officinegaetanobrunofotoLAURA NOVELLI | Mercoledì 11 giugno. La terza serata di OFFicine Festival si svolge all’Argot. La piccola sala trasteverina è gremita di gente; c’è chi spera di entrare confidando nella lista di attesa; c’è chi suggerisce di aggiungere qualche sedia; c’è chi resta in piedi. Molti ovviamente gli addetti ai lavori, ma è pur vero che in occasioni del genere non c’è da stupirsene. Stavolta, a fare da padrone di casa, ci pensa Tiziano Panici: qualche parola introduttiva, qualche spiegazione sullo svolgimento dei quattro studi previsti in scaletta (molto diversi l’uno dall’altro e nel complesso più interessanti rispetto a quelli del 9), un doveroso saluto alla giuria popolare attinta a “La Casa dello Spettatore” coordinata da Giorgio Testa. C’è aria di festa. Di vivace curiosità.

Si inizia con “La Moda e la Morte” della compagnia milanese Animanera, primo abbozzo di un lavoro ispirato al “Dialogo tra la Moda e la Morte” di Leopardi su testo di Magdalena Barile (studi alla Paolo Grassi e importanti collaborazioni con diverse realtà) e regia di Aldo Cassano. Due donne vestite di nero (una delle interpreti è Benedetta Cesqui che ricordiamo in “Tumore” di Lucia Calamaro) siedono ai lati di un tavolo come fossero Moire intente a prendersi gioco degli Umani. Ma siamo solo all’inizio di un viaggio nella Storia e nella (in)civiltà occidentale contemporanea che innesca un doppio binario linguistico: da un lato, una scrittura molto alta, simbolica, colta, per certi versi affine ad un Morality play di stampo medievale; dall’altro, la presenza viva di una donna “diversa” e fragile (Barbara Apuzzo) che, chiamata a personificare proprio la Storia dandole la vis ribelle di una bambina impavida e capricciosa, riconduce il lavoro a quell’impegno nel sociale che Animanera porta avanti da sempre. E dunque si avverte, in questo breve studio, la trama di un disegno progettuale che ha chiari i confini e gli obiettivi entro cui intende muoversi, sebbene certe atmosfere dark, certi simbolismi portati all’estremo non giovino all’insieme e, anzi, ne affievoliscano l’energia.

L’energia invece non manca al secondo studio della serata, il migliore secondo me: “Io, mia moglie e il miracolo” di Gianni Vastarella, anche regista e interprete insieme con Christian Giroso, Valeria Pollice e Sefora Russo. Premessa necessaria: questo lavoro nasce all’interno di Punta Corsara, e cioè di una compagnia di giovani che, diretta da Emanuele Valenti e Marina Dammacco (a loro volta “eredi” di Marco Martinelli e Debora Pietrobono), ha preso vita grazie al laboratorio di formazione permanente attivato a Scampia con la felice (ed encomiabile) esperienza di Arrevuoto (oggi trasformata in Arrevuoto Teatro e Pedagogia). In seno al gruppo, vincitore del Premio speciale Ubu 2010 (e vale la pena riportare uno stralcio della motivazione: la scena dei ragazzi di Scampia alla riprova di un teatro di apprendimento vissuto assieme alle persone di un territorio difficile, che hanno potuto trovare nelle forme dell’esperienza artistica occasioni di vita ulteriore e strumenti di restauro morale […]), Vastarella vanta già la scrittura di precedenti testi e senza dubbio possiede, pur con delle ingenuità presumibilmente “generazionali”, un piglio drammaturgico originale e senso del ritmo. Qui fotografa in modo grottesco e surreale un matrimonio in crisi e, ancor meglio, un uomo e una donna (silenziosa, cauta nei gesti e negli scarti espressivi, volutamente robotizzata dalla brava Valeria Pollice) che non nascondono certi lineamenti un po’ televisivi e cartoonistici (penso soprattutto ai Simpson) ma che, nel contempo, si impongono come personaggi molto teatrali. E il meccanismo farsesco, a tratti “cirilliano”, funziona perché lontano dal naturalismo e perché – come preannuncia il titolo – sorretto dall’ambiguità di una figura soprannaturale che scompagina il quotidiano.

“Vieni più vicino” di e con Gaetano Bruno (noto attore siciliano di collaudata esperienza teatrale e cinematografica) mi ha invece lasciata perplessa. C’è un Lui che vive in un vaso. E’ una pianta (?) in giacca e cravatta e non vediamo il volto dell’attore perché coperto da una maschera a foggia di chioma cespugliosa. E poi c’è una Lei, una danzatrice molto leggiadra, che da bruco chiuso dentro un telo bianco diventa poeticamente farfalla. Un incontro quasi impossibile. Un gioco di avvicinamenti e allontanamenti. Un’alternanza di silenzi e parole. Fino all’abbraccio finale. Francamente mi sfugge il senso di un lavoro che, più lungo di così, non capisco dove potrebbe o dovrebbe arrivare.

Stesso discorso per lo studio “Actarus”, ispirato al romanzo omonimo di Claudio Morici, proposto dalla compagnia toscana Bàrbaros su regia di Giacomo Bisordi: tra birra, tv e divano si consuma la crisi di mezza età del celebre pilota di Goldrake (Fausto Cabra), mentre una sua appassionata fan (Camilla Semino Favro) ne segue il meschino declino fiduciosa in una necessaria riscossa ai danni di Vega. A dire il vero, mi è parso un lavoro molto acerbo, ingenuo, ripetitivo. Ho fatto insomma difficoltà ad intravedere una forma di ŏpus in fondo a questa fase di opificīna.

Che altro dire? Mentre scrivo queste righe, non conosco l’esito della kermesse e dunque non so quale compagnia abbia vinto. Ma credo che una riflessione generale si possa fare a prescindere. Certamente ben vengano operazioni di questo tipo, soprattutto in quanto danno visibilità a gruppi che altrimenti troverebbero difficile farsi conoscere. Ma c’è un “ma”. Perché, se da una parte, il vuoto istituzionale rispetto alle realtà indipendenti del nostro teatro è spaventoso, dall’altro, bisogna pur chiedersi se questa scena OFF giovanile non sia troppo affollata di artisti con le idee poco chiare. E’ vero: sono tempi duri, non ci sono soldi, si fatica da matti. “Ma”, a mio modestissimo avviso, anche la creatività, la formazione, la profondità di analisi, la capacità di (re)invenzione drammaturgi, la sintonia con pubblici reali e diversi non se la passano poi granché bene.