42631822_10156277243027839_3633011727861284864_nRENZO FRANCABANDERA e MATTEO BRIGHENTI | Davide Enia è sicuramente fra le figure più interessanti del panorama teatrale italiano. Drammaturgo, attore e romanziere, è un affascinato dalla parola e dal racconto. Sono passati più di quindici anni dalla scrittura di Italia-Brasile 3 a 2 che gli valse il premio Ubu speciale 2003, stesso anno in cui vinse anche il Premio Tondelli con Scanna che debutterà poi con la sua regia, alla Biennale di Venezia l’anno dopo. Di lì in avanti un complesso incastro di creazioni per il teatro, romanzi (del 2012 il primo, Così in Terra ed. Baldini e Castoldi Dalai, tradotto poi in diciotto lingue e pubblicato in tutto il mondo).

Nel triennio successivo residenze ed esperienze in tutta Europa a valorizzare questo suo rapporto privilegiato con la parola. E riconoscimenti per questa attività in cui lo scrittore e uomo di scena riesce a combinare corpo e parola in un sistema di codici e rimandi capaci di non lasciare mai il lettore o lo spettatore indifferente.
Ultimo dei suoi lavori L’abisso, un racconto dapprima ospitato all’interno di una creazione polifonica sull’Italia di oggi prodotta dal Teatro di Roma e poi diventato spettacolo autonomo ampliando quella creazione originaria. Uno spettacolo di grandissimo impatto e successo che ritorna sulla frontiera, sempre viva nella produzione di Enia, dell’antico dilemma fra uomo e morale.
Nel prossimo futuro Davide Enia sarà a Cascina presso La Città del Teatro con un importante esperienza laboratoriale dedicata proprio alla scrittura, alla parola e al suo riverbero interiore. Il Corpo Narrativo sarà il titolo del progetto di laboratorio, che si svolgerà nel primo weekend di Maggio, dal 5 al 7 maggio e per partecipare al quale occorre candidarsi entro il prossimo 14 aprile. Abbiamo intervistato Davide Enia.

Davide, come si tiene in allenamento il proprio Corpo Narrativo?

Allenandosi, imparando ad ascoltare quello che accade fuori dal Sé e dentro se stessi, a conoscere le modalità con cui il corpo ci parla, ci comunica ansie, angosce, intuizioni, felicità, gioie, dubbi.

Un ascolto che si è andato perdendo secondo te?

Dipende dal singolo. Non credo si possa fare una storia dell’ascolto nelle vicende dell’umanità. Ci sono persone che sanno ascoltarsi, perché magari hanno avuto gli strumenti, qualcuno ha quasi una sorta di ascolto innato e altri, invece, non ce la fanno. Diciamo che viviamo periodi di horror vacui, in cui è terrorizzante mettersi ad ascoltare il proprio silenzio o quello che c’è fuori, perché richiede una sorta di visione nello specchio e di confrontarsi con chi davvero si è.

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In questi anni la tua parola si è sempre un po “ammischiata” con biografia, realismo, memoria. Come si impara a dosare questo miscuglio magico?

Secondo me non si impara, però bisogna imparare a fidarsi delle parole o dei gesti o della azioni. Cioè, fidarsi della loro capacità di penetrazione e di deposito del senso che hanno, senza dover esplicitare troppo e senza bisogno di dimostrare virtuosismi inutili, che in realtà tradiscono proprio l’assenza di fiducia nelle parole.

Se dovessi tracciare una linea tra i tuoi inizi, i primi momenti, e oggi, che percorso diresti che hai fatto?

Credo che il mio sia un percorso abbastanza coerente, in cui ho cercato di approfondire, affrontare, elaborare, scrivere ciò che mi interessava e che risultava urgente, necessario in quel momento, fottendomene delle logiche economiche o di carriera. Quindi, rispettando profondamente la scrittura e mettendo in secondo piano tutto il resto.

Se fosse una fotografia, quale sarebbe?

Un sentiero continuo, con curve, salite, discese, ma assolutamente continuo, senza strappi.

Che cosa hanno in comune gli incontri che hai fatto durante questo percorso?

Diceva il poeta brasiliano Vinícius de Moraes che «la vita è l’arte dell’incontro». Prendendo per buona questa definizione, l’incontro accade quando le persone rinegoziano se stesse e si modificano a vicenda.
Ho avuto incontri che mi hanno profondamente arricchito, sia nella professione che nella vicenda umana. Poi tutto quanto, però, si impasta. Insomma, uno dei vantaggi di questo mestiere è quello di poter utilizzare tutto quello che ti accade nella vita come “merce di scambio”, quindi scriverlo, elaborarlo, affrontarlo, approfondirlo, cercare di risolvere le domande aperte dentro se stessi.

E che cosa hanno in comune le persone di questi incontri che ti hanno cambiato profondamente?

Il fatto che non avevano nessuna pretesa di cambiarmi, non avevano nessun ruolo, nessun piedistallo. Il cambiamento avviene con una sorta di eleganza e generosità del comportamento, che irradia luce, calore e affetto senza che tu lo chieda.

Che cosa pensi incontrerà chi è interessato a iscriversi al tuo Laboratorio a Cascina?

Incontrerà una possibilità di esplorare un metodo di lavoro, che è il mio, che proverà a offrire ai partecipanti degli spunti di riflessione rispetto a cosa è l’atto narrativo e come cercare di essere rigorosi dentro di esso senza cedere al narcisismo. Cercando di essere, quindi, profondamente onesti rispetto a quello che si dovrà raccontare, nei confronti sia della materia narrata, che del pubblico che la ascolta, che del tuo corpo che lo sta narrando.

davide enia-palermoQuesta consapevolezza aiuta a rendere più felici oppure è uno dei motivi per cui non lo si può essere fino in fondo?

Io non credo alla logica binaria delle cose. Da quando abbiamo ridotto il mondo a una matrice economica, l’economia è diventata una delle scienze principali: sente il bisogno di catalogare, valutare tutto e dare due alternative. Può essere sia una cosa che l’altra, che la combinazione delle due cose, dipende da quello che si sta raccontando. Se uno racconta un ricordo felice, ha la possibilità di rivificarlo ogni volta ed essere felice. Se uno racconta qualcosa di doloroso, si immerge in quel dolore lì, sta male, ma al tempo stesso quell’immersione creerà distanza tra sé e il fatto, in maniera sistematica. Quello che posso dire è che non credo alla logica binaria, ma credo all’infinita possibilità di comunicazione delle cose, che secondo ogni essere umano si declinano in maniera unica. La grande ricchezza che noi abbiamo è che siamo tutti diversi, mica che siamo tutti uguali.

Quindi ci sono anche infiniti modi di narrare?

Sì e no. Ci sono infiniti modi di narrare, ma la narrazione è un mestiere. Perciò, dentro questi infiniti modi, si sceglie. Viviamo in un momento storico molto particolare, in cui il vero potere, con la censura ti bombarda di informazioni, sta nello scegliere cosa non leggere. Analogamente, la vera qualità della scrittura e della narrazione sta nello scegliere in quale modo raccontare. Scegliendone uno e perseguendolo, fino allo stremo.

Schermata 2019-03-24 alle 21.45.48.pngDunque si tratta di prendere una di posizione.

Ogni atto narrativo è una presa di posizione, nei confronti del mondo, del vocabolario, delle persone o dei sentimenti coinvolti, nel materiale della narrazione. E prendere posizione significa tracciare un sentiero, un percorso che sia quello e non un giardino di percorsi. Anche tracciare un giardino di percorsi è tracciare un lungo percorso, che ha la forma di un labirinto; Borges esemplifica questo in maniera esemplare. Ci troviamo di fronte sicuramente a una presa di posizione, che deve essere fortemente interconnessa all’oggetto del narrato.

E che si adatta a esso, senza essere uno stampo, né un modello.

No, proprio per evitare di essere ripetitivi, di evitare cliché, e di assecondare la logica della moda o quello che vorrebbe il pubblico. Uno deve comprendere, dentro ciò che sta raccontando, la modalità migliore per il racconto; il che non vuol dire che per forza sia anche quella immediatamente più efficace. Lo è, magari, in un lascito del tempo, ma il racconto, in qualche modo, agisce con un deposito seminale che magari germoglia dopo mesi, anni.