LAURA BEVIONE | L’autore e regista argentino Rafael Spregelburd torna su un palcoscenico italiano dopo qualche anno – e dopo il successo ottenuto grazie soprattutto alle messe in scena ronconiane de La modestia e de Il panico – con un corposo dittico articolato in otto differenti quadri che dipingono altrettante variazioni sul tema della “fine”, intesa certo quale punto di non ritorno ma esplicitamente deprivata di qualsivoglia connotazione apocalittica ovvero qualunquisticamente scettica.

Non vi è cinismo né satirico distacco nello sguardo con cui Spregelburd osserva la società occidentale e il suo inane dibattersi per non perdere definitivamente quella – presunta – superiorità morale e culturale che permise all’Europa di agire per secoli quale fulcro – certo capriccioso e sovente spietato – del globo intero. L’argentino adotta piuttosto un atteggiamento improntato a un’arcaica pietas, benché aggiornata alla nostra atea contemporaneità, e ritrae con un sorriso alle stesso tempo beffardo e benevolo le incongruenze e le fragilità di una società sull’orlo di un collasso sempre annunciato e che, nondimeno, mai avverrà davvero.

FIN DE L'EUROPE

Abbiamo assistito a cinque delle otto “fini” ideate e dirette da Spregelburd e recitate da un giovane e affiatato cast internazionale, disinvolto nello scivolare da un personaggio all’altro, dalla recitazione al canto, dal francese all’italiano e allo spagnolo.

E proprio sulle incomprensioni e i disguidi generati dalla scarsa conoscenza delle lingue riflette il primo quadro, La fine dei confini, acuto nel suggerire l’inevitabile fallimento di un’unione europea in cui i cittadini stentano a comprendersi reciprocamente. Una cantante intona un’aria brechtiana ma il suo tentativo di tradurne il testo – squisitamente politico – si infrange contro la superficialità di una conversazione telefonica, a testimoniare della difficile sopravvivenza di una comunicazione non banale ovvero approfondita e dilatata.

Altrettanto efficace nel ritrarre l’agonia del dibattito culturale è il secondo quadro, La fine dell’arte, che, prendendo le mosse dal (finto) scandalo suscitato dall’ardito restauro eseguito nella chiesa di in un paese nei pressi di Saragozza dall’improvvida Cecilia Giménez, mette in discussione lo stesso valore degli studi umanistici – involontariamente agganciandosi a una questione attualmente assai dibattuta.

In La fine della nobiltà, invece, Spregelburd allestisce uno scenario quasi alla Buñuel, una casa nobiliare dove si vivono gli ultimi minuti di una festa di matrimonio, fra alienazione e indicibili violenze, protagonista una contessa che non conosce cosa sia il denaro ma sa benissimo cos’è l’infelicità…

L’ultimo quadro del primo capitolo, La fine della storia, ambientato in un vecchio teatro, è il meno riuscito nel suo tentativo – in verità un po’ confuso – di intessere un discorso meta letterario e meta teatrale, interrogandosi sulla presunta universalità dei classici e sulla reale funzione esemplare-morale delle storie – e della Storia.

Assai più incisiva è la prima parte del secondo capitolo, La fine della sanità: in una clinica svizzera si invitano i pazienti a sorridere e ad aderire a una raccolta punti che, in caso di male incurabile, permetterà loro di trascorrere nel modo migliore gli ultimi mesi di vita. L’immaginazione irriverente di Spregelburd è qui dispiegata con grande generosità, così come l’abilità nel giocare argutamente con le parole in modo da creare scenari originalmente grotteschi e dialoghi stringenti.

FIN DE L'EUROPE

Qualità che, benché in proporzioni e con esiti diseguali, percorrono lo spettacolo che, nondimeno, pecca forse per un’eccessiva lunghezza, quasi che l’autore abbia voluto oggettivare l’intrinseca impossibilità di una fine, sempre annunciata ma mai davvero verificatasi nella realtà, quando, invece, una certa sintesi avrebbe regalato maggiore stringente incisività a ciascun quadro, esplicitando con maggiore chiarezza l’idea di fondo dell’argentino. Spregelburd, come dicevamo, è ben cosciente della sostanziale falsità dei tanti proclami apocalittici che alimentano la nostra inguaribile ansia e che, artatamente, impediscono ribellioni ovvero concrete trasformazioni politico-sociali, e utilizza il proprio estro – scoppiettante, colorato, ironico – per evidenziare come la società occidentale sia stata, in fondo, capace di “sopravvivere”, in primo luogo a se stessa e ai propri spettri.

www.teatrostabilegenova.it

FINE DELL’EUROPA, testo e regia di Rafael Spregelburd

Con la collaborazione di Manuela Cherubini

Drammaturgia e traduzione di Guillermo Pisani. Scene e luci di Yves Bernard

Con Robin Causse, Julien Cheminade, Sol Espeche, Alexis Lameda Waksmann,

Adrien Melin, Valentine Gérard, Sophie Jaskulski, Emilie Masquet, Aude Ruyter,

Deniz Özdoğan

Prod.: Teatro Stabile di Genova, Comédie de Caen-CDN de Normandie, Comédie de Reims-CDN, Théâtre de Liège.