GIULIA MURONI| “Io mi chiamo Legione, perché siamo in molti”: il famoso versetto biblico, è una frase proferita dallo spirito demoniaco Legione attraverso il posseduto di Gerasa, abitato da un gruppo, una schiera, una moltitudine di spiriti demoniaci.

Si addice all’immagine d’esordio de “I giganti della montagna” di Roberto Latini: su una scena avvolta nel buio l’attore, solo, innesca una polifonia di voci. È una moltitudine.

Abbiamo visto “I giganti della montagna” della compagnia Fortebraccio Teatro, ad Avigliana (TO), ultimo appuntamento del cartellone ideato dalla Piccola Compagnia della Magnolia.

Roberto Latini si immerge nell’ultimo dramma pirandelliano “I giganti della montagna”. Il testo originale, attraverso una intricata costruzione mitica, mette a confronto un repertorio di immagini arcaiche con un’inquieta interrogazione sulla condizione dell’arte nella società moderna. La vicenda di riferimento è quella di una scalcagnata compagnia teatrale di giro, guidata dalla contessa Ilse che, decisa a portare in scena “La favola del figlio cambiato” e respinta da tutti i teatri, si rifugia in una villa apparentemente abbandonata. In essa, la “Scalogna”, abitano il mago Cotrone e gli Scalognati, creature dalla natura ibrida, latrici di verità profonde sul senso della vita. Il dramma in questione ha per la contessa un valore speciale, testamentario, essendole stato dedicato da un giovane poeta che, innamorato di lei e respinto, si toglie la vita. Ilse mostrerà in conclusione l’opera al pubblico dei “Giganti”, coloro che hanno completamente abdicato alle ragioni dell’interiorità e dello spirito per correlare la loro esistenza solo ad una dimensione gretta e materiale. Il dramma si conclude con l’arrivo dei giganti al galoppo e con le parole di Diamante, una dei teatranti: “ho paura…” .

10990020_775454295871623_4314367930263025397_nLatini dichiara di approfittare dell’indeterminatezza di questa vicenda, astratta nei suoi dati di luogo e tempo, e di godere della natura incompleta dell’opera, condizione data come ontologica in letteratura e teatro. Propone un lavoro metafisico che, in un trascolorarsi di scena in scena, aziona un flusso continuo di visioni oniriche in cui la luce, a cura di Max Mugnai, è elemento di rilievo.

La scena, soggetta a cambiamenti importanti, si apre con Latini seduto su una sedia, attorniato da tre microfoni. Quando la luce, dapprima circonfusa su di lui, si espande, svela un campo dorato di spighe. L’atmosfera rarefatta, oppressa da un manto tenebroso, si apre allo stagliarsi della sagoma dell’attore.

Il fascio luminoso invade il suo corpo nudo, mentre altrove lo lambisce. La luce spazia in una gamma fantasmagorica di colori e intensità.

Nella seconda parte c’è un momento piuttosto lungo, piuttosto intenso, in cui la scena è disabitata e  rimbomba un ritmo elettronico, incalzante. La luce è fredda, brillante e dalle quinte sgorgano rigurgiti di fumo. Fumo che copre il suolo, forma un tappeto, esonda dal palco, invade la platea. Quindi si acquieta, si restringe, scompare.

Verso la fine è elemento di spicco un alto trampolino rasente la graticcia, sul quale Latini si abbarbica.

La partitura sonora indisciplinata e intrigante, ad opera di Gianluca Misiti, costituisce un ulteriore tassello fondante di questo spettacolo ricchissimo. La voce di Latini viene infatti amplificata, riprodotta, distorta e moltiplicata; giunge ad una schizofrenica pervasività. Il dispiegarsi del suo timbro tocca inclinazioni e distorsioni mutevoli, cangianti.

La poetica di Latini rivela una continuità nell’approccio sperimentale e rigoroso ai testi della tradizione letteraria, nell’audacia di una messa in scena sofisticata che azzarda nel suo dipanare procedimenti scenici e letture non banali, mai ammiccanti o accondiscendenti. Questo riesce però a non tradursi nel compiacimento di un’astrattezza autoriferita, perché i livelli di analisi cui si presta sono molteplici e non manca quello più immediato: la potenza emotiva.

La forza delle immagini generate scatena un effetto lisergico potente. Spettacolo prezioso, regala un’esperienza sensoriale e emotiva. Latini si avviluppa in un rapporto materico con il testo: ne assapora con bramosia alcune parti e, nel mentre, trita, stravolge e ribalta altre. Da questo scontro esplosivo con “I giganti della montagna” affiora un esito meraviglioso, sulla vita e sull’arte, la realtà e la finzione, la verità e la parvenza, calato in un ambiente alchemico, in continuo movimento.

 

Abbiamo fatto qualche domanda a Roberto Latini su questo lavoro: