improionescoBENEDETTA BARTOLINI | Dal 13 al 18 settembre è andata in scena la IV edizione dell’Improteatro festival, la manifestazione diretta da Giorgio Rosa dedicata all’improvvisazione teatrale. Dopo il crescente successo riscosso nelle precedenti edizioni, quest’anno il festival della scena improvvisata, presentato dall’Associazione nazionale Improteatro e organizzata da Coffee Brecht, ha dato vita a sei giornate di spettacoli inediti e laboratori rivolti allo scambio con l’estero e alla didattica. Le novità, come illustrato da Rosa in conferenza stampa, quest’anno, sono state notevoli, a partire dalla location che ha trovato spazio in uno dei teatri più antichi ed importanti di Napoli. Sul palco del Teatro Nuovo, infatti, sono stati rappresentati spettacoli quasi tutti inediti e costruiti su 6 format differenti, frutto della collaborazione didattica di formatori stranieri ed italiani.

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Tra gli inediti dell’Improteatro Festival, anche un format inedito ispirato alla drammaturgia di Eugene Ionesco, una delle maggiori figure del teatro dell’assurdo, con cui Annalisa Arione, Daniela Lusso, Gianluca Budini, Mariadele Attanasio, Michela Baccolini e Tiziano Storti, formati e diretti da Matthieu Loos, hanno dovuto confrontarsi. Improvvisare questo tipo di teatro, che già di per sé presuppone dei testi di difficile ricezione per la loro struttura che rifiuta le normali regole logico linguistiche, è apparso fin da subito come una sfida di una portata tutt’altro che indifferente. Fossilizzarsi sui testi di Ionesco, dunque, non era lo scopo principale dello studio che ha preceduto quest’improvvisazione, come ha sottolineato lo stesso regista nel piccolo incontro pre-spettacolo, quanto piuttosto era importante individuarne i temi principali per riformularne i codici e ridonargli senso sul palco.m77a1882

L’improvvisazione parte fin da subito da uno spunto che non è programmato né scritto, ma appunto improvviso, colto da un suggerimento del pubblico. Anche in questo troviamo un’affinità tra l’improvvisazione e l’assurdo, nel loro rompere gli schemi. E in fondo è questo il compito principale di tutto il teatro. Gli attori si rivolgono al pubblico in sala per presentarsi e per chiedere di partecipare allo spettacolo raccontando un sogno. Ciò abbatte da subito la quarta parete e crea condizioni adatte a cogliere la scena improvvisata, che per sua natura è particolarmente comica e sorprendente. La certezza del teatro è l’unicità del suo farsi nell’attimo in cui prende vita e, in questo caso, unica rimarrà la storia imprevista e improvvisata che si sviluppa sul palco. Per la prima e ultima volta, il 15 settembre ci troviamo nella casa di una famiglia di cui non conosciamo il nome, anzi, i cui membri stessi ignorano le reciproche identità. «Ma come si chiama mia sorella?» domanderà più volte il figlio senza mai ricevere risposta e avendo egli stesso delle “crisi d’identità” che lo porteranno ad essere «Pamela la centralinista, Paola la parrucchiera…» e così via, quando si descriverà agli altri nel tentativo di auto definirsi. La mancanza e continua ricerca di un’identità personale, l’incomunicabilità e la presenza costante della morte, sono elementi principali dell’assurdo che in questo caso vengono problematizzati e messi in luce dalla figura del figlio che per questo risulta il protagonista dello spettacolo. Tutti ruotano intorno a lui, dai familiari alla domestica, dal dottore alla didascalia personificata: essi organizzano il da farsi sulla base della loro decisione dell’imminente “morte per solitudine” del ragazzo, a cui egli invano s’oppone. Tra reciproche incomprensioni e dialoghi surreali, tutti si mettono d’accordo in qualche modo su come vivere quel momento, tranne il figlio che nell’irrazionalità della situazione cerca qualche ragione che lo salvi. La sua morte però viene incalzata minuto dopo minuto e la sua resa comincia nel momento in cui, non sapendo più chi fosse, si sente in qualche modo già morto. La sua solitudine è già in atto, non quella fisica, ma quella interiore creata dall’impossibilità di trovare un senso alla propria vita. Alla fine il ragazzo rimarrà sotterrato dagli scatoloni del trasloco, solo, arreso, nel silenzio, mentre la didascalia umana, uscendo di scena, ci annuncia la fine dello spettacolo.m77a1859

Il rischio di questo spettacolo era la possibilità di cadere in un assurdità mal costruita che non riuscisse ad esprimere il reale disagio dell’uomo. Ricostruire un linguaggio decostruito improvvisandolo sulla scena, sembra quasi un assurdo dell’assurdo. Ma la sensazione che ne è risultata alla fine, invece, è proprio quella di un’inquietudine profonda, accentuata dalla forte comicità che ha attraversato tutto lo spettacolo. L’assurdo improvvisato è stato, in questo caso, una sfida vincente. Gli improvvisatori sono riusciti nell’impresa di restituire uno Ionesco inedito senza riscriverlo, ma rivivendolo spontaneamente, dandone sfumature nuove, ma mettendo in risalto al contempo le tematiche fondamentali della drammaturgia del francese. Ciò che impressiona di questa tipologia di spettacoli è la capacità degli attori di coordinarsi e intendersi al momento, elementi che fanno percepire il grande lavoro che ne precede la messa in scena non solo da un punto di vista filologico, ma soprattutto psicologico. Così, anche il sovrapporsi involontario di alcune parole e una caduta imprevista, risultano perfettamente centrati nella verosimiglianza della scena spontaneamente creata.

 

In scena Annalisa Arione, Maria Adele Attanasio, Michela Baccolini, Gianluca Budini, Daniela Lusso, Tiziano Storti
musiche dal vivo Marco Biondi

regia Matthieu Loos

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