unspecifiedMARTINA VULLO | 13 Ottobre 2016: all’età di 90 anni muore il Nobel per la letteratura Dario Fo nello stesso giorno in cui il celebre premio viene consegnato al cantautore Bob Dylan: evento emblematico di un nuovo paradigma oltre che causa di un’accesa querelle sulla pertinenza dell’assegnazione. Nella stessa giornata di commemorazione e dibattito, ai Teatri di Vita di Bologna, dopo una dedica rivolta all’attore scomparso, va in scena lo spettacolo inaugurale della stagione. Si tratta di uno dei primi titoli sul cartellone del festival Vie e si ispira a una famosa pièce di un ulteriore premio Nobel.. o quasi: l’autore in questione è infatti Jean-Paul Sartre  che nel 1964 rifiutava l’importante riconoscimento per salvaguardare la propria opera dall’istituzionalizzazione. La pièce ispiratrice dello spettacolo in scena è invece A porte chiuse, del 1944, che nella riproposizione di Andrea Adriatico, drammaturgo insieme a Stefano Casi, porta il sottotitolo Dentro l’anima che cuoce.

L’Inferno sartriano in stile secondo impero è qui reso visivamente da una stanza di pochi metri quadri, rialzata a centro palco, con parquet a terra e pareti bianche attorno. Niente specchi, né finestre. Solo uno pseudo grande letto con lenzuolo nero al centro, una statuetta in bronzo di Atlante e un valletto/angelo nero con fisico scolpito, voce falsata dal microfono, boxer lucenti e ali piumate. Tutto ha origine con una dissolvenza dal buio sulle note de Il mio canto libero di Battisti che accompagnerà, in diversi momenti, l’esordio dei tre protagonisti lanciati dall’alto. Hanno con sé cuscini dai colori rosso, bianco e verde e non potrebbero essere più diversi fra loro: quest’Inferno, curiosamente in sintonia con l’Italia di oggi, opera infatti un’economia del personale: Giuseppe Gabbianò (pubblicitario in vestito), Diana Tricase (traduttrice in Egitto con tunica nera e burka) e Monica Casa (capelli ramati e abito succinto) sono condannati a dannarsi a vicenda. Portatori di storie, visioni e atteggiamenti inconciliabili mal sopportano la convivenza e lo sguardo giudicante dell’altro in grado di farsi “folla”. Il dramma personale si mescola al sociale in una continua escalation di esasperazione: c’è chi soffre la mancanza della propria immagine perché deve vedersi per sentirsi esistere e chi si duole della condivisione perché ha bisogno di raccoglimento. Ci si provoca e ci si molesta, ci si racconta con sempre maggiore onestà. Ciò che esce fuori da questo canto libero è il ritratto delle piaghe che affliggono individuo, nazione, mondo.

Giuseppe in preda agli antidepressivi ha ucciso la moglie per poi togliersi la vita, Monica (Casa!) è un’usuraia e Diana è stata vittima di un femminicidio. Non mancano riferimenti a specifici episodi di attualità così, mentre una delle protagoniste assiste al proprio funerale, riconosciamo proiettate ai muri le immagini mediatizzate dell’assurdo funerale di Casamonica e vediamo poi, sul letto innalzatosi, la proiezione della foto di Regeni – dopo aver sentito Diana parlare dell’amante Giulio ucciso – con in sottofondo le parole della madre del ragazzo che racconta del volto sfigurato e irriconoscibile del figlio. Sembra di essere di fronte a una proposta che vuole aggiungere alla pièce originaria degli apporti riguardanti il sociale, ma se può suonare come un luogo comune dire che la realtà a volte supera ampiamente il teatro, il meccanismo dello spettacolo non è stato in questo caso in grado di sostenere la potenza delle parole gravi e accorate di una madre. 14589719_10154556600594618_1734605969752557378_oLa spettacolarizzazione non ha aggiunto molto alle riflessioni che a suo tempo sono state stimolate dai servizi dei telegiornali. Quella che ho visto è stata piuttosto una riscrittura del dramma in chiave moderna con una conclusione interessante in cui c’è un mutamento di paradigma: non più “l’inferno sono gli altri” sartriano, ma “l’inferno siamo noi e ce lo portiamo dentro”, come dice Diana, mentre sullo sfondo di un’antica musica ruotano proiettate le porte fotografate degli spettatori per il contest che ha preceduto lo spettacolo.

A porte chiuse
Dentro l’anima che cuoce

Uno spettacolo di Andrea Adriatico
ispirato a Jean-Paul Sartre

drammaturgia di Andrea Adriatico e Stefano Casi
con Gianluca Enria, Teresa Ludovico, Francesca Mazza
e con Leonardo Bianconi

con l’amichevole partecipazione di Angela Malfitano e Leonardo Venturacura Daniela Cotti, Alberto Sarti, Saverio Peschechera e Giulia Generali, Laura Grazioli
scene e costumi Andrea Barberini
tecnica Salvatore Pulpito
con il supporto tecnico di I fiori di Marisa, Lady Rose

una produzione Teatri di Vita, Akròama T.L.S.
con la collaborazione di Teatri di Bari

con il sostegno di Comune di Bologna – Settore Cultura, Regione Emilia-Romagna – Servizio Cultura, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo

Visto il 13/10/2016 ai Teatri di Vita di Bologna