Chille de la balanza - Siete venuti a trovarmi? _ ph. Paolo Lauri
Siete venuti a trovarmi? @ Paolo Lauri

MATTEO BRIGHENTI | Condizione o parole. I due estremi della scala di coinvolgimento a teatro rappresentano modi opposti di rendere il pubblico partecipe del mondo in scena: da un lato sentire la condizione che l’attore prova, dall’altro ascoltare le parole che dice. È qualcosa di diverso dall’abusato grado di immedesimazione. La riprova sono due spettacoli della compagnia Chille de la balanza, Siete venuti a trovarmi? dall’allestimento inclusivo e L’amore è il cuore di tutte le cose dall’impianto frontale, presentati nell’ex manicomio fiorentino di San Salvi per la rassegna antologica Il Teatro dei Chille.
Non si tratta di diventare più o meno una medesima cosa, una sola e la stessa, con la storia sotto i riflettori, quanto piuttosto esserne “ri-guardati”, nel duplice significato di “avere una relazione” e “vedere a propria volta”. Chi riguarda, nella lingua letteraria, è lo spettatore: in tal caso, allora, noi guardiamo il palcoscenico e il palcoscenico guarda dentro di noi. Siamo sia spettatori che interpreti di quanto (ci) sta accadendo. Se non si dà un simile scambio, l’azione scenica resta un fatto puramente dell’attore. La meccanica del personaggio fa il suo corso spinta dalla dinamica delle azioni e sostenuta dalla statica dei dialoghi. Il pubblico, quindi, è a tutti gli effetti un semplice osservatore esterno. La storia viene raccontata a noi, ma non con noi.

Chille de la balanza - Siete venuti a trovarmi_ ph. Paolo Lauri
Foto di Paolo Lauri

Le sedie nella sala del Padiglione 16 sono disposte in due semicerchi, uno di fronte all’altro. Matteo Pecorini cammina avanti e indietro nello spazio di Siete venuti a trovarmi? ristretto tra quelli e due colonne. Farfuglia, conta le seggiole e se qualcuno le urta, sposta o risistema, gli chiede, fermo e allucinato, di non farlo: il rumore potrebbe disturbare “loro”, gli “altri”, insomma chi comanda. Le luci, completamente accese, dando al luogo l’aspetto di un’anonima corsia d’ospedale.
Pecorini pare osservare tutto, senza però realmente vedere niente e nessuno. La sua attesa quotidiana non è soddisfatta nemmeno oggi. Qualcuno è venuto a trovarlo, ma non chi lui aspetta da giorni, mesi, anni. Perciò subito saluta e se va, lasciandoci soli nell’imbarazzo tra sconosciuti: non sappiamo dove guardare, dove mettere le mani, né come stare in scena, per dirla con Nina de Il gabbiano di Čechov.
“Sono venuti a trovarmi?” è la domanda che ciclicamente conduce A. L. fuori di qui e di sé, portando noi a trascorrere il “tempo cieco” della reclusione in manicomio e, in generale, di qualunque altra detenzione che sconti solitudine e speranze tradite. È stato internato a San Salvi, negli anni Settanta e Ottanta, i suoi scritti sono stati ritrovati nell’archivio, ma per motivi di privacy l’autore del diario autografo alla base di Siete venuti a trovarmi? sul palco è nominato con le sole iniziali. È quel paziente, ma è anche tutti quelli che, come lui, sono rinchiusi nella bolla dell’abbandono e della famiglia e della società.

Chille de la balanza - Siete venuti a trovarmi_ ph. Paolo Lauri
Foto di Paolo Lauri

A. L. si regge ancora in piedi grazie alle sue “colonne”: le origini, simboleggiate dalla sua città natale, Capaccio, in provincia di Salerno, che si figura su un lato della scena, e il rito del caffè, che prepara per sé e per noi sul tavolino al lato opposto, e che, pur nella frustrazione dell’attesa, gli distende lo spirito. Ogni discorso, difatti, è un fiume che si perde nei rivoli dell’ossessione dell’ordine e dei ricordi: nomi, date, liste, spandono il pensiero lontano dal ragionamento principale.
Stretto nelle spalle, le mani in tasca, in testa e spesso usate per tirarsi su i pantaloni (non ha cintura, non ha legami), Matteo Pecorini restituisce un “malato” che cammina e riflette come “sulle uova”, cioè come se fosse a disagio e temesse di rompere qualcosa. Forma e sostanza sono ben lontane dallo stereotipo o, peggio, dalla macchietta: lo si vede con chiarezza nello specchio delle nostre facce intenerite. Lo trattiamo da matto, rispondiamo ogni volta “sì” alle sue domande, forse per paura che, contrariandolo, dia in escandescenza. È la sincerità di questo rapporto che costituisce la profonda verità di Siete venuti a trovarmi?.
A un certo punto A. L. accende una radiolina e passa da una stazione all’altra. La realtà per lui è una canzone che non ascolta fino in fondo, che cambia continuamente, perché non trova quella che cerca. Se farà ciò che vogliono gli restituiranno le sue cose, la sua vita, chi era prima. Ma intanto un altro giorno è passato. E anche la litania sempre uguale del Credo, la professione di fede a Gesù Cristo, è sbiadita tra queste mura. Tutto il resto è un caffè che si raffredda.

Chille de la balanza - L’amore è il cuore di tutte le cose _ ph. Isabella Ghiddi
L’amore è il cuore di tutte le cose @ Isabella Ghiddi

Si cercano, trovano e incontrano eccome Vladimir Majakovskij (ancora Matteo Pecorini), Lilja Brik (Eleonora Angioletti) e suo marito Osip (Francesco Gori). L’amore è il cuore di tutte le cose è un turbine accalorato, una febbre “futurista” che unisce un poeta, la sua musa e il marito di lei, in una passione spregiudicata e radicale (esiste anche un omonimo libro edito da Neri Pozza sulla corrispondenza di Majakovskij e Lilja Brik).
La messinscena dell’unione lasciva e struggente di queste tre anime ostinate nella Russia tra la Rivoluzione d’Ottobre e la dittatura di Stalin arriva quarant’anni dopo il primo avvicinamento dei Chille de la balanza all’opera di Majakovskij. Nel 1976 Un cane randagio inaugura la storica Festa Nazionale de “L’Unità” di Napoli, riunendo il nuovo teatro napoletano, che di lì a poco conquista la scena nazionale: Antonio Neiwiller, Mario Martone, Renato Carpentieri, Toni Servillo e, appunto, i Chille.
L’amore è il cuore di tutte le cose si apre su Lilja Brik ormai anziana. Angioletti è seduta a un tavolino con sopra un piccolo specchio e prende sonniferi da un portapillole, nella sala del Padiglione 16 riadattata con la canonica separazione tra interpreti e pubblico. L’attrazione per Majakovskij è un gioco di equilibri anche nel ricordo, la sua voce fuoricampo la rincorre e perseguita tanto da agitarla sulla seggiola al pari di una bambola di pezza. Non si sono mai separati davvero, nemmeno dopo il suicidio di lui. Tale dialogo di un corpo-voce e una voce-corpo torna più volte, dal momento che al centro del lavoro ci sono i mesi di separazione tra i due (dicembre 1922 – febbraio 1923).

Chille de la balanza - L’amore è il cuore di tutte le cose _ ph. Isabella Ghiddi
Foto di Isabella Ghiddi

Vladimir Majakovskij conosce Lilja Brik nel maggio 1915, quando legge per pochi intimi la tragedia in versi La nuvola in calzoni. Il poeta ha 22 anni, la ballerina e attrice ne ha 23 anni ed è già sposata con Osip Brik. Tra loro nasce “un’autentica aggressione”, scrive Lilja. 15 anni consumati con una tenerezza capace di superare crisi, disagi, amarezze e fatalità di altri incontri, fino alla morte di Majakovskij nell’aprile 1930. Un amore diviso in tre parti uguali.
Tanto è vero che la donna non nasconde i suoi sentimenti al marito, peraltro affascinato dal genio di Majakovskij. Così, viene coinvolto anche lui nel loro fervore intellettuale quanto passionale, e da giurista e commerciante diventa critico ed editore del poeta, e uno dei più brillanti animatori culturali nella Russia dell’epoca.
La vicenda si riavvolge in un lungo flashback. Il procedere degli attori asseconda la corposità del testo, lettere, biglietti, cartoline, telegrammi e, naturalmente, poesie, che il regista Claudio Ascoli tesse per lampi, impressioni come su una lastra fotografica. L’intenso “tentativo amoroso” di questa specie di trinità poetica e politica è rappresentato con un’insistente alternanza di buio e luce, che frammenta la vicenda in una rapida successione di quadri. Sembrano quasi non parlare, piuttosto discutono, dibattono, come se le parole dovessero fare da sole, come se bastasse dirle per dar loro forza e vitalità.

Chille de la balanza - L’amore è il cuore di tutte le cose_ ph. Isabella Ghiddi
Foto di Isabella Ghiddi

Il Vladimir Majakovskij di Pecorini tenta di rivolgersi altrove, alle stelle, alla vita al di fuori della pagina scritta, lancia in alto versi “appuntiti e indispensabili come stuzzicadenti” facendoli più leggeri dell’aria. Eppure, la struttura de L’amore è il cuore di tutte le cose è chiusa in una girandola di cronometrati cambi a opera degli attori stessi. Vige una sorta di “enjambement teatrale”: l’unità narrativa è alterata, anziché concludersi in una scena il senso si prolunga in quella successiva.
Del battito delle cose, in definitiva, rileva il sistema sanguigno, ovvero la velocità di muoversi dai salotti alle manifestazioni, dai congressi alle partite a carte. Il mistero di cotanta spirale di sfrenatezza non riesce a toccare o smuovere la realtà della sala. Osserviamo dunque la “barca dell’amore” lirica e distante, finché non si spezza contro il quotidiano, come afferma Majakovskij nella sua ultima lettera, prima del colpo di pistola proprio al cuore. Una fine che li unirà in eterno: scoperta una malattia incurabile, nel 1978 si suiciderà anche Lilja Brik.


Siete venuti a trovarmi?

di e con Matteo Pecorini
produzione Chille de la balanza

L’amore è il cuore di tutte le cose

di Vladimir Majakovskij
scrittura scenica Claudio Ascoli
con Eleonora Angioletti, Francesco Gori, Matteo Pecorini
musiche originali Alessio Rinaldi
produzione Chille de la balanza

Padiglione 16, ex manicomio di San Salvi
Firenze
17, 20 aprile 2018