BRUNO MILONE | Pasolini non voleva intrattenere il pubblico, né costruire spettacolo d’autore fine a sé stesso, voleva interagire con il pubblico, costringerlo a discutere e scuoterlo non solo a livello della coscienza.
Credeva per questo in un “teatro di parola” il cui prototipo era convinto di aver trovato nei Dialoghi di Platone, che costituiscono il modello neanche troppo nascosto delle sue tragedie degli anni Sessanta e nei quali si fa un abbondante uso di “miti” e “maschere” in funzione drammatica. Quindi un pubblico che a teatro doveva essere spinto a “prendere posizione” sui temi fondamentali dell’epoca.

La verbosità del teatro di Pasolini, che molti oggi gli rimproverano, nasce da questo progetto di un teatro nuovo per un pubblico informato, “pari all’autore del testo”, mentre il pubblico contemporaneo non solo spesso non sa nulla di quello che vede, ma è anche lontano dal mondo degli anni Sessanta e fa fatica a capire i riferimenti. Ma si può risolvere il problema semplificando il testo, togliendo nessi molto precisi ed aggiungendone altri fuorvianti?Ad esempio, nella recente trasposizione che Valerio Binasco ha portato in scena di Porcile si cambia un elemento solo apparentemente secondario, la musica: invece non è un caso che Klotz in Pasolini suoni l’arpa e ascolti musica barocca (nel film composta da Benedetto Ghiglia) e non una insulsa musichetta, dato che si parla delle contraddizioni e della crisi della tradizione umanista (una cultura che esalta Bach ma poi produce Auschwitz); Binasco vi aggiunge una maglietta di Che Guevara, che veniva ucciso proprio nel 1967, il 9 ottobre, cioè dopo la redazione del testo di Porcile, ma è dopo la sua morte che è costruito il mito del rivoluzionario e messa in circolazione l’immagine che oggi troviamo riprodotta ovunque. Invece in questo allestimento d’oggi la ragazza torna da una manifestazione a Berlino con la sua bella maglietta del Che, come se tutto fosse già successo.

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Infine, Binasco taglia un’intera sezione (quella del dialogo con Spinoza) come se fosse superflua. Come se fosse inutile il confronto tra il misticismo di Julian e l’ateismo razionalista di Spinoza ai fini della tragedia che si sta consumando sulla scena. Certo, nel passaggio dal dramma al film, anche Pasolini taglia quella scena, ma nel film aggiunge tutta un’altra sezione, quella del giovane cannibale, che contestualizza il dramma di Julian in una dimensione metastorica (e non è detto che sia stata una scelta felice).
Veniamo però al fraintendimento più macroscopico. Il tema della continuità tra la borghesia tedesca e il nazismo, come quello della continuità dello stato italiano e dei suoi apparati con il fascismo: era un tema molto sentito negli anni in cui Pasolini scriveva Porcile. Anche i rilevanti romanzi di Heinrich Böll di quegli anni affrontavano lo stesso argomento. Nel 1959 lo scrittore tedesco aveva pubblicato tra l’altro Biliardo alle nove e mezzo che proprio di quello trattava e poneva il problema dell’uso o meno della violenza per rompere tale continuità. Infatti alla fine degli anni Sessanta le manifestazioni per la pace e contro la guerra in Vietnam si andavano radicalizzando. È partendo dall’asserita continuità della Germania di Adenauer con il Reich di Hitler e dalla giustificazione dell’uso violenza nelle manifestazioni degli anni 67/68 (ancor più dopo l’assassinio di Benno Ohnesorg) che verrà fondata nei primi anni Settanta e trarrà la sua legittimazione nell’opinione pubblica di sinistra la RAF-Rote Armee Fraktion. Di questo vuole parlare Pasolini con il suo pubblico, dove il rifiuto dello scrittore del progressismo di sinistra in tutte le sue forme, anche in quelle più estremiste, è radicato in una concezione cupa e pessimista della vicenda umana.

Per lui il nazismo e il fascismo non erano eventi storicamente determinati, ma rivelavano un modo di essere dell’umanità, radicati nella dimensione antropologica più che storica. In questa luce va anche visto il dramma della famiglia di Julian. Secondo Pasolini, la borghesia non era solo una particolare classe sociale ma una sorta di condizione patologica dell’umano.

L’operazione condotta da Binasco su Porcile non mostra solo una sostanziale incomprensione del testo, ma diventa anche una parodia del lavoro di Pasolini, con effetti di comicità non sempre volontaria che portano il pubblico a sottovalutare la portata tragica dell’opera.
Eliminare tutta la dimensione politico-ideologica e dialettica di Porcile e ridurlo a dramma familiare va al di là di una reinterpretazione, è un modo di aggirare le difficoltà e le oscurità della controversa opera pasoliniana che andrebbe al contrario destrutturata e forse anche criticata. Sembra invece che Binasco abbia voluto addomesticare il testo per renderlo fruibile da un pubblico contemporaneo. Chi non vuole confrontarsi con il cupo pessimismo di Pasolini e con un teatro che non voleva essere “consumabile”, ma legge Porcile come una “bellissima favola priva di dramma” non fa un buon servizio né a Pasolini, né al “pubblico autenticamente popolare” che vuole portare a teatro.

PORCILE 

di Pier Paolo Pasolini

regia Valerio Binasco

scene Lorenzo Banci

costumi Sandra Cardini

musiche Arturo Annecchino

luci Roberto Innocenti

personaggi e interpreti:

Padre Mauro Malinverno

Madre Valentina Banci

Julian Francesco Borchi

Ida Elisa Cecilia Langone

Hans-Guenther Franco Ravera

Herdhitze Fulvio Cauteruccio

Maracchione Fabio Mascagni

Servitore di casa Pietro d’Elia