IMG_5165.jpegRENZO FRANCABANDERA E MICHELA MASTROIANNI | Voce femminile: Ricordate Baruch Spinoza? Lo si studia in genere tra Cartesio e Leibniz; è un ebreo espulso dalla sua sinagoga a causa di idee troppo vicine al cristianesimo, ma guardato con diffidenza dal mondo cattolico e protestante, per la sua idea di un Dio immanente, presente in ogni cosa  e non alterità trascendente rispetto alle sue creature. Se l’analfabetismo di ritorno ha cancellato il ricordo di tutto ciò che avevate studiato faticosamente di lui, non preoccupatevi: non occorre riprendere in mano il poderoso trattato in 5 libri Ethica, more geometrico demonstrata uscito postumo nel 1677, per accostarsi all’opera La natura e l’origine della mente di Romeo Castellucci, che dichiara di essersi ispirato alla parte seconda del trattato, in cui il filosofo ragiona sulla natura del pensiero superiore, la potenza dello spirito e le forme della conoscenza.

Voce maschile: I cinque libri dell’Ethica. Cose illeggibili per l’uomo qualunque. Sintesi del pensiero di un uomo vissuto nel 1600, nato dopo Giordano Bruno, Shakespeare e Caravaggio; uno che ha visto Rembrandt andare in giro per la sua città con le tele sotto il braccio. A 24 anni già scomunicato perché non crede all’immortalità dell’anima: a tutti viene vietato persino di rivolgergli la parola. Muore a 45 anni avendo passato la vita nella bottega di famiglia (ebrea) e a studiare ogni cosa, dalla Bibbia alla geometria, fino alla filosofia. Leibniz gli scrive lettere e lo va a trovare un anno prima della morte. Ethica viene messa al bando dalla Chiesa un anno dopo la pubblicazione. Cosa può spingere, dopo quattro secoli, qualcuno a farne riflessione per il teatro, solo dio può saperlo.  

Voce Femminile: A noi basta sapere che nella performance di Castellucci siamo parte necessaria di un’indagine sull’interrelazione tra corpo e mente nella costruzione della conoscenza. Allo stesso tempo siamo chiamati a riappropriarci di quell’esperienza di presenza che è il teatro. Il regista crea delle immagini o suggestioni che lo spettatore in un primo momento accoglie, ma a cui immediatamente dopo reagisce  rielaborandone le forme, in base alla propria enciclopedia personale di esperienze, di conoscenze, di letture, di visioni.

ETHICA.-Natura-e-origine-della-mente02.jpgVoce maschile: Ecco perchè da spettatori entriamo nello spazio scenico attraverso una sagoma, dunque. Varchiamo simbolicamente una forma che è anche sostanza, secondo Spinoza, e forse anche per Castellucci, verrebbe da ritenere. Una sagoma di forma femminile che ci fa accedere ad uno spazio circolare bianco dalle pareti altissime. Siamo sul palcoscenico del CRT di Milano e solo dopo qualche tempo iniziamo a conoscere quello che ci sta attorno.

Voce femminile: Conoscere: questo è il punto. Secondo le più recenti teorie delle scienze cognitive, la conoscenza non è un’immagine riflessa del mondo reale, ma è una costruzione prodotta dall’attività cognitiva del soggetto in relazione adattativa con la realtà. La  conoscenza non è un dato oggettivo,  e pertanto comunicabile e trasferibile in maniera rigida, immodificabile, è, invece, un prodotto costruito all’interno di dinamiche culturali, sociali, storiche, contestuali.  Di conseguenza ogni individuo elabora una interpretazione soggettiva della realtà, e genera significati. I vari significati individuali così elaborati diventano poi reciprocamente compatibili all’interno di un graduale processo di accomodamento e adattamento, attraverso procedure di scambio, dialogo e negoziazione sociale, che rendono possibile di conseguenza la comunicazione e l’apprendimento.

Voce maschile: Occorrerebbe capire che sistema di negoziazione sociale ha all’attivo il primo spettatore che, andando oltre la convenzione della lettura orizzontale della realtà dello spazio teatrale si costringe ad alzare lo sguardo al cielo, occorrenza onestamente rara nella fruizione spettacolare ordinaria.

Voce femminile: Lo sguardo dello spettatore, e la sua fecondità creativa stimolata dalle immagini del regista, da tempo costituiscono il cuore della pratica e della riflessione artistica di Castellucci, che anche nella lectio magistralis “Vedersi vedere”, tenuta il 22 febbraio 2017 sempre a Milano in Triennale, proponeva “una riflessione sulla relazione tra il teatro e la società contemporanea, e in particolare sullo spettatore che partecipa attivamente alla costruzione di senso dell’opera”.  Castellucci dunque raccoglie in questo lavoro la sfida del paradigma della complessità nel sistema della conoscenza e della comunicazione, generando dissonanze cognitive, sintetizzando in forme e “provocazioni” artistiche stimoli provenienti da campi diversi e convergenti come la filosofia, le scienze cognitive e le neuroscienze.

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Voce maschile: E dissonante è il miagolio che pare emettere l’enorme cane nero (vivo), che pure è presente nell’opera spinoziana in varie esemplificazioni nell’Ethica. Il cane resterà in scena tutto il tempo con un amplificatore ad aggirarsi, terreno e olfattivamente disgustante, contrappunto all’eterea visione dell’Idea, leggera e sospesa ad  un filo. Ethica ha lo schema del dialogo filosofico, una specie di operetta morale leopardiana in cui si discute della conoscenza, della verità e del modo in cui viene rappresentata. La stessa lectio a cui ti riferivi prima si apriva con una serie di indovinelli, di aporie sui modi più complessi (gli indovinelli) in cui la nostra intelligenza è poco abituata a leggere il reale: siamo qui dentro il cervello dell’uomo che assiste ad un dialogo sul tema della rappresentazione della realtà fra una telecamera e l’idea. Quale delle due esprima il concetto di verità è un argomento assai attuale. Sullo sfondo, dietro la sagoma, il mondo che si muove, fra corpo e natura.  

CRONACA DI UNA SPETTATRICE SUI TACCHI 

Un inno di rinuncia alla Verità, come concetto assoluto. Questo è ciò che ho rielaborato dalla partitura di segni, che restano essenzialmente visivi (immagini, forme, colori), e stimoli che dialogano con il corpo, volume cosciente nello spazio.

L’ingresso nella sala teatrale avviene per un percorso inconsueto, laterale, cupo e stretto. Il gruppo degli spettatori si compatta ed entriamo nello spazio intimo l’uno dell’altro. Definisco i confini del mio corpo e mi muovo pochissimo per evitare di sfiorare chi mi precede o chi sta dietro di me. L’attesa si prolunga per qualche minuto. Arrivati in sala siamo invitati a salire sul palco dalla maschera che ci conta a voce alta, mentre saliamo i gradini come se fossimo un gregge di pecore mansuete, raccolte a sera nell’ovile; arriva fino a dieci e poi ricomincia da capo. Io sono il numero nove della penultima serie.

Il palco non è più scena, trasformato in una stanza chiusa da una quarta parete, bianca, in cui è lasciato come  varco la sagoma sinuosa di una fanciulla dai capelli lunghi. Qualcuno ha difficoltà ad entrare, tutti studiano con cautela lo spazio concesso dall’apertura e misurano con la mente l’ingombro del proprio corpo. Che bell’esercizio di propriocezione – penso – io mi incastrerò di sicuro o si impiglierà la tracolla della borsa! E invece passo senza inciampo, forse non con la grazia e la sicurezza con cui mi piacerebbe entrare nella scena, ma alla fine ci sono, come tutti gli altri. Insieme a tutti gli altri, eppure sola ed estranea.

Iniziamo a disporci non all’interno, bensì ai confini dello spazio scenico vuoto e illuminato, spinti da una invisibile forza centrifuga: il pavimento è lucido e bianco e lo evitiamo; lasciamo libera anche la parete bianca e il foro-fanciulla; ci rintaniamo nella penombra, abitiamo le periferie delle quinte e del fondale, i tre lati oscuri della scatola. Quasi tutti si siedono a gambe incrociate, o raccogliendo le ginocchia con le braccia, schiene curve e collo in avanti. Io resto in piedi, che ho messo la gonna e i tacchi, e poi se sto scomoda ragiono con più lucidità o con più cattiveria.

Vedo lei, anzi, prima ne odo la voce. Direi che è una registrazione, ma solo perché il suono è amplificato e proviene innaturalmente dall’alto. Alzo lo sguardo, inseguendo le onde sonore, mentre cerco la mia posizione nella scena e lei è lì, qualche metro sopra di me, appesa ad un cavo di acciaio con un dito. L’immagine mi turba, penso che è crudele condannare a quello sforzo tanto rischioso una performer, che va bene mettersi al servizio dell’altrui creatività, ma quello è approfittarsi della generosità di un’artista. E mentre catalogo come eroico il gesto, lo sforzo artistico della signora Silvia Costa, inesorabilmente prende forma nella mia mente la consapevolezza che sono stata  ingannata da un artificio. Rassicurata da questa presa di coscienza, decodifico la rigidità dell’arto meccanico (effetti speciali e sculture in scena sono realizzati da Plastikart Studio di Cesena che vanta una lunghissima collaborazione con Castellucci, qui l’elenco completo http://www.plastikart.it/category/scenography_scenografia/) e leggo sotto l’abito ampio color ceruleo chiaro, o grigio 50% come appare nella maggior parte delle foto di scena, il braccio ripiegato della performer (cfr. http://www.plastikart.it/ethica-natura-e-origine-della-mente-romeo-castellucci/#!prettyPhoto/1/ e http://www.plastikart.it/ethica-natura-e-origine-della-mente-romeo-castellucci/#!prettyPhoto)

Le mie orecchie interpretano come voce viva e presente solo l’onda sonora che arriva frontale o laterale, ma comunque ad altezza ragionevole e impiego ancora qualche secondo a realizzare che il miagolio e poi il bel timbro chiaro e profondo maschile che percorrono la scena, sono, questa volta sì, una registrazione che proviene da un amplificatore wireless ben nascosto sotto la folta pelliccia nera di un gigantesco terranova. A questo punto la sorpresa lascia il posto ad una pietà che mi attanaglia per tutto il tempo dell’azione teatrale, perché l’animale ansima, lascia penzolare la lingua lunghissima e sbava copiosamente; ha caldo, ha sete e cerca conforto nel suo accompagnatore che sta in piedi, come me, in fondo alla scena. Il movimento disordinato del cane fa percorrere alla voce delle traiettorie insospettate e le dona profondità e piani incoerenti con il testo che pronuncia e che scorre sulla parete bianca davanti ai nostri occhi.

Che il cane interpreti la telecamera e la donna appesa sia la luce è una evidenza data dalla lettura del testo di Claudia Castellucci che scorre, bellissimo, davanti ai nostri occhi, proiettato sulla parete bianca, in font tipografico con le grazie che alterna carattere normale e corsivo per le didascalie. Io sono una lettrice forte; tanto del mio immaginario è legato ai libri e alla carta stampata e forse per questo sono immediatamente risucchiata nella pagina a parete che Castellucci scrive. Le voci recitanti e le parole scritte viaggiano all’unisono, tanto che mi sembra che quello che sento sia il suono della mia voce interiore nella abituale lettura silenziosa. E allora sparisce il cane, sparisce la donna appesa, sparisce ogni forma dietro la sagoma di fanciulla, che ormai è diventata il buco di una serratura attraverso il quale sbirciare il movimento confuso del reale.

castellucci-1.jpgResta quella pagina e la mia voce interiore, fino a quando anche questa illusione viene spezzata da un inciampo della tecnologia: voce e proiezione perdono la sincronia, la magia svanisce e io ritorno presente in scena mentre dietro la serratura si agitano sinuosi corpi di ragazze. Ricordo che qualche minuto prima erano coperte da tuniche bianche, ora sono nude e intrecciano gambe e braccia, inguini e seni in un elegantissimo carnaio senza testa. E penso alla ragione che ha spinto Castellucci a scegliere solo corpi femminili e a mostrarceli senza testa, per di più! Mi indigno. Lo condanno immediatamente di essere il solito maschio consumatore, in forme raffinate, non lo nego, di carne femminile e mi torna in mente il mio prof. di filosofia al liceo, che spesso, anche spiegando Spinoza, indossava una cravatta arancione su cui era disegnata la sagoma di una serratura, al cui interno si vedeva la figurina ammiccante di una signora nuda, con un bel sedere tondo e sodo in primo piano. Ultimo dettaglio, una piccola chiave metallica cucita proprio sotto la serratura.

Lascio indietro i ricordi da liceale perché ora, dietro la serratura, spunta una pianta e il verde, si sa, tranquillizza. Così non mi scuote lo scheletro che sostituisce la pianta e perdono Romeo per non aver osato andare oltre gli stereotipi di genere.

Natura-e-origine-della-mente-14.jpgPoi lo adoro, perché tira fuori dal cilindro l’ultimo incantesimo, che è poesia assoluta. Dal foro penetra dentro la scena e  si allunga sul pavimento un sottile telo nero, mentre la donna-luce vola sempre più in alto e insieme a lei lentamente si attenua, fin quasi a scomparire, la luce sulla scena. Il foro nella parete bianca si chiude, così scompare anche l’immagine della fanciulla. Il telo si gonfia un po’: è un budello attraversato da un corpo che, arrivato alla fine del suo percorso, si erge, nero, lasciando e lanciando dietro di sé un’ombra che non è proiezione del corpo, ma materia essa stessa. E mentre nella mente mi si fissano le forme di Giacometti e ancora più in là L’ombra della sera, il bronzo etrusco esposto nel Museo archeologico di Volterra, usciamo uno ad uno di scena, silenziosi e rapiti, senza applaudire.  

 

ETHICA. NATURA E ORIGINE DELLA MENTE

 

visto presso la TRIENNALE DI MILANO

 

ideazione e regia Romeo Castellucci
testo Claudia Castellucci
suono Scott Gibbons
con Silvia Costa Diletta Bindi, Moira Dalant, Sara dal Corso, Gloria Dorliguzzo, Valentina Parravicini, Anna Trotter e un cane
voce registrata Bernardo Bruno
sculture Istvan Zimmermann & Giovanna Amoroso
tecnico del suono Matteo Braglia
macchinista Filippo Mancini
addetto alla produzione Benedetta Briglia
organizzazione e promozione Valentina Bertolino, Gilda Biasini
amministrazione Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci, Massimiliano Coli
produzione Societas
in coproduzione con: T2G-Théâtre de Gennevilliers – Centre dramatique national de création contemporaine
creato a: Venezia per La Biennale College – Teatro nell’agosto 2013
in coproduzione con: Théâtre de la Ville e Festival d’Automne a Parigi
in collaborazione con: La Biennale di Venezia
foto: Guido Mencari