GIORGIO FRANCHI | Lo scorso 21 febbraio è stata la ventesima Giornata internazionale della lingua madre. Istituita nel novembre 1999 dall’UNESCO, la ricorrenza nasce per tutelare le lingue di ogni popolo come «fattori essenziali per la qualità dell’istruzione, che è alla base dell’emancipazione di donne e uomini e delle società in cui vivono» (Irina Bokova, Direttore Generale dell’UNESCO).

La data del 21 febbraio è stata scelta per ricordare gli studenti dell’università di Dacca uccisi della polizia nel 1952 durante una manifestazione; chiedevano a Malik Ghulam Muhammad, presidente del Dominion del Pakistan, il riconoscimento della lingua bengali e il suo insegnamento, proibito dal 1947.

La risoluzione 61/266 dell’ONU, adottata dall’Assemblea Generale il 16 maggio 2007, accoglie l’iniziativa dell’UNESCO. Nel documento, l’ONU «riconosce inoltre che il genuino multilinguismo promuove unità nella diversità e comprensione internazionale».

Anche mettendo da parte ogni ragionamento sull’uso della lingua nel contesto della diplomazia tra gli Stati, chiunque può riconoscere un’importanza fondamentale nella propria lingua madre. Realizziamo quanto sia speciale la lingua che parliamo quando cerchiamo di tradurre una parola in un altro idioma e scopriamo che non è possibile. Quella parola intraducibile diventa così ai nostri occhi un tesoro, qualcosa di estremamente unico e prezioso.

L’esempio più immediato di parole intraducibili spesso coincide con le espressioni colorite. Non ho mai trovato in nessuna lingua una traduzione comprensiva delle innumerevoli sfaccettature del termine paraculo; in italiano, invece, non riesco a identificare altro che vaghissime e insoddisfacenti approssimazioni per il lombardo balabiòtt (per chi non lo sapesse, è un mix fra entusiasta, stupido e disonesto).

Il poliglottismo dovrebbe essere visto come la condivisione di informazioni in ambito medico: un processo fondamentale per l’avanzamento della conoscenza, in cui la storia peculiare di ogni lingua è la metodologia con cui si arrivano a identificare concetti che, attraverso altre lingue, rimangono completamente ignoti. Senza che ciò diventi un invito a dare a qualcuno del paraculo o del balabiòtt, ma piuttosto ad arricchire il nostro lessico integrando le parole intraducibili di ogni lingua.

Ad esempio, ogni volta che mi troverò davanti uno dei siparietti imbarazzanti di certi programmi televisivi pecorecci (altra parola intraducibile) e vorrò esprimere il mio “senso di imbarazzo per chi sta eseguendo l’azione alla quale assisto senza prendere parte, pure se chi la sta eseguendo non prova lo stesso imbarazzo”, trarrò il beneficio della sintesi dal tedesco fremdschämen (fremd = amico, schämen = vergogna).

Un esempio di Fremdschämen.

L’idioma mitteleuropeo, grazie a una lunga tradizione filosofica, dispone praticamente di una parola per ogni cosa; tuttavia non ha un termine che ricalchi la parola intraducibile hiraeth (per quanto sehnsucht abbia qualche somiglianza con essa). Il termine viene dal gallese ed è, con ogni probabilità, uno dei vocaboli più belli e profondi del mondo: indica una nostalgia dolceamara di un’epoca, un luogo, una persona lontana e forse mai conosciuta o addirittura inesistente, per la quale proviamo al tempo stesso dolore e gratitudine.

In esperanto c’è samideano, di cui ho già parlato in questo articolo. Il significato letterale è “sodale”, “persona con le stesse idee”, ma il concetto è molto più ampio di così: l’idea è intesa come una visione globale di unità linguistica e sociale, secondo l’idea della lingvo internacia di Zamenhof. Se “persona con le stesse idee” suggerisce una divisione fra scuole di pensiero su tematiche temporanee, samideano si riferisce, al contrario, all’unione in un principio comune a tutta la razza umana che dura tutta una vita.

Nessuna lingua è perfetta. Ogni lingua ha bisogno di tutte le altre lingue del mondo per descrivere la realtà; ancora di più quando questa cambia a un ritmo mai osservato prima nella storia.

Il gilbertese è la lingua parlata nell’arcipelago di Kiribati, uno Stato insulare della regione della Micronesia. A causa della bassissima elevazione delle sue 33 isole sarà la prima nazione a sparire a causa dell’innalzamento del livello delle acque. Secondo il libro Kiribati, scritto da Alice Piciocchi e illustrato da Andrea Angeli, la lingua gilbertese non comprende un termine per indicare il riscaldamento globale. A dimostrazione di quanto possa pesare una parola che manca.