ANGELA FORTI | Sulla versione firmata Lisa Ferlazzo Natoli di When the rain stops falling è già stato scritto (qui la recensione di Renzo Francabandera). La nuova produzione Teatro di RomaERT ha saputo stupire e coinvolgere nonostante l’apparente verbosità e staticità. Quello dell’australiano Andrew Bovell è un testo potente, dalla dinamica interna sofisticata e delicata che non perde il proprio specifico nella fedele ed elegante traduzione di Margherita Mauro.

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Dalla locandina del debutto, Scott Theatre di Adelaide, 2008

Si dice che il teatro postdrammatico abbia da un pezzo rinnegato verosimiglianza e realismo per rivolgersi – e in un certo senso rassegnarsi – al carattere artificiale dell’evento teatrale: nell’epoca della relatività – e del relativismo, per quanto distanti siano i due ambiti – il ruolo dell’arte diviene quello di sfruttare le proprie specificità tecniche per togliere veli, pantaloni e quant’altro alla realtà, per smascherarla, non certo per proporne una brutta copia sul palcoscenico.

Spogliare la realtà significa risalire agli schemi ricorrenti su cui fatti e comportamenti sembrano costruirsi. Un modo molto interessante di farlo è attraverso il linguaggio, smembrandolo nelle sue particelle atomiche e studiandolo in quanto base / sintesi concettuale estrema dell’esperienza. Gli schemi linguistici a cui l’arte dell’ultimo secolo ha approdato per poter comunicare i risultati della propria ricerca hanno qualcosa di sconvolgente agli occhi del pubblico: in realtà, ciò che fa scalpore non è l’arbitrarietà e lucidità dell’invenzione artistica, ma la pregnanza della realtà che vi è sotto; ciò che stupisce è l’affiorare di una realtà che riconosciamo essere la nostra, ma che ancora non avevamo visto in quei termini.

Questo coinvolge tutti i nuovi linguaggi della scena: la digitalizzazione e medializzazione, le distorsioni temporali, la ricerca di nuovo senso nel corpo; sono tutte direzioni che possono, di primo acchito, risultare criptiche, perfino provocatorie, ma che in realtà indagano uno stato profondo, non necessariamente conscio, del nostro vivere.

In questo senso l’opera di Bovell si configura, almeno dal punto di vista testuale, come fortemente mimetica. Essa è partecipe di una dimensione di ridondanza e sovrapposizione continua di input, risultato in un testo prepotentemente dialogico (ogni azione è didascalicamente spiegata da una voce fuori campo) e, soprattutto, di una forte scomposizione temporale.

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Foto Sveva Bellucci

Si parte dal futuro, ovvero da un distopico, dispotico e piovoso 2039, dall’atterraggio del profetico pesce nelle mani del cinquantenne Gabriel York, nel cui appartamento, ad Alice Springs, torneremo solo per il finale. La rilevanza della questione temporale è segnalata senza attesa dopo il prologo: abbiamo la compresenza scenica di tutti i “nove” personaggi, mentre un’interminabile finta didascalia ne declama l’età e ne descrive le azioni (quasi le stesse per tutti). Da qui in poi la narrazione si svolge in altri quattro luoghi principali: un appartamento di Londra (1960-1988); il Coorong e il massiccio dell’Uluru nel 1988, e, infine, un appartamento ad Adelaide, nel 2013. Le tappe si susseguono sempre più velocemente, confondendosi in un complesso “inceppamento” temporale: Alice Spring 2039, Londra 1988, Londra 1959, Adelaide 2013, Coorong 1988, Londra 1988, Londra 1962, Adelaide 2013, Coorong 1988, Londra 1988, Londra 1965, Coorong 1988, Adelaide 2013, Uluru 1988, Londra 1968, Uluru 1970-1988, Adelaide 2013, Coorong 1988, Londra (con una significativa compresenza dei personaggi del 1968, 1988 e 2013), Alice Springs 2039…

FRAN, verrebbe da dire.

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Altro elemento fondamentale del testo di Bovell è la ripetizione, che H.T. Lehmann assocerebbe inevitabilmente alla struttura temporale sconnessa. Col passare degli anni e l’alternarsi dei personaggi spicca la ripetizione esasperante delle situazioni: mentre fuori piove da settimane, mesi, anni, qualcuno rientra a casa; qui appende abiti e ombrello all’attaccapanni (sul fondo della scena, a destra); qui, il personaggio femminile (madre/compagna/moglie) lo accoglie con una zuppa di pesce, di un pesce per qualche ragione straordinario, trovato casualmente in pescheria e destinato a non essere apprezzato da nessuno dei commensali. Nello stesso disagio, nella palpabile incomunicabilità tra i personaggi si scioglie, pian piano, la vicenda di una famiglia come potrebbero essere molte, densa di errori e di non detti; prende corpo, lentamente, una tragedia da salotto complessa, quasi checoviana, coronata dall’eccesso dell’omicidio.

Come permangono le dinamiche familiari, i modi di dire, la zuppa di pesce e la pioggia, così anche la scenografia, minimale, non cambia. Tutti i personaggi si incontrano attorno allo stesso tavolo modulare, sulle stesse sedie. Il cambiamento nell’ambientazione è segnalato dalle didascalie proiettate che, come in un film, ci comunicano dove, quando e chi.

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Tuttavia, ciò che al cinema riesce tutto sommato semplice – flashback e forward – a teatro deve essere studiato con cura perché diventi accessibile allo spettatore. Le due figure cardine della storia, Elisabeth Perry in Law e Gabrielle York, vengono rappresentate in età diverse; troviamo così due attrici per ognuna, oltre alla giostra di personaggi che gli gravitano intorno permettendone il collegamento.

Ci possono essere diverse prospettive per studiare questo genere di scomposizione temporale. Da un punto di vista sociale essa imita il processo così detto “mediale” di attenzione, ovvero l’abitudine delle generazioni digitalizzate di assorbire continuamente informazioni differenti e di dover skippare senza sosta tra ambiti e contesti estremamente diversi, selezionando i pochi dati davvero rilevanti.  È la conformazione stessa della realtà postmoderna, la freneticità, la virtualità, a suggerire la costruzione di «labirinti testuali», come indica Stefano Bartezzaghi. La drammaturgia si pone come frutto maturo dell’arte che ha saputo accogliere i meccanismi di una realtà dell’indeterminazione, per l’appunto quantistica, in cui è pressochè impossibile la ricostruzione di cause e meccanismi intermedi. Abbiamo un appartamento, un uomo e un pesce caduto dal cielo. Il perchè e il percome sono una questione di punti di vista, di sistemi di riferimento, di ipotesi scarsamente verificabili (difficile non pensare al capitale Copenaghen di Michael Frayn).

La seconda prospettiva interpretativa potrebbe vedere, invece, la disgregazione temporale come irrimediabile conseguenza del plot. Sarebbe la distruzione personale dei personaggi e della loro storia famigliare, la crisi del loro dramma, a richiedere una costruzione temporale rarefatta. Ci viene in aiuto Lehmann: con le relazioni intersoggettive si confonde e scompone anche il tempo comune; se è il continuum temporale a permettere l’unità del soggetto, allora la disintegrazione del tempo diviene segno della dissoluzione/sovversione del soggetto e delle sue certezze. Ovvero, l’assenza di un nucleo forte, riconoscibile, fa sì che i personaggi vaghino in orbite non ordinate, spesso impedendone l’incontro. A una crisi del dramma corrisponde necessariamente una crisi spazio-temporale.

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Infine: la separazione e il continuo alternarsi dei piani temporali risulta funzionale e riconducibile alla struttura, tipica del “giallo”, adottata da Bovell.  L’intera drammaturgia rappresenta il tentativo di ricostruire l’oscuro passato del nostro “protagonista”, Gabriel York. Ogni scena contiene un piccolo indizio, di modo che soltanto nel finale lo spettatore (non il personaggio) possa davvero mettere insieme i pezzi (e scoprire, per altro, l’assassino).

La struttura ciclica e ripetitiva del testo permette l’apertura ottimistica del finale: Gabriel non può ricostruire il proprio passato, ma trova tuttavia il coraggio di porre fine a errori trasmessi da una generazione all’altra – l’interruzione del rapporto padre-figlio. La profezia si avvera, la pioggia cessa, il pesce è pronto – al forno, questa volta. Il tempo può finalmente tornare a scorrere.

N.d.A. Il riferimento a Borroughs-Kerouac (E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche, 1945) non è soltanto un divertimeno stilistico. Anche in questo libro – che ho curiosamente terminato in concomitanza con la visione dello spettacolo – abbiamo una narrazione composita di più personaggi (per ovvie ragioni in forma di diario): a essi corrispondono i diversi capitoli, ma i ricordi di ognuno, invece che collegarsi consecutivamente a quelli del capitolo precedente, si sovrappongono. Abbiamo, così, oltre a una molteplicità di punti di vista, un’interessante caso di diffrazione cronologica (la definizione è mia).

 

WHEN THE RAIN STOPS FALLING
Quando la pioggia finirà

da un progetto di lacasadargilla
di Andrew Bovell
regia Lisa Ferlazzo Natoli
traduzione Margherita Mauro
con Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Camilla Semino Favro, Francesco Villano
scene Carlo Sala
costumi Gianluca Falaschi
disegno luci Luigi Biondi
disegno video Maddalena Parise
disegno del suono Alessandro Ferroni
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione, Fondazione Teatro Due

Teatro Argentina – Roma
3 marzo 2019