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MARTINA VULLO | Si apre il sipario e al centro della scena, una donna in vestitino beige e cappotto rosso grida ripetutamente aiuto. Non è pazza, dice. Poi si muove nello spazio e cerca la fonte di un suono immaginario: una radio trasmette la diretta di una corsa di cavalli. Pure il pubblico ora può sentirla. La cronaca di un certo Robert Krohn narra il delirio e il crollo di una bestia che si rivelerà dopata. Non dissimile sarà la fine della protagonista, che con i propri lamenti gli fa da contrappunto.

Questo è l’esordio di Veronika in una scena quasi spoglia. Pochi elementi scenici (un telo di pelliccia bianca alla parete frontale, una fila di sedie ai lati della donna e il binario di un carrello con macchina da presa) svelano subito il contesto di riferimento.

Ti regalo la mia morte, Veronika, messo in scena la settimana scorsa all’Arena del sole, con la regia di Latella, si ispira al film di Frassbinder Veronika Voss (l’acronimo si riferisce a Sybile Smiths: attrice tedesca di cui si rappresenta il tragico epilogo).

La carriera di Veronika è in declino. Lei è sola, insoddisfatta e soprattutto, suo malgrado, morfinomane. Sulle spalle non una, ma sei scimmie bianche che, sedute in differenti posizioni, la dirigono. Sembra che facciano uno strano rap mentre scandiscono il tempo e la vita della loro vittima: cadenzano ogni frase, intonano canzoni (che usano per sottofondo in alternanza al silenzio o al battito cardiaco fuori campo). Evidenziano ogni punto, ogni virgola, ogni sospensione.

Sono registe, scenografe, suggeritrici e persino attrici del film sulla sua vita: hanno annunciato i titoli delle scene, descritto gli ambienti e suggerito le battute e ora si spogliano delle pellicce bianche per incarnare diversi personaggi.

La storia si sussegue in un’indagine che il giornalista Krohn – interessandosi all’attrice – svolge sull’operato della clinica in cui lei è come reclusa. Da qui si scopre che a fini di guadagno, la dottoressa Katz somministra morfina ai suoi clienti, inducendoli al suicidio, se non possono più pagare.

La vicenda è narrata per frammenti. Sono gli stessi personaggi a raccontarsi, facendo capolino dagli abiti scimmieschi, per mostrarsi in una semi-nudità data da calzamaglie ed accessori intimi. Il loro esporsi però resta per lo più esteriore: non dicono di se’ quasi nulla che vada oltre l’esposizione del proprio ruolo. Sono delle caratterizzazioni di persecutori e perseguitati. Fanno eccezione attrice e giornalista (in vestiti casual) non definibili del tutto come vittime o carnefici, perché sono entrambe le cose ed allo stesso tempo. Ma anche loro sono scarsamente approfonditi, in una superficialità che da fastidio.

I personaggi parlano di se’ in vario modo: l’ex deportato, che precederà Veronika nell’astinenza e nella morte, canta il Gam Gam ebreo e questo basta per esprimere la sua sofferenza. Henriette, donna di Robert che morirà omicida per aiutare l’uomo nelle indagini, intona Each man kills the thing he loves di Jean Moreau (il cui testo è tratto, forse non a caso da un altro film – Querelle – di Frassbinder). I personaggi della neurologa e dell’assistente, ricorrono spesso a parole del lessico tedesco, che pronunciate con tono aspro, precedono la loro traduzione in italiano. Alcune scene rendono il senso della dipendenza a cui la psichiatra assoggetta i suoi clienti: si pensi ai baci strappati alla cliente o alla scena di quest’ultima gettata a terra e legata alla sua gamba.

Svariati gli intarsi visivi che sostengono la drammaturgia: il telo bianco in fondo, funge spesso da parete su cui vengono proiettati ora il ritratto di Veronika con firma, ora quello dell’ebreo, ora il numero tatuatogli al campo di concentramento. Durante lo svolgersi della prima scena, qualcuno monta degli apparati frontali al telo: anche queste costruzioni astratte, prima di essere smontate, sono proiettate sullo “schermo”.

Interessante la macchina da presa, che si muove sul carrello proiettando sequenze di abbaglianti colori, sul pubblico, alle pareti o sugli attori. Decisamente psichedelica, con l’intensità delle luci e la loro alternanza al buio, la cacciata di Veronika dal set.

Non mancano altri espedienti finalizzati a focalizzare  l’attenzione, come l’esordio del giornalista dallo spazio della platea o la scena finale che si svolge in una sorta di al di là che ricorda una Colazione sull’erba dai colori vivi. Al centro della scena un albero e vicino un maggiordomo. Sopra l’erba con Veronika ormai morta, la madre che l’ha preceduta e delle amiche: altre protagoniste dei film di Frassbinder.

“La storia è ciclica” dice qualcuno rivolgendosi all’attrice “hai perso i soldi, poi la casa e infine ti sei suicidata.. potrebbe essere una piece di Checov”

Su questa suggestione penso al ruolo importante del silenzio nelle opere di Checov e al suo stimolare la fantasia del pubblico giocando di tagli e sottrazione. Mi chiedo se la donna di cui abbiamo osservato la storia, ci avrebbe commosso di più, se avesse fatto un po’ di meno. Ma in fondo anche se poteva essere una piece di Checov, è una piece di Latella che ancora una volta, a quasi dieci anni di distanza da Le lacrime amare di Petra Von Kant, vuole rendere omaggio al cinema di Frassbinder: probabilmente l’unico vero soggetto della rappresentazione.

Epilogo: manca qualcuno dentro il quadro onirico. Robert Krohn sale ancora una volta sul palco. Ha con se’ una rivoltella, ma nel giardino non è ammesso suicidarsi. Al maggiordomo si affida allora l’ultima azione. È lui che punta la pistola sul giornalista. Spara. E come dicevano le scimmie: “punto”.