Barba chiama i “baratti culturali”: con numerose compagnie latinoamericane, asiatiche, italiane. Nonostante questo la forza centripeta dell’Odin è sorprendente.
Sempre impegnato sul piano politico, l’Odin Teatret dedica La vita cronica a Anna Politkovskaya e Natalia Estemirova, le scrittrici russe assassinate per aver contestato il conflitto ceceno, e lo ambienta in un contesto lugubre da post guerra civile, in un futuro molto prossimo, il 2031. A condividere questo luogo inospitale e la scena una Madonna nera, la vedova di un combattente basco, una rifugiata cecena, una casalinga rumena, un avvocato danese, un musicista delle isole Faroe, un ragazzo colombiano, una violinista italiana e due mercenari. Almeno così informa il foglio di sala. Durante lo spettacolo, in realtà, i personaggi rimangono inafferrabili, come pure l’ambientazione e le vicende. La densità dei rimandi e delle riflessioni sconfina nell’incomprensibile.
Eppure intorno alla drammaturgia gravitano tanti nomi. Di Ursula Andkjær Olsen e dell’Odin Teatret tutto sono i testi. Ci sono poi un drammaturg (Thomas Bredsdorff) e un consulente letterario (Nando Taviani). Le drammaturgia, infine, insieme alla regia, la firma Eugenio Barba. Il rapporto tra evento scenico e scrittura, (tra libro e teatro, direbbe forse Taviani) è come sempre in Barba di stretta dipendenza. Tutto il suo percorso artistico ha proceduto lungo questi due binari: da una parte ci sono libri come La canoa di carta in cui si specchia l’esperienza di teatro antropologico. Dall’altra ci sono i libri dei suoi esegeti da Nando Taviani a Nicola Savarese. Un’impalcatura teorica a sostegno di una pratica teatrale. Così La vita cronica spettacolo è accompagnata da La vita cronica in forma di libro: raccolta di racconti in cui gli attori descrivo ognuno dal suo personale punto di vista il processo dello spettacolo e la genesi dei personaggi. Paradossalmente, se sul palco vediamo solo delle presenze, personaggi dai contorni sfocati e dalle vicende faticosamente intuibili, nei racconti prendono corpo. Meglio che nella scena si confondono con gli attori e ci comunicano la loro storia. Se Eugenio Barba rifugge un teatro “chiaro” non vuole però negarsi alla narrazione. Ed ecco, in appendice, a complemento del teatro, un libro, a cui si concede ciò che si è negato alla scena.
Ne La vita cronica l’evocazione vince sul racconto eppure il varco attraverso cui dovrebbero passare le emozioni è troppo stretto. Il dramma fatica a manifestarsi.
Gli attori, pur molto preparati, hanno un che di nostalgico. O forse è lo spettatore che conosce la storia dell’Odin, quella di una compagnia che ha fatto della qualità del movimento il suo punto di forza, a provare nostalgia per quel gruppo di attori che sembrava aver sconfitto ogni resistenza fisica, ogni opacità del corpo all’unità pensiero-azione. L’energia e la baldanza si sono perse per strada, come è normale quando sfiorisce l’età dell’oro dei corpi. Ma nessun cambio di rotta è venuto a correggere le vessazioni del tempo. E se si può considerare la resistenza un valore sul piano storico, La vita cronica, lo spettacolo, in quanto prodotto fruibile nel qui e ora, ne risente.
Per questo, probabilmente, Barba riempie a piene mani la scena di musiche e costumi. Le musiche, belle, eseguite da voci altrettanto belle, sono troppo presenti: come sempre, rigorosamente dal vivo, commistione di rock, pop e canti tradizionali. Pochissimi i silenzi. Bruschi i passaggi da un genere all’altro, per suscitare una reazione meccanica, priva di profondità. E anche i costumi, nel loro tripudio di colori e svolazzi non fanno altro che accentuare per contrasto l’assenza di dinamismo della scena. E La vita cronica risulta uno spettacolo in disequilibrio.
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