LAURA BEVIONE | Nel 2018 la regista e performer Barbara Altissimo, direttrice artistica di LiberamenteUnico, incontra la “storia” esemplare di Elena Recanati, torinese classe 1922, ebrea, deportata, sopravvissuta, testimone. Il nipote, Guido Foa, disvela a Barbara le memorie di Elena che, giovanissima, visse la terribile esperienza della persecuzione razziale e della deportazione.

Quella storia diventa la gemma dello spettacolo LUCE26692, che avrebbe dovuto debuttare lo scorso maggio, e che la regista ha creato insieme alla sua fedele collaboratrice Emanuela Currao, drammaturga, e ai performer non professionisti che avevano partecipato ai progetti Polvere (2011-15, con gli anziani ospiti dell’Istituto Cottolengo) e In Verdis (2016-19, con giovani under 25). La memoria di Elena e la sua grande storia d’amore sono diventate così il punto di partenza per attraversare decenni in cui la tentazione di escludere il “diverso” purtroppo non è stata estinta.

Foto di Valentina De Gaspari

In vista dell’atteso debutto dello spettacolo – il 10 e l’11 giugno alla Casa Teatro Ragazzi di Torino – abbiamo dialogato con Barbara Altissimo, per farci raccontare il processo di creazione del suo lavoro e i cambiamenti che il rinvio dovuto alla pandemia ha generato.

Com’è avvenuto l’incontro con la figura di Elena Recanati, la cui testimonianza è alla base del progetto LUCE26692?

Sono venuta a conoscenza dell’incredibile storia di Elena Recanati qualche anno fa, grazie all’incontro con una persona a me molto cara. Così dopo un periodo di riflessione e ricerca ho condiviso con Emanuela Currao questo materiale prezioso.  Emanuela ha rielaborato queste memorie e ne è venuta fuori la drammaturgia che è lo scheletro del progetto. Io poi ho curato la messa in scena, la regia e ho portato alla luce questa storia incredibile.

In che modo tu e la drammaturga Emanuela Currao avete rielaborato i ricordi di Elena?

Con Emanuela collaboriamo da molto tempo ormai. Abbiamo dei codici di linguaggio e di creatività comuni. Tra di noi si è creata una sorta di pattern dentro al quale ci muoviamo. Emanuela dice, con le parole, le immagini e i quadri che io, mano a mano, realizzo.
Con LUCE 26692 abbiamo proceduto allo stesso modo delle altre produzioni. Abbiamo cioè raccolto testimonianze, racconti, interviste, corrispondenze, appunti e riflessioni intorno alla figura di Elena Recanati.
Questo materiale poi è stato trasformato da Emanuela in un testo che, pur essendo molto fedele alla realtà dei fatti, ha aperture e visioni poetiche che camminano altrove. Una volta costruito il testo abbiamo poi lavorato alla vera e propria messa in scena con gli interpreti.
Questa storia racconta uno fra i tanti drammi legati alla Shoah, ma la nostra scelta è stata anche quella di raccontare una grande storia d’amore fra due ragazzi torinesi.Chi saranno i performer in scena e qual è il tipo di lavoro che hai realizzato con loro?

L’idea iniziale era quella di raccontare questa meravigliosa testimonianza da un punto di vista particolare, cioè dall’occhio delle persone più fragili quindi quelli di alcuni ospiti dell’Istituto Cottolengo, di alcuni bambini e un di danzatore straordinario con sindrome di Down. Con loro siamo stati in “ammollo” sui materiali cercando di elaborarne una narrazione condivisa. Purtroppo, però, a causa della pandemia la collaborazione con gli ospiti del Cottolengo si è dovuta interrompere. Tra le persone in scena non posso non citare Anna Stante e Didie Caria, che è anche autore e interprete delle musiche di scena.

Lo spettacolo avrebbe dovuto debuttare un anno fa, nel maggio 2020: cosa è accaduto in questi mesi alla messinscena?

Ovviamente lo spettacolo avendo avuto, per ovvi motivi, uno slittamento di debutto di un anno, si è trasformato dall’idea originale. Gli ospiti del Cottolengo, per esempio, parteciperanno solo attraverso un video. Ma, al tempo stesso, in questo spazio di attesa in cui, a parte il primo lockdown, non abbiamo mai smesso di provare, siamo riusciti a far depositare e stratificare il lavoro. E ce lo siamo ritrovato tra le mani cambiato, cresciuto e maturato al tempo stesso.

Credi che la pandemia abbia cambiato le urgenze e il linguaggio degli artisti, da una parte, e, dall’altra, le aspettative del pubblico teatrale? In che modo?

Non so rispondere a questa domanda, probabilmente la risposta a tutto ciò che è accaduto e sta ancora accadendo l’avrò tra cinque anni, quando ci sarà la giusta distanza da questo accadimento epocale che ci ha travolti e ha sicuramente stravolto le nostre vite.
Siamo cambiati? Siamo migliorati? Peggiorati? Chissà, non azzardo riflessioni filosofiche al riguardo. Ciò che personalmente ho sperimentato è stata l’importanza di stare in ciò che è, anche se non mi piace. Riuscire a sentire e a stare apre a spazi nuovi dove c’è vita; è possibilità di trasformazione.
Ed ecco che, personalmente, ho sperimentato la vita, la creatività e l’arte nonostante tutto. Perché l’arte vive sempre.
È comunque bello ed emozionante tornare in teatro. Per condividere tutto questo mondo con gli altri.