ILENA AMBROSIO | “Il palcoscenico lo intendo come un luogo provvisorio che i personaggi non smettono mai di pensare di abbandonare. La sfida del teatro è questa: abbandonare il palcoscenico per ritrovare la vita reale. Resta naturalmente inteso che non so affatto se la vita reale esista da qualche parte, e se abbandonando il palcoscenico alla fine i personaggi non si ritrovino su un altro palcoscenico, in un altro teatro, e così via. Forse è questa domanda, fondamentale, che permette al teatro di durare”.

Bernard-Marie Koltès ha definito a chiari termini (qui in un’intervista) la propria concezione di teatro, tratteggiando una poetica: quella di una scrittura teatrale che fa del luogo di confine o del non-luogo il suo spazio prediletto, ma che in esso vuole trasfigurare la vita vera, nella sua evidente e selvaggia brutalità.
Nella solitudine dei campi di cotone è del 1986, tre anni prima della tragica morte dell’autore per AIDS, ed è forse il suo testo più noto, esemplare della sua scrittura teatrale.
Una drammaturgia densa e verbosa che Andrea De Rosa ha rincontrato durante il primo lockdown traendone delle personalissime suggestioni ruotanti attorno alla desolata immagine dei teatri vuoti.

Su un percorso che delimita una frontiera, un dealer (Federica Rossellini) e un compratore (Lino Musella) si incontrano. Accade nell’ora che volge al crepuscolo, un’ora di frontiera anch’essa, cristallizzata, come i due, tra luce e ombra. Un non-luogo e un non-tempo benché quest’ora e questo luogo sia il refrain che puntella tutto il testo facendo proprio della dimensione spazio-temporale ciò che definisce la natura del rapporto tra i due: da un lato la diffidenza di un incontro che avviene in un ambiente solitario, l’estraneità, lo spaesamento; dall’altro l’istintiva ostilità del cliente in un tempo che è quello dei rapporti brutali tra uomini e tra animali.

L’ampia bocca scenica del bellissimo Teatro Astra di Torino è nuda, spogliata delle vesti delle quinte, del sipario, del fondale: lo scheletro del teatro è a vista. In scena due grandi riflettori posti sulla linea trasversale che dall’angolo sinistro del fondo conduce a quello destro del proscenio; in corrispondenza del primo una tenda rossa, sorta di nido al quale più volte torna il dealer in teatrale abito settecentesco; sulla traiettoria del secondo entrerà in scena, dalla platea, il cliente, t-shirt e giacca di jeans. Su questa diagonale – immagine ricorrente nelle messe in scena contemporanee a significare una relazione oppositiva, conflittuale; penso al recente Sorelle di Rambert – sta il punto in cui si incontrano, per caso o per la reciproca e complementare necessità di esistere, il dealer e il cliente.

La scena, essenziale e desolata, è suggestiva. Di grande effetto la partitura luminosa composta da Pasquale Mari che con intelligenza armonizza luci e ombre, ora più ora meno nette, sulla traiettoria diagonale; benché lasci perplessi che i bellissimi riflettori in scena restino semplice orpello se non nel finale. Affascinante e colta la scelta musicale che affida alle Variazioni Goldberg di Bach suonate da Glenn Gould il tratteggiamento di una dimensione fumosa, a momenti verrebbe da pensare post-apocalittica.

Foto Andrea Macchia

Propriamente in una distopia Koltès ha immaginato il faccia a faccia tra i suoi personaggi, che duellano con l’arma della parola, monologando, più che dialogando, attorno alla relazione ambigua, pericolosa ma seducente, che si instaura quando di mezzo c’è non tanto un oggetto desiderato quanto il senso stesso del desiderio. E non conta allora cosa sia in vendita o cosa si desideri – resta un mistero per tutto il tempo; ciò che conta è quell’aspirazione pre-logica, ferina, quindi selvaggia e istintiva che mette a rischio le relazioni, che porta con sé il pericolo incombente di essere attaccati e la imprescindibile necessità di difendersi. Come nel mondo animale che a più riprese si fa termine di paragone delle dinamiche umane. Fra due uomini che si incontrano bisogna scegliere sempre di essere quello che attacca.

È un testo denso, fortemente politico – impossibile non pensare a tutto il discorso critico del socialismo intellettuale sul capitalismo – ma anche intensamente filosofico, contenitore di un flusso, a tratti delirante, di pensieri amari, sarcastici, non di rado brutali attorno ai rapporti tra esseri umani; che sfrutta meravigliosamente l’arma dell’ossimoro – luce e ombra, alto e basso, linea curva e retta, freddo e caldo – per tratteggiare i contorni delle relazioni di dipendenza che si instaurano tra chi ha e chi ha bisogno, tra bruti e fanciulle. Dipendenza dai tratti per nulla scontati perché reciproca, a bene vedere, e che, come nella sindorme di Stoccolma, rende entrambi i termini della relazione interdipendenti, fragili e incompleti. Drammaticamente soli. 

Questa parola intricata, astratta da una concreta spazio-temporalità tanto da sembrare pronunciata dalla bocca di sopravvissuti è accolta con grande generosità dagli interpreti. Musella conferma la sua statura da grande attore e con cura certosina del timbro, del gesto e dell’espressività fa del cliente un personaggio i cui accenti virano credibilmente dallo stupore al fastidio, dalla rabbia all’insofferenza.
Brava e seducente ma non sempre centrata la Rossellini che per fedeltà al testo, ma non alla verosimiglianza, parla di sé al maschile; a tratti troppo spinta sui toni dell’aggressività e spesso come trascinata fuori dalla relazione scenica dalla – forse olegrafica – gestualità teatrale affidatale. 

Ma manca tra i due una verità della relazione. Il difficile e labirintico testo di Koltés, con la  fitta rete di figure retoriche, il continuo andirivieni tra la concretezza animale del reale e l’astrazione della riflessione sociologica e filosofica, avrebbe forse avuto bisogno di un affondo più verticale nel suo substrato semantico per poterne cogliere e accogliere un concreto riverbero nel reale. Le parole, allora, restituiscono solo il loro aspetto “faticoso”, la loro densa e impenetrabile fumosità che l’interpretazione attoriale, pur di valore, non riesce a fendere. 

“Ho immaginato il luogo dove si svolge Nella solitudine dei campi di cotone come un teatro vuoto. Ho immaginato il personaggio del venditore come un’attrice dimenticata su un palcoscenico e il cliente come un uomo che viene da fuori. Ho immaginato che la merce intorno alla quale si conduce la misteriosa trattativa tra i due personaggi sia il teatro stesso”.  Andrea De Rosa ha dichiarato esplicitamente la lente attraverso la quale ha osservato e riletto per la scena il testo di Koltés. Una interpretazione plausibile nel momento in cui ci si approccia a un testo del genere durante un periodo traumatico, che è stato davvero un apocalisse per la psiche dell’uomo contemporaneo. E tuttavia, il comprensibile trasporto emotivo verso l’immagine della desolazione di uno spazio teatrale non sembra fornire sufficiente materia per la sua ritessitura scenica. Oltre quell’immagine tutta la restante e brulicante materia drammaturgica risulta slegata dal progetto generale, lontana dal sentire degli attori e, ancor di più, da quello dello spettatore.
Resta allora sbiadito il complesso affresco politico della società del consumismo, del capitalismo, ma anche filosofico, e certamente segnato da una drammatica biografia, di una società in cui l’individuo è costantemente in pericolo, in cui la brutalità e i rapporti illeciti mettono a rischio quanto c’è di più essenziale: il desiderio.
Che è poi motore della sopravvivenza.

 

NELLA SOLITUDINE DEI CAMPI DI COTONE

di Bernard-Marie Koltès
traduzione di Anna Barbera
il dealer Federica Rosellini
il cliente Lino Musella
regia Andrea De Rosa
progetto sonoro G.U.P. Alcaro
disegno luci Pasquale Mari
assistente alle luci Andrea Tocchio
assistente alla regia Thea Dellavalle
assistenza ai costumi Bàste
organizzazione Paolo Broglio Montani
il costume di Federica Rosellini è di Tirelli Costumi SpA
produzione Compagnia Umberto Orsini

foto di copertina di Mario Spada

Teatro Astra, Torino
06/05/2022