GILDA TENTORIO | Il mondo è un “villaggio globale”, si sa. Ecco allora che i tentacoli del terrore possono sfiorare le nostre vite e diventare un tema anche “provinciale”, come immagina Luca Ricci in La lotta al terrore, visto il 5 settembre nell’ambito del Festival Ultima Luna d’Estate. Il parco di Villa Banfi a Carnate, originariamente previsto come location, non è agibile, e siamo ospitati nel cortile della biblioteca civica. Si intravedono gli scaffali colmi di libri, nelle sale illuminate ma vuote, un senso di familiarità e inquietudine. Fuori, i posti per gli spettatori sono lungo i quattro lati, per abbracciare ciò che avverrà al centro: un tavolo, delle sedie e un telefono bastano a “costruire” l’essenzialità di un ufficio comunale. In un angolo, qualcosa di stonato: due alti cactus, residui di una natura selvaggia che dovrebbe trovarsi in un altrove arido e lontano. Questa immagine riassume uno dei leit motiv dello spettacolo, che si regge sulle antitesi: fuori-dentro, minaccia-ordine, voi-noi.

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Non è un caso, mi spiegava Luca Ricci in una recente intervista, che il luogo prescelto per immaginare il terrorista con gli ostaggi, sia un supermercato di provincia: «Certamente è un luogo reale (e fa impressione pensare che pochi mesi dopo la mia scrittura, in Francia è successo un evento simile), ma è anche simbolico: ci rechiamo tutti al supermercato, che racchiude l’essenza del nostro vivere, cioè il cibo e il consumo. Quindi l’attacco in un momento della vita quotidiana evidenzia la nostra vulnerabilità. Al tempo stesso quello del mio testo è un supermercato “più in là”, in un luogo distante. Anche qui torna il tema dentro-fuori».

E infatti. Asserragliato è l’attentatore, come pure i tre impiegati comunali, che sbarrano l’ingresso dell’ufficio e all’inizio sembrano fermi sulle proprie diverse posizioni (la procedura burocratica, l’accoglienza, il rifiuto brutale dell’altro), come ad esempio l’impiegato (Gabriele Paolocà), che esprime le proprie convinzioni: «qui nel mio Paese io continuerò a mangiare pane e salame e a fare il presepe, anche se loro vogliono impormi il Corano»! Stereotipi grossolani che fanno ridere, però fra il pubblico qualcuno sembra assentire: chissà se è solo una posa…

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© Elisa Nocentini

Arriva poi la deflagrazione simbolica ed emotiva, e tutto crolla. Finché la cosa non ci riguarda da vicino, è facile giudicare: il ragazzo straniero che tiene in ostaggio dei poveri innocenti è un «mostro assassino». Quando si scopre che è il figlio del fruttivendolo Aziz, una famiglia di onesti lavoratori, allora saltano le equazioni manichee noi=bene, loro=male, ed è il caos.

A un certo punto, con effetto esilarante, i tre personaggi sembrano cercare un improbabile conforto (un “respiro verde”, un relax-yoga) davanti ai cactus: inspirano profondamente e cercano di espellere l’ansia di fronte ai fusti dalle braccia spinose. Questa scena segna una voluta e irriverente specularità che non lascia scampo: chi è più arido e spinoso, i cactus o la nostra piccineria?

La lingua gioca fra realtà e ironia in trapassi continui: il quotidiano scivola nell’eccesso o nell’assurdo, scatta il distanziamento e il riso, che lascia l’amaro in bocca perché riconosciamo il riverbero del nostro vissuto. Ma non sempre riuscita è la gestione dei ritmi, e l’akmé della tensione a volte cade. Dopo la tragedia, il finale sembra un po’ affrettato, con alcuni rapidi accenti poetici di effetto (come quando tutti guardano un merlo posato sul davanzale) e un recupero di umanità, ma il tutto si tronca all’improvviso.

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Altra sera, altro scenario. Non è cosa di tutti i giorni incontrare un vero conte, che ti spalanca la sua dimora, accoglie decine di visitatori con un grande sorriso e partecipa insieme al pubblico a un evento teatrale. Succede a Sirtori, preso Villa Besana, venerdì 7 settembre. Per il conte Gaetano Besana, un signore d’altri tempi, con un’eleganza nei modi che si sposa a una grande disponibilità e apertura al dialogo, aprire le porte alla cultura è un’abitudine consolidata da decenni di collaborazione con Teatro Invito e con il Festival Ultima Luna d’Estate, ma anche in altre occasioni. Un conte “illuminato”, attivo sul territorio per il recupero di radici, sapori, colori, ritmi e biodiversità della Brianza più bella (ha fondato l’Oasi di Galbusera Bianca, agriturismo, oasi WWF, ristorante e benessere bio). Fare memoria e cultura significa slancio democratico alla partecipazione: «la storia per essere tale ha bisogno di essere condivisa», spiega prima dello spettacolo, ringraziando il pubblico per la presenza numerosa. Luoghi come Villa Besana, un edificio che ha più tre secoli, trasudano storia e continuano a chiedere nuova linfa. Il conte Gaetano ci invita a non essere puri spettatori, “vampiri” del consumo di uno spettacolo, ma a immergerci nell’immenso giardino, “sentire” il paesaggio ricreato con perizia dai suoi avi, viverlo e farlo rivivere. Il padrone di casa ci avvisa che il giardino è strutturato con attenzione alla teatralità: appena entrati, una prospettiva a cannocchiale ci rivelerà sullo sfondo i grattacieli di Milano, ma anche il grande spettacolo delle cascine brianzole, il lago, il massiccio delle Grigne. Gli alberi maestosi piantati a metà Ottocento secondo una segreta geometria, formano cerchi protettivi, mostrando la diversità di fogliame e colori…

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Secondo gli antichi il giardino era un “paradeisos”, paradiso artificiale e specchio del cosmo. L’immenso giardino di Villa Besana abbraccia davvero una miniatura del mondo e con questa splendida location deve fare i conti la performance Teseo e Arianna di Pleiadi Art Productions, reduce da una lunga tournée estiva in luoghi altrettanto suggestivi. Si tratta di uno spettacolo itinerante che cambia, plasmato per così dire dal paesaggio che attraversa. Gli spettatori sono stimolati alla ricerca del mito che verrà loro incontro: il loro sguardo si farà attivo, segno che si incide nel paesaggio, una scenografia naturale avvolgente.

L’incipit è una sosta nella corte della villa, di fronte alla facciata. Le attrici ci introducono al tema del labirinto, un «giardino dai sentieri che si biforcano», labirinto-mondo che abbraccia passato e futuro, e comprende tutte le possibilità. Con un gesto scenografico di grande impatto, ecco aprirsi l’enorme portone, ed entriamo nel giardino. Esclamazioni di ammirazione e meraviglia: la vista è davvero splendida, mentre la luce del tramonto indora le cime svettanti degli alberi. La bellezza di questo giardino-parco sta anche nella sua topografia sempre varia: avvallamenti, salite, sentierini, una distesa erbosa, un laghetto coperto di ninfee, e poi palme, ulivi, pioppi, faggi, platani, querce e un sottobosco di arbusti, foglie secche, fruscii, richiami di uccelli. Le guide ci invitano ad avanzare, il passo è lento e cadenzato, in silenzio da una tappa all’altra. Qualcuno si china per osservare meglio un funghetto, qualcun altro accarezza il vecchio tronco di un albero, altri spiano i giochi di luce tra le foglie; una signora procede aiutandosi con un bastone, un’altra porta in braccio il bimbo, c’è chi scatta fotografie e mormora: «Meraviglioso! Qui è meglio di Versailles».

Se la scenografia è straordinaria, lo spettacolo non sempre mostra compattezza. Alcune scelte colgono nel segno, come la corda rossa tesa fra i tronchi: il filo ha aiutato Teseo a non smarrirsi e a ritrovare l’uscita, e ora segna anche la strada per gli spettatori. Il mito diventa pretesto per indicare la via di una ricerca interiore, di un metodo per lottare contro i propri mostri e darsi una linea di condotta. Interessante l’accostamento dei due elementi cosmici, l’acqua (il pubblico costeggia il laghetto) e il fuoco (un falò sotto grandi alberi).

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È qui che troveremo il Minotauro (Michele Losi, con indosso una bella struttura in ferro battuto che disegna il contorno del muso di un grosso toro), ma poi la struttura drammaturgica si sfilaccia. Il regista ci ha spiegato che le suggestioni letterarie, oltre che dai testi antichi, vengono da Borges (Asterione) e da Dürrenmatt, autore di un racconto impostato sulla claustrofobica reclusione del mostro in un labirinto di specchi: l’elemento della specularità-rifrazione si troverebbe nel cast totalmente femminile (le guide, Arianna, Teseo, Dedalo e gli Ateniesi), a indicare la scomposizione di una stessa anima, un perdersi e ritrovarsi, complice anche la magia del paesaggio. Tuttavia questo sentiero drammaturgico non è sempre chiaro. Forse le opportunità offerte dalla splendida location potevano essere sfruttate meglio: non si è sentito l’afflato dionisiaco, il mistero, il respiro della tragedia, il rovello della ricerca interiore, il contrasto natura/cultura. L’impressione è di un’intenzionalità policentrica che va però a sciogliersi in rivoli non del tutto definiti: il trionfo sul Minotauro si è risolto in salti, rincorse e passi di danza, privi però del selvaggio primordiale e della sanguigna dualità ambigua di eros-thanatos; un effetto un po’ ingenuo è sortito poi dall’idea di coinvolgere il pubblico nella danza ikariota, per tracciare il labirinto attraverso i meandri di un ballo collettivo “alla greca”, ma la solennità del rito, il disegno del mistero e della libertà si appannano un poco.

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Far parlare il mito all’oggi è un lavoro sempre complesso: la via della performance itinerante senz’altro aiuta in questa direzione, perché la pratica immersiva nel paesaggio porta gli spettatori a sentirsi comunità e il contatto con la natura favorisce il trapasso alla dimensione più ancestrale. Il lavoro acquisterebbe forse maggiore efficacia con un focus di attenzione più centrato e meno ambizioso, unito alla limatura delle interpretazioni un po’ acerbe di alcune interpreti. Ma l’esperienza è stata senz’altro positiva, per scoprire che il mito può nascondersi ovunque, perfino in Brianza e dietro la porta della villa di un conte…